lunedì 19 dicembre 2022

Ivo Flavio Abela - Soggiorno a Optina. Discesa nell'anima russa

Ivo Flavio Abela, Soggiorno a Optina, Castelvecchi 2021

Libro insolito, di notevole interesse e di grande fascino, questo Soggiorno a Optina di Ivo Flavio Abela. Come recita il sottotitolo, si tratta di una vera e propria «discesa nell’anima russa», una testimonianza di rigorosa e intensa passione da parte dell’autore nei confronti della spiritualità, della storia e dell’iconografia della Madre Russia. 

La struttura portante dell’opera è costituita da un diario redatto da Ivo Flavio Abela nell’aprile del 1993 e successivamente integrato negli anni 2018-2020, nel quale, in modo sorprendente, ci imbattiamo in una narrazione stratificata e multiforme, ricca di informazioni storiche, letterarie e pittoriche, accompagnate da una scrupolosa documentazione, che costituisce una vera miniera di notizie, aneddoti e citazioni (sono presenti nel volume anche otto illustrazioni e un’ampia bibliografia), insieme a rimandi interni, notazioni personali,  moti dell’anima, meraviglie e misteri, che rendono la lettura scorrevole e accattivante, nonostante la complessità dei temi e degli argomenti affrontati. 

Al centro di tutto vi è Optina Pustyn’, il più famoso monastero di Russia, nel quale l’autore soggiorna, nel periodo sopracitato, durante la Pasqua ortodossa, e a pochi anni di distanza dalla restituzione dello stesso monastero, da parte del regime sovietico, alla Chiesa Ortodossa. E subito Optina  si rivela come il luogo storico e sacro di una spiritualità che non smette di esercitare la propria influenza e il proprio fascino come nel passato. Le figure di Gogol’, Dostoevskij, Tolstoj e altri autori sembrano essere in qualche modo ancora presenti: le loro vicende, infatti, vengono rievocate, tra un’annotazione diaristica e l’altra, in modo conseguente e spontaneo, cosicché la cronaca del presente s’intreccia costantemente con l’enorme patrimonio culturale russo, in una sorta di misteriosa attualità. La lettura del diario diviene, pertanto, duplice. Essa si configura non solo come la testimonianza di quanto visto e vissuto dall’autore, ma rappresenta anche la partecipazione sua e nostra a una conoscenza ulteriore, alla consapevolezza che i protagonisti e le opere del passato permangono, vivono ancora, al di là di ogni barriera storico-temporale, in un Oltre che nel libro è incarnato dalla guida Vasilij, uno ieromonaco dall’eccezionale carisma. Proprio costui può essere considerato coprotagonista, in quanto, come l’io narrante, apre e chiude la vicenda del soggiorno a Optina. 

Numerose sono le pagine di particolare rilievo ed è impossibile citarle tutte. Non si possono, però, non segnalare quelle dedicate a Dostoevskij e a Tolstoj e al rapporto che essi ebbero con Optina e con i monaci, e come tutto questo sia rinvenibile, a una attenta lettura, in alcune delle loro opere. Ampio spazio, in particolare, è riservato a Tolstoj, in una dimensione assai suggestiva e imprevista, che non vogliamo rivelare per non togliere al lettore il piacere della scoperta. Vale la pena citare anche i passi relativi alla vita dei cosiddetti folli in Cristo, come quella esemplare di Dobri Dobrev, o quella rappresentata da Evgenij Vodolazkin nel suo romanzo Lauro. Degni di nota sono poi i racconti delle esperienze dello stesso Vasilij e dei fratelli Kireevskij, inoltre particolarmente curiosi risultano i brani riguardanti il rapporto tra esseri umani e animali all’interno dell’universo ortodosso, come la vicenda della lupa dell’eremita Ignatij Briančanimov, o la storia del gatto chiamato Rasputin, narrata da Tichon Ŝevkunov. Molto bella e illuminante è infine l’intervista telefonica ad Andrej Tarkovskij Jr, che risponde alle domande sul padre Andrej Tarkovskij, grande regista, e su Arsenij Tarkovskij, poeta fra i più significativi del Novecento russo. Tutte figure che, insieme alle altre, vanno a comporre nel libro l’affascinante mosaico della grande tradizione spirituale russa, che Ivo Flavio Abela ha voluto consegnarci in modo così originale, mediante un lavoro tenace e appassionato, durato alcuni anni. Egli non si è arreso di fronte a un’impresa estremamente ardua e ha accettato il rischio di un’opera coraggiosa, non classificabile in un genere preciso, al di là degli schemi. Dobbiamo essergliene grati, perché la sua fatica non è stata vana. Noi, infatti, a lettura ultimata, possiamo affermare di essere riusciti a cogliere davvero l’anima russa, assaporandone la bellezza e il mistero.

Mauro Germani

 

martedì 6 dicembre 2022

"LA PAROLA AI POETI"


Su "LA POESIA E LO SPIRITO" un mio intervento e una mia poesia nell'ambito della rubrica "LA PAROLA AI POETI": QUI

lunedì 5 dicembre 2022

sabato 3 dicembre 2022

Marco Molinari recensisce "Tra tempo e tempo" su "La voce di Mantova"


Ringrazio di cuore Marco Molinari per questa sua bella recensione al mio libro "Tra tempo e tempo", pubblicata sul quotidiano LA VOCE DI MANTOVA. (cliccare sul testo per ingrandire)

martedì 25 ottobre 2022

Corrado Passi - Rego Park

Corrado Passi, Rego Park, Castelvecchi, 2021

Che cosa significa appartenere a qualcuno o a qualcosa? E qual è il senso, la qualità della nostra eventuale appartenenza?

Rego Park è un romanzo di domande che investono il nostro essere nel mondo, il nostro rapporto con noi stessi e con chi ci sta accanto. Sono interrogativi non espliciti, tuttavia presenti nelle pieghe della narrazione, in profondità, sotto la superficie degli eventi e dei comportamenti dei personaggi.

La storia di Ellie e Liam, i protagonisti, è segnata dal passato, da traumi che assediano l’anima, da una solitudine che sa di sconfitta. Entrambi sono dei sopravvissuti, dei superstiti di un destino avverso dal quale cercano un possibile riscatto: Ellie, negoziatrice internazionale, è rimasta vittima di un attentato in cui ha perso la vista; Liam, invece, è prigioniero del ricordo dell’amatissima moglie prematuramente scomparsa. Il loro casuale incontro a Rego Park, nel Queens, si profila come l’occasione per tentare una nuova vita, per riappropriarsi di un senso smarrito da tempo.

