lunedì 24 dicembre 2018

Aleksandr Blok, Paul Celan - I dodici




Aleksandr Blok, Paul Celan, I dodici (a cura di Dario Borso), L'arcolaio 2018

Interessante ed intelligente operazione editoriale, quella di riunire in un unico volume, a cura di Dario Borso, la traduzione dal russo de I dodici di Aleksandr Blok e la traduzione dal tedesco del medesimo testo nella versione di Paul Celan. Il poema, infatti, scritto da Blok nel gennaio 1918, venne poi tradotto quarant’anni dopo da Paul Celan, che si occupò anche di Esenin e di Osip Mandel’štam, accumunando così “tre poeti, la cui esistenza fu annientata dagli sviluppi involutivi della Rivoluzione d’Ottobre”, come afferma Borso nell’introduzione al libro.
I dodici  è un poema che ci trasporta, con una scrittura scossa e sincopata, in perenne movimento, nello spirito rivoluzionario del tempo, in quell’oltre non solo politico, ma anche esistenziale verso cui il nuovo corso storico sembrava tendere, in un  processo di fine, ma anche di principio, di impulso utopico e di rinascita, all’insegna di un cambiamento radicale, che non poteva non coinvolgere anche la parola poetica.
Così, con I dodici Blok abbandona il simbolismo, lascia le forme espressive già collaudate, ed approda ad una scrittura spezzata, ritmica, in marcia, mentre tutto è in divenire. L’intenzione era quella di rappresentare il nuovo che avanzava, la tenacia inarrestabile di un sogno in grado di travolgere il passato e di proiettarsi verso il futuro, alternando immagini emblematiche al dinamismo della parola. Blok dichiarerà, successivamente, nell’aprile 1920, spento ormai l'entusiasmo iniziale: “La verità è che il poema fu scritto in uno di quei periodi straordinari e sempre brevi, in cui il ciclone rivoluzionario in corso provoca una tempesta in tutti i mari – nella natura, nella vita e nell’arte”.
E la scrittura di Blok è qui simile ad una musica che si scompone e si ricompone nei passi e nelle voci dei dodici rivoluzionari che marciano, dentro il buio della sera, nonostante  imperversi una terribile bufera di neve. L’oscurità, il vento ed il ghiaccio non impediscono il loro procedere eroico, che è inframmezzato dall’apparizione di vari personaggi legati alla tradizione e destinati perciò ad essere travolti dal processo rivoluzionario in corso: tra gli altri, una vecchietta, un letterato, un prete, un borghese, còlti in pochi tratti, ma con ferocia e sarcasmo, nei loro atteggiamenti di paura e di rifiuto.
Tutto avviene nel vento, nel turbinio della neve, al passo della rivoluzione, tra i fuochi accesi intorno, coi berretti sgualciti, le cicche tra i denti, i fucili e le bandoliere. Sembra che qualcosa di superiore debba veramente affermarsi, al di là delle singole esistenze, qualcosa di epocale, che va ben oltre le vicende private di ognuno. E non è certo di poco conto l’episodio di Piotr, che uccide per gelosia la sua amata prostituta Katia, ma che poi i compagni riescono a ricondurre all’impegno rivoluzionario.
C’è movimento nel movimento, in questo poema, qualcosa che procede trasformandosi, e che di volta in volta è marcia trionfale, sberleffo, balletto, dramma, fino al colpo di scena finale, quando davanti al corteo dei dodici, “indifferente alla bufera, incede lieve, / perlaceo di neve attorno a sé” Gesù Cristo.
È questa un’immagine inaspettata, che compare improvvisamente e che lascia per un momento interdetti, ma che forse può essere compresa non tanto in un’accezione religiosa, quanto in una prospettiva di umanità nuova, di nuovo Regno sulla terra, di cui Cristo può essere considerato il simbolo-guida. A tal proposito, si può fare riferimento, solo a mo’ di esempio e per intenderci, al pensiero del tedesco Ernst Bloch, alla sua speranza di emancipazione, diversa dalla fede alienata, ma necessaria per coltivare uno spirito di utopia in vista di un Regno messianico di giustizia e di pace: questa aspettativa, probabilmente, non fu del tutto estranea anche al poeta russo, almeno al momento delle prime fasi della rivoluzione. Dopo, infatti, Blok rimase profondamente deluso dagli esiti del processo rivoluzionario, si trovò politicamente sempre più isolato ed avvilito e lo stesso poema non ebbe vita facile. E questo è un altro argomento di interesse nei confronti dell’opera di Blok, che inevitabilmente ci interroga sul  rapporto quanto mai controverso e conflittuale tra ideologia ed esistenza, tra utopia e storia. Altro elemento degno di attenzione è costituito poi dalla traduzione di Celan, che rende il testo ancora più dinamico, incalzante e franto rispetto all’originale, mediante "una nominalizzazione spinta", come sottolinea Dario Borso nella già citata introduzione.
Non pochi sono dunque i motivi di riflessione e di discussione che offre questa particolare, elegante ed accurata edizione de I dodici, che raccomandiamo al lettore.

