martedì 17 novembre 2020

Angelo Mundula - Il Cantiere e altri luoghi

 

Angelo Mundula, Il Cantiere e altri luoghi (Poesie 2000-2005), Carlo Delfino Editore, 2006.

È questa l’ultima raccolta poetica di Angelo Mundula (1934-2015), un autore «fuori da clamori ed eccentricità» – come ebbe modo di scrivere Giuliano Gramigna –, la cui opera in versi (fu anche critico e collaboratore di importanti quotidiani e riviste) è contrassegnata da una religiosità, che si manifesta in una continua tensione dal tempo all’eterno (per citare il titolo di una silloge del 1979, edita da Spirali).

La scrittura di Mundula sorprende per la sua cristallina purezza, capace di rivelare in se stessa vibrazioni e profondità che colpiscono la nostra anima. Domande, soprassalti dello spirito, smarrimenti ed invocazioni si alternano e/o si compenetrano senza soluzione di continuità, in un flusso poetico nel quale la parola appare alla ricerca costante di una dimensione ulteriore, cioè di una verità che sia sempre più vicina al mistero dell’esistenza.

Vi è la consapevolezza di una parola «sospesa», «in bilico», che «potrebbe cadere inabissarsi / come stella o come stella / risplendere nel verso»; una parola che nasce da noi e dunque limitata, pur nella sua possibile umana grandezza. Fino a che punto, allora, può arrivare la scrittura poetica?

È interessante aggiungere come qualcosa di non detto, di inesprimibile rimanga comunque, per Mundula, al di là di ogni opera: si veda il testo Ciò che Dante non ha scritto, in cui si fa riferimento «all’altro universo mai del tutto finito / al grande libro mai del tutto scritto». Questa incompiutezza, tuttavia, non significa rassegnazione o quiete, ma al contrario impulso a cogliere, in una tensione estrema e al tempo stesso umile, ciò che si agita dentro e fuori di noi: le parole vanno gettate «sulla pagina aperta come su un / campo da coltivare», in attesa di un senso, dentro «lo scavo, le crepe / le carte incerte ferite», «nel magma ribollente della terra».

C’è una richiesta incessante nella poesia di Mundula, che è, in fondo, preghiera, riconoscimento della fragilità dell’uomo e dei suoi limiti, coscienza della nostra cecità davanti all’evidenza dell’inspiegabile, nel quale risiede «tutto il sale della vita», tanto che, paradossalmente, «il nostro vero approdo è il naufragio».

Il desiderio di pienezza e di luce scaturisce proprio dalla consapevolezza delle nostre mancanze, del nostro essere bisognosi d’altro, in quanto circondati da un «innominabile buio», nel quale rischiamo di perderci. Così esigenza etica ed urgente bisogno di rinascita spirituale non possono che unirsi davanti ad una  civiltà – la nostra – che appare smarrita, prigioniera di un cieco e falso progresso: «Sbanda da ogni parte la barca del secolo / s’ignora dove sia il timoniere se vi sia / corrente se qualcuno ne segua il filo».

Sondare lo stato della condizione umana è certamente uno degli scopi della poesia di Mundula, evidenziandone anche, nel medesimo tempo, la complessità, mediante una dimensione simbolica e metafisica, che è rinvenibile in diversi componimenti.

Esemplare è, in questo senso, la poesia Stazioni («Da quanto siamo qui / in questa sala d’attesa / in cui tutti aspettiamo il nostro treno / la salita la discesa / nel nostro binario?»), dove  domande senza risposta si succedono insieme ad un sentimento di attesa e di mistero, in una sorta di gioco di specchi che pare confondere chi scende e chi sale da questi treni della vita. E, del resto, come si dice in Qualcosa di noi: «È sempre così difficile scoprire il nostro segreto / sapere qualcosa di noi del nostro viaggio».

Ma è soprattutto l’immagine del Cantiere a configurarsi come luogo centrale, reale e metafisico ad un tempo, dell’intera raccolta: un luogo originario, d’infanzia e di nostalgia, di eterno ritorno e di memoria, di iniziazione e di poesia; un luogo, ancora, in cui misurare la propria vita e chiedere anche perdono per gli errori commessi. Il Cantiere navale dismesso di Porto Torres – in cui il poeta ha abitato da bambino e da ragazzo con la sua famiglia – è stato per lui «incudine e martello / isola e mare, una volta per sempre»: lì hanno preso vita i sogni («grandi navi e viaggi per mare»), i progetti e «gli alti approdi», che a volte sembrano, con l’avanzare degli anni, impossibili, anche se in fondo non si è spento il desiderio «di preparare l’evento di una nave / che da lì prenda il mare e vada / luminosa e grande per i porti del mondo».

Concludendo, la lettura di questo libro può essere considerata l’ultima, sincera confessione e dichiarazione di poetica di un autore appartato ed originale, che ha sempre rivelato – come si afferma nella nota in quarta di copertina – la «caratura spirituale e morale» della sua poesia.

Una segnalazione importante: il sito, curato da Giovanni Nuscis, interamente dedicato ad Angelo Mundula, con sezioni riguardanti la biografia del poeta, le opere, i saggi, gli articoli su quotidiani e riviste, le recensioni e le lettere. QUI

Mauro Germani


sabato 7 novembre 2020

LA CITAZIONE (n. 23) - Pier Paolo Pasolini


 

Riapparizione poetica di Roma


Dio, cos’è quella coltre silenziosa

che fiammeggia sopra l’orizzonte…

quel nevaio di muffa – rosa

di sangue – qui, da sotto i monti

fino alle cieche increspature del mare…

quella cavalcata di fiamme sepolte

nella nebbia, che fa sembrare il piano

da Vetralla al Circeo, una palude

africana, che esali in un mortale

arancio… È velame di sbadiglianti, sudice

foschie, attorcigliate in pallide

vene, divampanti righe,

gangli in fiamme: là dove le valli

dell’Appennino sboccano tra dighe

di cielo, sull’Agro vaporoso

e il mare: ma, quasi arche o spighe

sul mare, sul nero mare granuloso,

la Sardegna o la Catalogna,

da secoli bruciate in un grandioso

incendio, sull’acqua, che le sogna

più che specchiarle, scivolando,

sembrano giunte a rovesciare ogni

loro legame ancora ridente, ogni candido

bracere di città o capanna divorata

dal fuoco, a smorire in queste lande

di nubi sopra il Lazio.

Ma tutto ormai è fumo, e stupiresti

se, dentro quel rudere d’incendio,

sentissi richiami di freschi

bambini, tra le stalle, o stupendi

colpi di campana, di fattoria

in fattoria, lungo i saliscendi

desolati, che già intravedi dalla Via

Salaria – come sospesa in cielo –

lungo quel fuoco di malinconia

perduto in un gigantesco sfacelo.

Ché ormai la sua furia, scolorando, come

dissanguata, dà più ansia al mistero,

dove, sotto quei ròsi polveroni

fiammeggianti, quasi un’empirea coltre,

cova Roma gli invisibili rioni.


da Pier Paolo Pasolini, La religione del mio tempo, Garzanti, 1961


A proposito di Pasolini, è possibile leggere su questo blog una nota critica relativa a L'usignolo della Chiesa CattolicaQUI