Lo spostamento da New York alla California è per loro una sfida che mette tutto in gioco, in una condizione di equilibrio instabile e che oscilla continuamente tra passato e presente. Perché l’ombra di ciò che è stato non si è mai dissolta completamente e il baratro della solitudine e della sconfitta è una minaccia costante. Ellie e Liam restano, infatti, personaggi sempre in bilico, ciascuno con le proprie fragilità, le proprie manie e i propri fantasmi. Che cos’è che li ha uniti veramente? Che cosa hanno cercato l’uno nell’altra? E che cosa ciascuno ha trovato? Era quello il sogno desiderato, in grado di chiudere profonde ferite?

Si comprende, leggendo il libro, che la questione non riguarda soltanto la relazione tra i due, ma qualcosa di ben più vasto e complesso e che concerne l’esistenza. La loro vicenda è una riflessione sul tempo, sul grado di consapevolezza che abbiamo di noi stessi e sugli aut-aut che la vita ci impone («Ogni nostro gesto, o parola, determina, a livello cosmico, un’immediata conseguenza, grande o piccola essa sia» si legge in un flash improvviso). A ben vedere, le perplessità, i silenzi, le delusioni, o gli slanci emotivi e le aspettative dei protagonisti ci istruiscono sull’importanza del discernimento interiore per verificare la natura e l’autenticità delle nostre azioni. Forse è proprio questa la lezione che – dopo prove anche estreme – apprendono in qualche modo i due protagonisti: il loro percorso chiede di essere reinventato in altre forme di condivisione e di appartenenza, con sincerità, senza più maschere e senza «il peso della rabbia e del rancore», perché se le cose o le persone si trasformano «in una prova costante, una sfida perenne, esse divengono, a poco a poco, il tuo nemico giurato, l’antagonista al quale, prima o poi, dovrai dichiarare la tua guerra privata». E poi: «non basta recuperarla, una vita; bisogna viverla in un modo nuovo, diverso da quello che ci ha portati a perdere la precedente».

La scrittura di Corrado Passi riesce a condurre il lettore alla scoperta dei pensieri e degli stati d’animo dei protagonisti con notevole sapienza stilistica e psicologica. La sua è una prosa ben calibrata, che sa rivelare a poco a poco,  che ammalia e incuriosisce, capace di conferire grande valore ai dettagli, agli oggetti (il Bosendorfer, tra tutti), agli ambienti (il caffè dove Ellie e Liam s’incontrano, la loro villa sulla baia di Carmel, in California, «l’ultima terra prima della fine del mondo») e ai paesaggi (Cape Town, i deserti del Medio Oriente, l’oceano con le balene) che diventano in questo modo quasi coprotagonisti, in una mirabile fusione con la vicenda narrata, secondo uno sguardo mobile e preciso, cinematografico.

Un libro da leggere e da assaporare lentamente per cogliere tutte quelle sfumature, quei riverberi sottili che palpitano a ogni pagina.

Mauro Germani

 

martedì 18 ottobre 2022

Letizia Dimartino - Le città degli altri


 Letizia Dimartino, Le città degli altri, Archilibri, 2022

In quest’ultimo libro di Letizia Dimartino il tempo è sempre perduto e sempre ritrovato, è un movimento circolare il cui diametro si concentra  e si espande continuamente. È una sorta di eterno ritorno dello sguardo e della scrittura, tra passato e presente, dove ciò che è stato riprende a vibrare sulla pagina, come fosse la prima o l’ultima volta, vacillante eppure ancora  nitidissimo, preciso, prima della sparizione. Ogni esperienza vissuta  ha l’intensità, la meraviglia, l’incanto di ciò che è stato unico, ma che pure a frammenti riappare, tocca l’anima, chiama per configurare un destino. Lontano e vicino si cercano, s’incontrano, s’interrogano. 

Chi scrive sa di questa dimensione ambigua, di questo essere fantasma tra i fantasmi. Eppure le città evocate (più che rievocate) da Letizia Dimartino giungono a noi quanto mai concrete. Milano, Roma, Messina, Catania, Napoli, Bologna palpitano con la loro vita dentro la vita: non sono mai sole, sono popolate dall’esistenza, dagli appuntamenti degli anni, dai sogni, dalle paure, dalle speranze, dai dispiaceri e dalle malattie, in un groviglio inestricabile di verità e di mistero. Ogni città ha una propria anima con cui l’autrice si relaziona. Uomini, donne, strade, case, nonché voci, rumori, stanze, cibi, abitudini,  sono certo quel che sono ma, al tempo stesso, diventano altro: domande inespresse, desideri segreti, amori implorati, illusioni, presagi, timori o aspettative che continuano a parlare e che ci interpellano. Perché è specialmente ciò che di solito non ha voce a prendere vita. 

Letizia Dimartino ha la capacità straordinaria di dare anima alle cose, di presentarci dettagli e circostanze apparentemente trascurabili che assumono però un’importanza eccezionale. Sono sequenze brevi o semplici fotogrammi che – come in una pellicola scomposta eppure unitaria – a volte ritornano tra una dissolvenza e l’altra, con minime variazioni, intessendo la scrittura di soprassalti emotivi e di memorie nette nella loro esclusività, nel loro speciale esserci. Grazie ad una prosa cadenzata e ricca di valenze poetiche, spesso contraddistinta da uno stile paratattico e/o nominale, che ben si confà alla successione dei ricordi, l’autrice ci fa sentire, come in un particolare processo medianico, ciò che in passato ella stessa ha visto e sentito e oggi ancora vede e sente: e sono volti, vie, piazze, treni, stazioni, negozi, paesaggi, sapori, odori, passioni, che conferiscono al libro un valore di preziosità, al pari di uno scrigno da custodire. 