Mauro Germani



sabato 1 dicembre 2018

LA CITAZIONE (n. 16) - Jorge Luis Borges



“All’altro, a Borges, accadono le cose. Io cammino per Buenos Aires e indugio, forse ormai meccanicamente, a guardare l’arco di un androne e la porta che dà a un cortile; di Borges ho notizie attraverso la posta e vedo il suo nome in una terna di professori o in un dizionario biografico. Mi piacciono gli orologi a sabbia, le mappe, la stampa del secolo XVIII, il sapore del caffè e la prosa di Stevenson; l’altro condivide queste preferenze, ma in modo vanitoso che le muta negli attributi d’un attore. Sarebbe esagerato affermare che la nostra relazione è di ostilità; io vivo, mi lascio vivere, perché Borges possa tramare la sua letteratura, e questo mi giustifica. Non ho difficoltà a riconoscere che ha dato vita ad alcune pagine valide, ma quelle pagine non possono salvarmi, forse perché ciò che v’è di buono non appartiene a nessuno, neppure all’altro, ma al linguaggio o alla tradizione. D’altronde, io sono destinato a perdermi, definitivamente, e solo qualche istante mio potrà sopravvivere nell’altro. A poco a poco vado cedendogli tutto, sebbene conosca la sua perversa abitudine di falsificare e ingigantire. Spinoza intese che tutte le cose vogliono perseverare nel loro essere; la pietra eternamente vuol essere pietra e la tigre, tigre. Io resterò in Borges, non in me (seppure sono qualcuno), ma mi riconosco meno nei suoi libri che in molti altri o nell’elaborato arpeggio d’una chitarra, Anni addietro cercai di disfarmi di lui e passai dalle mitologie dei sobborghi ai giuochi col tempo e con l’infinito, ma codesti giuochi ormai sono di Borges e dovrò ideare altre cose. Così la mia vita è una fuga e io perdo ogni cosa e tutto è dell’oblio, o dell’altro.
Non so chi dei due scrive questa pagina.”