Ecco allora, tra i luoghi narrati e vissuti, delinearsi la Milano del passato, conosciuta soprattutto nei soggiorni settembrini, la Milano di un tempo, sempre amata e fantasticata, nonostante a volte mettesse paura, con la sua vita così diversa e lontana, con la nebbia o i temporali improvvisi, «il cielo basso e denso», «i taxi verde scuro», «le farmacie specchiate, i marmi lucidi», «le cassiere dalle gentilezze eccessive», la Milano dove cercare costantemente quadrifogli che avrebbero cambiato la vita. E poi Roma, la malattia della madre, gli studi medici, gli alberghi, i caffè in via Veneto, la voglia di vivere come una specie di miraggio. E il mare di Messina, la città natale, quel «vento di scirocco sempre, con le carte che si sollevavano lungo le strade diritte e le onde si facevano bianche e pure il cielo», la città che si poteva vedere anche ad occhi chiusi. E Catania con le terapie speciali per la madre, i sogni della giovinezza, le strade dove «un tempo passavano carrozze e dame con cappelli infiocchettati» e «gli aranceti splendevano, e gli sguardi erano di fuoco dietro le persiane e agli angoli delle vie». E Napoli, meta un tempo di viaggi di nozze, il padre che amava cantare le canzoni napoletane e considerava Posillipo e Mergellina i luoghi più belli d’Italia, Napoli con il suo «dialetto incomprensibile», le vie strette, e Amalfi e Capri, conservate con commozione  in «cartoline anni Cinquanta con le strade fiorite e il mare a strapiombo».  E Bologna col suo freddo estivo, «gli alberghi chiassosi le loro stanze ammuffite i copriletti di cretonne fiorato l’odore del ragù le scale buie», e la Romagna con l’allegria delle donne, i loro nomi strani, i loro «occhi che guardano diritto», senza paura. 

L’ultimo capitolo del libro è infine dedicato al Sud, luogo di luoghi, centro di ogni centro, in cui il passato va sempre incontro al presente, s’avvicina e si allontana, con le sue figure che appaiono improvvisamente in un’assenza vibrante, dentro la scrittura e il dolore della malattia. Ora ci sono «solchi di carne, solchi d’anima», strade non più attraversate e piazze abbandonate. Ma le città qui narrate, quelle che hanno acceso i sentimenti dell’autrice («la vita mia è tutta un sentimento») non si sono spente del tutto. E se è vero che la malattia le ha rese da tempo irraggiungibili, è altrettanto vero che le loro luci, i loro colori, le loro particolari atmosfere in qualche modo esistono ancora: sono i doni che Letizia Dimartino offre  a noi lettori con la sua scrittura.

Mauro Germani

giovedì 13 ottobre 2022

Giuseppina Di Leo riflette su "Tra tempo e tempo"


 Germani Mauro / Tra Tempo e Tempo – 1. ed. – Re[a]daction Editrice: Roma, 2022 (Le Letterature Ecuba). – 92 pag. ; € 14,50.

 Tra Tempo e Tempo. Nel titolo Mauro Germani mette in relazione due termini uguali tra loro: tempo e tempo. Tuttavia, si tratta di una ripetizione necessaria perché attiene a due concetti ben distinti, ognuno dei quali viene indagato nella sua sfera specifica di senso: uno è il tempo del vivere quotidiano, con le sue preoccupazioni e le brutture; l’altro, il tempo della fede, della ricerca costante di Dio.

 In un linguaggio piano e puntuale, espresso in prima persona, ciascuno dei trentatré brevi capitoli introduce un argomento trattato in continuità con il precedente conferendo, all’intero libro, un respiro ampio ma, anche, un imprescindibile “vincolo di necessarietà” (locuzione cara all’archivistica) tra i temi esaminati.

 Il tempo del quotidiano prende le mosse dal passato, dall’infanzia, dall’amore per la lettura e la scrittura, dai ricordi famigliari; l’altro, il tempo della fede, abbraccia i temi cari a Germani filosofo e teologo: la perdita, la morte, il nulla, la verità, l’«urgenza di Dio», per citarne solo alcuni, non dimenticando il particolare amore per i gatti e, in generale, per tutti gli animali.

È opportuno rilevare come entrambe le due sfere vadano di pari passo, spesso intersecandosi in modo che la prima (la parte personale) nutra e fecondi quella spirituale: «Di qua la cosiddetta normalità. Di là il sacro e l’abisso, l’urgenza di Dio e il nulla. Da un lato la precarietà di ogni atto, la coscienza di una impossibilità o di una sconfitta, il dubbio dell’illusione; dall’altro una specie di chiamata, fuochi improvvisi, piccole estasi, cadute rovinose, paure, preghiere balbettanti, sangue che grida. Entrambe le parti instabili, ma sempre, ovunque, l’attesa di qualcosa. Una scissione che ho sempre guardato e che guardo. […] Bisognerebbe essere diversi […]». (A metà)

A tal proposito, riporto le parole dello studioso della mistica moderna, Mino Bergamo, riguardo al rapporto «tra biografia e l’opera, fra la scrittura e la vita». Dunque, Bergamo dice: «Anziché leggere l’opera di un autore in funzione della sua vita, proviamo ad esempio a interpretare la sua vita in funzione della sua opera. […] Anziché domandarci quale realtà sia segretamente rappresentata nel contenuto di un’opera, chiediamoci quale realtà la dinamica significante di quest’opera abbia la funzione di trasformare. Cerchiamo, in una parola, di comprendere quel che un autore fa con un testo, piuttosto che stabilire quello che egli rappresenta per suo tramite.» (Mino Bergamo, «La scrittura come modello di vita (Jean-Joseph Surin)», in Rivista del Centro Internazionale di Semiotica e di Linguistica, Università d’Urbino, 1991).

 Per meglio comprendere se ci sia e, in caso affermativo, quale sia la «dinamica» trasformatrice di Tra Tempo e Tempo, a venire in soccorso sul versante affermativo è il libro in oggetto nel passaggio in cui Germani dice che le chiese sono luoghi che racchiudono «un segreto antico e importantissimo. […] Sento la gravità del tempo e penso ai lunghi anni in cui mi sono sentito abbandonato e perduto, un orfano di Dio. Anni di disperazione sorda, di un’oscura volontà di annientamento». (In chiesa)

Il «segreto antico» di cui l’autore parla rimanda ad un sapere di cui hanno parlato i mistici a proposito del mistero della perdita (anéantissement) nella loro esperienza spirituale: «la perdita irreparabile della soggettività in cui il mistico incorre sulla via dell’unione a Dio». (Mino Bergamo, La scienza dei santi. Studi sul misticismo del Seicento).

 Per Germani la scrittura è testimoniare il divario tra vita vissuta e il bisogno di spiritualità: scrivere è un atto di umiltà e di rinuncia: «è soprattutto solitudine, vizio irrinunciabile o malattia, sguardo dentro l’abisso dell’esistenza e talvolta preghiera». (I Santi Evangeli)

E come diceva Adriana Zarri: «la preghiera si nutre di solitudine, non di isolamento; e il silenzio contemplativo è denso di parole e di presenze». (Adriana Zarri, Un eremo non è un guscio di lumaca)

 Dicevo che il titolo del libro contiene due parole uguali solo in apparenza, secondo un distinguo sapientemente indicato dall’autore nel corso dei vari capitoli. In particolare, parlando del Nuovo Testamento, egli parla di «bellezza e mistero» per connotare le parole del Vangelo.

 In uno scritto dal titolo Cristo e il Tempo Anna Maria Ortese parla dei Vangeli sottolineando la potenza innovatrice e rivoluzionaria di Gesù. Nel fare questo pone in risalto i grandi temi: il potere del male nel mondo, la morte terrena, il valore del tempo, ma sottolinea come la possibilità data all’uomo di venire fuori dalla perversione sia riconoscere Dio come unico e solo «vero signore della vita». Soltanto con l’obbedienza a Dio l’uomo si riscatterà dalla schiavitù del Diavolo, attuale «Signore del mondo». Sono cioè i temi che ritroviamo in Tra Tempo e Tempo:

«Ho sempre avuto la sensazione che, nel momento in cui compiamo le nostre azioni liberamente, siamo invasi o posseduti da qualcosa più grande di noi. Il bene e il male non sono soltanto azioni, né concetti astratti: sono due forze e due principi in opposizione tra loro, verso cui il nostro essere è costantemente aperto, che comportano conseguenze ben precise. Mentre il bene è sempre luminoso, il male lascia sgomenti». (Il male nel mondo)

 Riporto un ampio stralcio tratto dal libro di Ortese, nel quale si evidenzia la differenza sostanziale tra i due diversi significati dati alla parola tempo: «…il Vangelo resta chiuso ai potenti, ai felici, ai sani, ai giovani, agli intellettuali, agli amanti di superficie, per tutto il tempo che durano i loro beni, averi, onori e poteri: spesso l’intera vita. E subito, sin dall’inizio, è aperto a coloro che non ebbero nulla, o seppero presto che il loro tesoro era fondato sul nulla, né dato – se era dato – al loro Io invisibile e sicuro; ma solo era dato a tutte le possibili servitù e compromissioni dell’Io spirituale, alle firme che l’Io appose a quanti contratti ne chiedevano la lenta destituzione o degradazione. Per costoro […] Cristo venne, a dare, appunto, la resurrezione e la vita. Non venne per altri. // Si spiegano così le sue parole: «Non sono venuto per tutti». E ancora: «Non sono venuto a portare la pace, ma la guerra». La sua guerra è il rifiuto del tempo e delle leggi poste dal tempo, il distacco dalle sue fioriture già ipotecate dal perire, è la condanna già fissata per chi si nutre di solo tempo. Questo tempo è morto. Di solo tempo non ci si può nutrire, senza mangiare morte. Lo sanno i seguaci, i devoti, gli adulatori del tempo, ora moltitudini senza fine, che si saziano di un tempo sempre più breve, e tutto, già chiaramente, riverberato di morte. L’Eterno, il Dio, il Creatore con le sue inenarrabili grandezze, il RESPIRO (Dio è lo stesso RESPIRO, il MOTO e la LIBERTÀ di tutto), è tenuto fuori, o destituito costantemente, dai guardiani del Tempo. Il quale si fa anche Tempio, cattedrale dell’infimo, il livido, il gelido, il repellente, l’inerte – che deve essere il nutrimento dell’uomo, se si vuole che l’uomo sia morto. Ed eccolo, è come morto. […]» (sta in Anna Maria Ortese, Da Moby Dick all’Orsa Bianca: Scritti sulla letteratura e sull’arte).

 Per Mauro Germani mettere l’insegnamento di Gesù al centro del quotidiano vuol dire imprimere al tempo presente un carattere distintivo di “forza” e di “responsabilità” verso gli altri, argomenti da sempre oggetto di riflessione dei filosofi e dei mistici fino a Kierkegaard, Weil, Levinas. Ed è questa l’unica maniera che abbiamo noi, sorretti dalle sole forze in nostro possesso, per sconfiggere il male che ci circonda; è l’Eccomi! di Levinas che abolisce l’indifferenza di cui siamo così disgraziatamente ricchi, a tal punto da permettere lo strazio della ineguaglianza e della violenza più brutale, nonché della «perversione» che coabita nelle strade delle nostre città. E nel mondo.

 Concludo con gli splendidi versi di un poeta come Umberto Saba, per la sintonia che vi trovo, nella bellezza e coraggio, con le parole di Germani, e per il messaggio di speranza che può venire solo da chi preserva la propria purezza d’animo:

 QUASI UNA MORALITÀ

 Più non mi temono i passeri. Vanno

vengono alla finestra indifferenti

al mio tranquillo muovermi nella stanza.

Trovano il miglio e la scagliuola: dono

spanto da un prodigo affine, accresciuto

dalla mia mano. Ed io li guardo muto

(per tema non si pentano) e mi pare

(vero o illusione non importa) leggere

nei neri occhietti, se coi miei s’incontrano,

quasi una gratitudine.

                                      Fanciullo,

od altro sii tu che mi ascolti, in pena

viva o in letizia (e più se in pena) apprendi

da chi ha molto sofferto, molto errato,

che ancora esiste la Grazia, e che il mondo

- TUTTO IL MONDO – ha bisogno d’amicizia.

(Umberto SABA)

 Giuseppina Di Leo

 

 

giovedì 29 settembre 2022

Giovanni Nuscis: recensione a "Tra tempo e tempo"


 Ringrazio di cuore Giovanni Nuscis per questa sua bellissima recensione pubblicata sul sito "La poesia e lo spirito": QUI

mercoledì 28 settembre 2022

Tiziana Bracci - Riflessione su "Tra tempo e tempo"

Ringrazio Tiziana Bracci per questa sua bella riflessione sul mio libro "Tra tempo e tempo", pubblicata su Facebook.



 







 


lunedì 19 settembre 2022

Tiziana Bracci - Le scarpe del Papa

Tiziana Bracci, Le scarpe del Papa, Readaction Editrice, 2022

Una vita che sembra un romanzo e un romanzo che è un insegnamento di vita. La vicenda di Ivana Silvestri Cella è narrata da Tiziana Bracci con una sensibilità particolare, attenta a cogliere nell’esistenza della protagonista i segni, più o meno palesi, di «un’anima in cammino», nella consapevolezza che «nulla accade per caso» per coloro che hanno «occhi vigili». In effetti, Ivana Silvestri Cella rivela, fin da bambina, una «spiccata  intelligenza», una straordinaria attitudine all’osservazione, sostenuta da «una vivace memoria fotografica: tutto passava attraverso la sua camera oscura per essere cristallizzato e, al momento giusto, portato alla luce». 

A Montecatini, il negozio di calzature del nonno Veneziano Papini, dove il padre di Ivana, Renzo Silvestri, andò a lavorare, sarà per la protagonista la prima, incancellabile tappa di un percorso in cui sogni e progetti, non immuni da fatiche e delusioni, verranno poi premiati da incontri provvidenziali, scelte coraggiose, capacità di scartare l’inutile e succhiare «il nettare necessario». E proprio le scarpe del Papa si configurano così come il simbolo centrale di un legame particolare, di una relazione con il mistero e lo spirito, quel «filo di unione» che Ivana cercherà sempre di tenere ben saldo. La confezione delle «preziose “marocchino rosse con le fibbie d’oro”, specialità del negozio, consentirà infatti a Ivana di entrare in contatto con l’ambiente del Vaticano e, in modo particolare, con monsignor Montini, futuro Paolo VI, importante figura di riferimento per la protagonista. I continui spostamenti e viaggi che porteranno Ivana in diverse località, tra cui Firenze (dove studia al Grenoble e al British), Londra (dove instaura importanti amicizie), Parigi (dove viene assunta dall’atelier Bailmain), Roma (dove prima lavora presso l’ufficio delle pubbliche relazioni dell’Ambasciata Americana, poi apre un suo atelier nella centralissima via Gregoriana e successivamente diventa direttrice presso Driamar, negozio per bambini), Montreal (dove viene accolta dal console italiano, affezionato cliente di suo padre), New York (dove viene convocata dalla casa di moda più prestigiosa d’America, la “Donald Brooks”, e dove conosce il generale Richard Thomas Cella, che sarà poi suo marito), Miami (dove scompare nel settembre 2020) sono la testimonianza di una tenacia costante, di una ricerca coraggiosa della realizzazione di sé, mai aggressiva, e anzi sorretta da una spiritualità che non dimentica la richiesta dell’aiuto divino («Signore, salvami!»), nella ferma convinzione che «se le vie del Signore non seguono la logica umana non è colpa del Signore ma della limitatezza della logica umana». 

Dalla lettura di questo libro comprendiamo come Ivana abbia saputo conciliare le proprie legittime ambizioni di donna imprenditrice con i valori forti in cui credeva. La sua storia non è solo un esempio di emancipazione femminile coronata infine dal successo («chi l’ha detto che un cervello maschile funzione meglio di uno femminile?») ma anche di una rara capacità di riconoscere i propri errori come «necessari passaggi per progredire». Cuore e ragione sembrano trovare nella vita di Ivana Silvestri Cella una sintesi perfetta, in cui «il coraggio del fare» pare la conferma dell’evangelica parabola dei talenti. 

Ma chi è allora il vero protagonista di questa storia? Un disegno del cielo oppure «il tracciato di una mappa scritta da un impenetrabile mistero?». L’autrice Tiziana Bracci lascia aperte le domande al lettore, ma fornisce anche alcune riflessioni che conferiscono un valore aggiunto alla storia narrata: «Le esperienze fatte nella vita non sono, per se stesse, né negative né positive. La relazione che abbiamo con esse le rende un problema o una risorsa». A ciò si aggiungono le parole di Ivana: «Nell’analizzare la mia vita ho capito che a contare non è stato il lavoro, ma l’opera sublime della natura che ha scavato in me, mostrandomi l’invisibile: l’anima umana». Forse proprio in questo è racchiuso il segreto di Ivana Silvestri Cella. Quel segreto che, ovviamente, è rappresentato anche (e soprattutto) dalle «marocchine rosse con le fibbie d’oro»: le scarpe del Papa.

Mauro Germani

 

martedì 13 settembre 2022

Francesca Rita Rombolà recensisce "Tra tempo e tempo"


Ringrazio di cuore Francesca Rita Rombolà per questa sua recensione al mio libro "Tra tempo e tempo" (Readaction, 2022), apparsa sul sito PoesiaeLetteratura: QUI

lunedì 5 settembre 2022

Loretto Rafanelli - A ogni stazione del viaggio

Loretto Rafanelli, A ogni stazione del viaggio, Jaca Book, 2021

Un viaggio di soste per meditare tra le ferite e lo stupore del tempo, tra la storia e il suo mistero, alla ricerca di un respiro più grande, di uno sguardo di compassione, anzi di comunione, verso la complessità della vicenda umana. 

In quest’ultima raccolta di Loretto Rafanelli è possibile cogliere le vibrazioni di una parola poetica che si fa incontro, che «conta le pause delle notti,/guarda l’eccedenza e i grani/del raccolto, quell’atto dell’incontrare/ o l’estrema solitaria/oscurità». Si tratta di un andare nel tempo, nel suo «scorrere malato», nel suo pianto, accompagnato però da uno sguardo che affratella, da un sentimento che non si restringe su sé stesso e si appella alla vita di tante vite. Ecco allora il mare che unisce i bambini e i nomi dei vecchi nel suo respiro, i ricordi come passaggi «nel fiato della vita», «un precipizio di fosse» che si trasfigura in una visione  di «linee biancastre e levigate tra il teatro e il cielo». C’è ovunque un anelito che «parla con il seme della carità,/nella vena del tremore», che cerca di non soccombere «alle tante linee dei naufragi», e intende conservare «il filo delle parole» come il lume vivo di un inizio. Per avvertire ciò che fugge e tenere in noi il senso del mondo, nel crocevia che ci attende «a ogni stazione del viaggio», occorrono alfabeti speciali. Emblematico, in questo senso, è il rapporto tra padre e figlio che si configura come dono, promessa, continuità, volo infinito. 

Nei versi di Loretto Rafanelli la ricerca del respiro – di cui si è fatto cenno all’inizio di questa nota – segna una continuità profonda e tocca «il vertice e il vortice/ della speranza e della fine», il vertice delle congiunzioni, come indica il titolo di una poesia dedicata a Mario Luzi, nella quale si può ravvisare un richiamo a quel volare alto della parola, tra nadir e zenit, che cantò il poeta fiorentino, pensando al «celestiale appuntamento». 

Di particolare bellezza risulta poi la poesia La luce dell’acqua, dove il fluire del tempo, dalle memorie personali del poeta legate al fiume Reno, a  quelle di tante altre esistenze, con i loro «racconti,/canti e respiri», assume una dimensione ulteriore, in cui la vita diviene traccia d’infinito, preghiera, dono, respiro, labirinto, precipizio, destino, Arca divina. 

La partecipazione al dolore altrui – si vedano, ad esempio, le poesie che riguardano Anna Acmatova, oppure l’uccisione nel 2014 di quarantatré studenti, che contrastavano la delinquenza organizzata e il regime corrotto in Messico, o ancora Valeria Solesin, che morì nell’attentato terroristico al Bataclan di Parigi – non è mai disgiunta da una profonda pietas, dalla consapevolezza di una verità da reclamare nel buio della storia e oltre. Ciò che colpisce nella poesia di Rafanelli è proprio il valore della testimonianza, sia essa riferita alla cronaca quotidiana o alla profondità dell' intimo sentire: luoghi, paesaggi, voci, ricordi sono quell’alfabeto della vita che la parola ha il compito di custodire, perché «è necessario/incalzare di luoghi, di amori,/di carità, di perdoni,/le linee della vita».

Mauro Germani

 

giovedì 1 settembre 2022

Michele Caccamo - Le sacche della rana


Michele Caccamo, Le sacche della rana. Poemetto su Pier Paolo Pasolini, Castelvecchi, 2022

 

Nel poemetto su Pier Paolo Pasolini Le sacche della rana, la voce del poeta Michele Caccamo è avvolgente, ha un respiro di molti respiri, un ritmo che si consuma e si rigenera continuamente. I versi si stagliano come immagini tra dissolvenze, come scene di un film interiore eppure materico, che miracolosamente appare.

Qui troviamo l’anima di carne di Pasolini, i suoi fuochi, le sue contraddizioni, la sua fragilità e il suo tragico destino. Troviamo l’impetuosità dei sentimenti, quelli che assalgono tra speranza e disperazione e che non danno tregua, nell’urgenza di una sfida che è anche sacrificio. Casarsa, Sacile, Roma, Ostia sono alcune delle tappe di qualcosa di ben più vasto, di una storia che dice sé stessa per dire la sua passione travolgente, di un’esistenza divorata da una fame insaziabile. Il rapporto esclusivo con la madre e quello conflittuale con il padre, il dolore per la tragica morte del fratello Guido, gli incontri con i ragazzi di vita s’intrecciano con i pensieri e i sentimenti di Pasolini al di là di ogni facile retorica.

Ciò che colpisce è invece la verità scomoda della poesia, come via alternativa per parlare di un personaggio non in modo semplicemente biografico, ma sofferto, visionario e, al tempo stesso, puntuale. È infatti questa la scommessa poetica vinta da Caccamo, in quanto il lettore percepisce, a ogni pagina, la concretezza e la fisicità dell’anima pasoliniana, il suo dibattersi estremo. Così la furiosa dolcezza e la solitudine esistenziale e politica di Pasolini si scontrano inevitabilmente con un’Italia in trasformazione, votata a una deriva antropologica e sociale inarrestabile: quella dei polli d’allevamento del consumismo («Carosello era Gesù che moltiplicava il consumo e diceva è finita la penitenza è ormai tutto a portata di mano»), di una sacralità smarrita («Paolo VI disse che la gente non sapeva più che farsene della Chiesa perché era diventata un folclore un qualsiasi prodotto tenuto fermo sul mercato») e di un potere feroce e assassino («io so conosco i mandanti»). E poi il racconto, a frammenti, tesissimo, trepidante, di quell’ultima notte, come un giallo davvero troppo complicato e troppo semplice, Pino con «la camicia annerita dagli scappamenti delle auto», la cena in trattoria, Ostia «piena di fosse di rane», Pasolini disperato, tenero e fragile, il mare che «rotolava aveva freddo», quell’amore pagato e massacrato, e infine Ninetto chiamato per il riconoscimento e che «stava per perdere i sensi».

Un destino che grida come una domanda o una preghiera spezzata. Perché forse Pasolini continua a essere ucciso e la sua morte, il suo strazio non sono finiti. E questo non solo a causa dei troppi interrogativi irrisolti circa il suo assassinio, ma anche perché egli è stato l’ultimo grande intellettuale che abbiamo avuto. Dopo di lui, il nulla. L’agonia di Pasolini è oggi nella resa all’orrido che viviamo, come afferma Michele Caccamo.

Mauro Germani

mercoledì 31 agosto 2022

"Storie di un'altra storia": appunti di lettura di Giuseppina Di Leo

 


Ringrazio Giuseppina Di Leo per questi suoi appunti di lettura relativi al mio libro.


*Storie di un’altra storia. Racconti* di Mauro Germani. – 1. ed. - Calibano Editore: Novate Milanese (MI), 2022. – 144 pag. ; € 14,00.


Confusione e disappartenenza sono gli stati d’animo predominanti dei protagonisti dei racconti di Mauro Germani: uomini soli, disorientati, se non addirittura angosciati di fronte ai cambiamenti o alle scelte che talvolta la vita impone.

Alcuni racconti brevi parrebbero in bozza (Sul tram; I prigionieri) e quasi scritti in periodi di tempo differenti.

Il senso di mistero che pervade i luoghi, sono fonte di sgomento di ciascun personaggio e potrebbe darsi dello stesso narratore, identificato con un io-protagonista sopraffatto da eventi più grandi di lui o difficili da decifrare.

Ciascun racconto costringe il lettore a una pausa di riflessione.

Ma vediamone alcuni.

Un uomo redige con scrupolo una serie di rapporti, sono rendiconti del tempo che passa, notiziari di carta nei quali a prevalere dovranno essere valori come verità e onestà.

Ma questo modo di agire è sufficiente per essere a posto con la propria coscienza? e se, invece, il fare comportasse di avere uno sguardo diverso, come modo nuovo di intendere la vita?

La domanda è di per sé retorica se, dopo un sogno, l’uomo comincerà a dubitare delle sue ordinarie, ordinate certezze. (I rapporti)

Il capovolgimento di senso è un’altra caratteristica dell’autore. (Omicidio notturno)

Nel racconto La Cattedrale il luogo sacro sembra essere a sua volta luogo simbolico della conoscenza perduta, quasi paradigma del grembo materno in cui poter tornare a racchiudersi; o la via per riscoprire i reconditi poco esplorati o forse dimenticati (i bui corridoi, le cripte). Ma la cattedrale rappresenta il mondo stesso, il luogo in cui per ricordare occorre prima aver dimenticato. Il dato onirico da cui probabilmente trae origine questo come forse altri racconti, assume in sé carattere ancestrale e quasi mitico. L’immersione nel proprio io diviene ricerca dell’altro-da-sé.

Il vecchio maestro sente vacillare in sé la propria fede, nemmeno le preghiere lo confortano più. Il suo giovane discepolo rimane stupito dalle sue parole di sconforto, ma comprende anche un qualcosa che va ben oltre di ciò che ascolta: l’estremo senso di speranza nelle stesse parole racchiuso. (Il fiume)

Inquietante è poi La deviazione, tanto da sembrare la descrizione di un incubo:

Un uomo si perde nella notte a causa di alcuni lavori in corso. Si ferma in un paesino in festa, ma tutto fa presagire che aspettavano lui come vittima sacrificale per un aldilà senza ritorno…

Le ambientazioni sono quasi sempre notturne, i paesaggi desolati. In questo scenario, nel momento in cui sembra tardi ormai per rimediare a eventuali errori del passato, uomini senza grandi aspirazioni si ritrovano a fare i conti con il proprio “fantasma” o, anzi, con il proprio modo di essere. Difficile allora, se non impossibile, perché troppo tardi, poter riprendere una vita desiderata, mai interamente realizzata.

Tra le diverse recensioni, quella di Federico Migliorati focalizza, a mio modesto parere, i punti salienti dei racconti indicando poi l’ultimo di essi, *Il Capolavoro*, come la chiave di volta dell’intero libro.

Di Migliorati, in particolare, condivido quando dice: «Nei testi di Germani nulla è come appare in un primo momento: la psicologia dei personaggi li induce a errare, conducendo il lettore stesso fuori strada…».

E qui sottolineerei il termine “errare” per il duplice significato del verbo, in quanto è la stessa duplicità insita nei personaggi, come acutamente il recensore rileva.

Sono personaggi stralunati, ossessionati dalle loro fobie, inquieti. Ciò che a loro manca è soprattutto il tempo, elemento principe dell’ossessione.

L’«altrove misterioso» (L’uomo di un’altra storia) risiede al di là del luogo fisico e al di là del tempo. Se un’urgenza c’è, quella cercata è davvero la dimensione temporale, dimensione che, seppur a volte sottesa, è ben presente in tutti i racconti: la dimensione di un tempo che si è perduto, o quella di un tempo (ancora proustianamente?) da “ritrovare” per sé, come misura della propria condizione spirituale.

Vorrei però soffermarmi un attimo proprio sul racconto *Il Capolavoro*, decisivo sia per il finale “a sorpresa”, che ricorda Il cavaliere inesistente, ma anche e soprattutto per la citazione a Edmond Jabès in esso contenuta.

Un difetto del protagonista, Andrea Sismondi, consisteva nel non riuscire a scrivere «l’impossibile» che sentiva dentro di sé, cosa che gli fa dire: «quando pensavo alla scrittura, pensavo anche alla morte. Mi parevano unite da un mistero profondo: l’enigma della scomparsa. Ricordavo spesso un’affermazione di Edmond Jabès secondo cui la morte è lo spazio bianco che separa i vocaboli e li rende intelligibili. […] La vera scrittura doveva essere *pericolosa*, essenziale, inafferrabile; doveva nascere ai bordi del silenzio, anzi conservare in se stessa l’impronta di quel silenzio.»

Ora, citare Edmond Jabès significa riconoscere nell’impronta della parola il mistero della nostra condizione umana.

La poetica di Jabès, scrittore ebreo, trae origine dal «rapporto tra scrittura e vocalità».

Nel parlare del *Livre des questions* di Edmond Jabés, Jacques Derrida mette in evidenza il tema della separazione o dell’assenza e, proprio per sollevare la maschera dell’ambiguità che si cela nella scrittura, dice: «Scrivere significa ritirarsi. Ma non nella tenda per scrivere, ma dalla scrittura stessa. Arenarsi lontano dal proprio linguaggio, emanciparlo o sconcertarlo, lasciarlo procedere solo e privo di ogni scorta. Lasciare la parola. Essere poeta significa saper lasciare la parola. Lasciarla parlare da sola, il che essa può fare solo nello scritto» (in *La scrittura e la differenza*).

Giuseppina Di Leo

sabato 30 luglio 2022

Mauro Germani - Tra tempo e tempo




Mauro Germani, Tra tempo e tempo, Re[a]daction, 2022

Pagine di un diario spirituale e intellettuale nelle quali l'autore, in una prosa coinvolgente ed evocativa, a tratti visionaria, ci offre un bilancio della propria esistenza mediante memorie personali, confessioni, moti dell'anima e riflessioni sul senso della letteratura, della morte, del sacro e del mistero. Ciò che emerge è l'urgenza di una svolta, di una profonda conversione in grado di superare, o almeno colmare, la tragica contesa tra la parola e la vita.

(dalla quarta di copertina)


lunedì 25 luglio 2022

Nicola Lisi - Diario di un parroco di campagna

 



Che effetto leggere oggi il Diario di un parroco di campagna di Nicola Lisi (1893-1975), autore ingiustamente dimenticato del nostro Novecento! Si entra in un mondo scomparso, in quella grazia citata alla fine dal curato di Ambricourt nel ben più noto romanzo di Bernanos dallo stesso titolo. Se però in quest’ultimo (scritto nel 1936, ma pubblicato in Italia nel 1945) prevale spesso il tormento, e l’assedio del male non dà tregua, nel libro di Lisi (uscito da Vallecchi nel 1942) è possibile cogliere il candore di una meraviglia continua, lo sguardo umile della creatura verso il mistero della creazione di cui fa parte, nella consapevolezza di vivere un dono che è compito dell’anima custodire. 
Don Antonio, l’anziano parroco di campagna, annota nel proprio diario la sua particolare attenzione nei confronti del mondo naturale, che gli si presenta come manifestazione di un disegno ben più vasto, di una volontà che insieme lo comprende e lo trascende. C’è in lui una sapienza religiosa e popolare che non viene mai meno: non solo accettazione di una volontà superiore ma anche fiducia nella preghiera e nella Provvidenza. Egli è un’anima semplice, non superficiale, una sorta di fanciullo invecchiato, ricco della propria esperienza interiore e di vita e, al tempo stesso, aperto al mistero e allo stupore. Il suo diario, suddiviso in tre parti, corrispondenti a tre anni denominati Anno del freddo, Anno dei pellegrini, Anno dei fiori, è per noi una testimonianza di una cura e di un’umiltà che non possono non sorprenderci, in quanto espressioni di una saggezza e di una forza che oggi sembrano irrimediabilmente perdute. 
Del resto, il parroco di Lisi rispecchia proprio il mondo amato dall’autore toscano (era nato a Scarperia, nel Mugello), presente in tutti i suoi libri in svariate forme, dal dialogo teatrale (L’acqua, 1928; La via della Croce, 1953), alla favola (Favole, 1933; Il seme della saggezza, 1967), al racconto (I racconti, 1961), alla prosa autobiografica (Parlata dalla finestra di casa, 1973). Nella sua opera la realtà contadina non è mai chiusa in sé stessa, ma è sempre specchio del cielo, delle stagioni che scandiscono i tempi della vita, in una specie di calendario terrestre e spirituale. Non a caso, Nicola Lisi, già nel 1923, insieme a Piero Bargellini e Carlo Betocchi (autori cattolici come lui, con i quali condivise l’avventura della rivista mensile “Il Frontespizio”) diede alle stampe il Calendario dei pensieri e delle pratiche solari, un almanacco di racconti, aforismi e apologhi con l’intento di un’adesione alla vita naturale non separata dalla verità della Provvidenza. 
Sarebbe tuttavia sbagliato sostenere che in Lisi il male sia completamente assente: esso è tentazione e peccato, separazione, allontanamento dal divino, ma non incombe in modo drammatico e lacerante come in Bernanos. Carlo Bo, giustamente, ebbe modo di sottolineare che «Lisi è passato indenne fra disastri e disperazioni e non già perché non ne avvertisse la presenza, ma perché si teneva ben fermo a quella geometria dell’anima con cui ha costruito la stessa lettura del mondo». 
Nel Diario di un parroco di campagna il vento, le nuvole, gli animali, le piante, il passaggio delle stagioni sono tutt’uno con le speranze o le disgrazie degli uomini, le loro paure o le loro infermità, in un andamento corale e insieme sommesso, che viene registrato sulla pagina con rispetto e partecipazione, delineando così un vero e proprio paese dell'anima, come s'intitola un'altra sua opera del 1934. Non solo. Affiora sovente un mistero buono, una grazia, appunto, che soccorre l’anziano parroco nei momenti di difficoltà e lo prepara ad accettare serenamente il destino che lo attende. Una lezione per lui e per noi, oggi.
Mauro Germani

sabato 9 luglio 2022

Lia Maselli - Il lungo contagio


 Lia Maselli, Il lungo contagio, Calibano, 2022

In questo secondo romanzo di Lia Maselli (il primo è stato Le case dei venti contrari, edito da Formebrevi nel 2016), la narrazione, nell’alternanza di piani temporali diversi, è volutamente instabile e frammentaria, perché specchio dell’io narrante, una donna che si cerca negli altri, soprattutto nel rapporto con la madre lontana e il suo passato.

La scrittura assume spesso valenze poetiche, specialmente laddove lo sguardo si fa obliquo, come in certe descrizioni di ambienti, personaggi e situazioni attente ai dettagli marginali, eppure capaci, tra una dissolvenza e l’altra, di cogliere il reale nella sua intima essenza. La sensazione che si prova è quella di assistere a un film continuamente spezzato nella sua continuità, grazie a un montaggio da nouvelle vague, allusivo ed evocativo.

La ricerca di identità e di appartenenza di chi narra confligge sovente con un’ambiguità di fondo, nella quale i fotogrammi perduti e ritrovati del passato e della memoria sono invasi da ombre e segnati da reticenze. Le storie cercate e raccontate, in uno scavo di domande e di indagini ora sommesse, ora trepidanti, ora ossessive, pesano come colpe antiche, come mali mai del tutto sopiti, come segreti mantenuti negli anni. È un lungo contagio con cui non è facile fare i conti perché sempre in bilico tra la realtà e il suo fantasma, tra la volontà di sapere e di conoscere e i dilemmi e le paure che, in modo più o meno conscio, agitano il presente.

Sulla figura della madre e sulla sua storia si proietta inevitabilmente il non-detto dell’esperienza vissuta dell’io narrante, in un continuo approssimarsi che spesso pare rivelarsi solo apparente. La madre è la vita incarnata, l’enigma del passato e del presente, ma anche la tenacia di un quotidiano rituale che resiste, come un mondo dentro il mondo.

Quanto durerà l’onda lunga del contagio?

La conclusione del romanzo coincide con una morte, quella del padre della donna, fino a quel momento amorevolmente accudito nella malattia dalla madre. L’ultima immagine è un mare calmo dopo la burrasca: una fine che è anche una liberazione al termine della sofferenza. È questa un’altra tappa importante nei sentimenti e nella memoria. E certamente, per chi narra (e per il lettore), un’altra ineludibile domanda.

Mauro Germani