Jorge Luis Borges, Borges e io, in L’artefice, Rizzoli, 1982

martedì 6 novembre 2018

Mario Marchisio - La morte attiva




Mario Marchisio, La morte attiva, Edizioni Aurora Boreale 2018

La morte attiva raccoglie le poesie, i racconti ed i pensieri che Mario Marchisio ha scritto nell’arco di un quarantennio. È quindi un’occasione per rileggere un’opera multiforme e particolarmente interessante non solo per le tematiche (esistenziali, filosofiche, teologiche) che affronta, ma anche per lo stile sempre nitido e classico, che rivela la straordinaria capacità dell’autore di spaziare senza forzature dalle forme metriche al verso libero, dalla narrazione drammatica, visionaria, grottesca o satirica alla brevità fulminante dell’aforisma.
Ciò che colpisce subito è proprio il rapporto tra la limpidezza della scrittura ed il suo abisso, nel quale tenebre e luce si scontrano incessantemente in una lotta che ha come posta in gioco il destino dell’uomo. La vastità dell’opera di Marchisio (il volume sopracitato consta di quasi cinquecento pagine) non elude mai, pur nella varietà dei generi e dei registri adottati, il tema di fondo dell’uomo conteso, che – cosciente o meno – è alle prese con la propria anima, attanagliata dal buio e sempre in bilico sul baratro della perdizione.
Marchisio è soprattutto un indagatore del male: ne sonda le terribili profondità, ne descrive gli inganni, le astuzie, le menzogne, i paradossi, consapevole che in questo mondo non c’è pace, perché la condizione umana è contaminata ab origine e la salvezza non è facile conquista.  Certi suoi racconti non sfigurerebbero insieme alle Storie sgradevoli di Leon Bloy, autore che – come scrisse Borges – “opinò qualche volta che siamo già all’inferno”. Del resto, non è proprio la Sacra Scrittura a decretare che Satana è il principe di questo mondo e che la vittoria sul male avverrà solo alla fine dei tempi?
In ambito narrativo, Marchisio costruisce storie, in questo senso, esemplari, nelle quali il male è sempre in agguato, sempre attivo, ed agisce con la sua opera devastante, spesso dietro una normalità o rispettabilità apparenti, come se nulla fosse. Le storie, quindi, smascherano ciò che in profondità è terribile e nascosto e l’autore illumina le tenebre, rendendole così evidenti al lettore.
Marchisio predilige la narrazione breve, tuttavia alcuni dei dodici racconti presenti nel volume, nella sezione intitolata Carni scosse, sono collegati tra loro dal nome di uno o più personaggi, a dimostrazione di una genealogia del male a cui è difficile sfuggire. Si vedano, a tal proposito, i racconti Condiscendenza, Ascanio e Trofei, nei quali segreti terribili, mostruosità e macchinazioni diaboliche si intrecciano quasi naturalmente, in un susseguirsi ineluttabile di atrocità. C’è poi il teatrino macabro di Matrioska, in cui, in poche battute, nascita e morte diventano tutt’uno nel corso di un folle e crudele esperimento ad opera del dottor Thanatellus, che intende dimostrare come i tre atti di ogni vivente, ovvero nascere, riprodursi e morire, si possono adempiere nello spazio di un minuto. Occorre aggiungere che il divertissement grottesco, in Marchisio, non è mai fine a se stesso, perché sottende il tragico dell’esistenza: l’uomo, infatti, non può salvarsi da solo. E le meditazioni dell’autore sono rese ancora più esplicite dagli aforismi, veri e propri lampi del pensiero, impeccabili nella loro concisione, simili a sciabolate capaci di smascherare le contraddizioni, i paradossi e le viltà dell’uomo in balìa delle tenebre (“La propensione al male si rivela il più delle volte incoercibile: qualora l’uomo intraveda anche soltanto una speranza di assecondarlo, le sue energie, ipso facto, si moltiplicano.”), ma anche di avvertire, qua e là, la misteriosa presenza divina (“Nell’universo visibile, che non mi stanco di concepire limitatissimo, trionfa il male. Il resto è dominio divino.”; o ancora “Se Dio non esistesse la vita avrebbe un solo nome: Luogo del Nulla; e l’unico pensiero, l’unica saggezza, l’unica virtù sarebbero quelli della pietra e del silenzio”). Ecco, dunque, la consapevolezza del male, il quale esiste proprio perché contrapposto al bene: “Ospitiamo l’angelo come la bestia: nostro preciso dovere è sviluppare il primo e imbrigliare la seconda”. E poi: “La fede è cosa rara e soggetta al tradimento, come l’amore. Una somiglianza su cui non dobbiamo stancarci di riflettere”.
La produzione più ampia presente nel libro è tuttavia quella poetica (ma non dobbiamo dimenticare quella saggistica, che sarà integralmente raccolta in un volume di prossima pubblicazione), nella quale Marchisio si è cimentato con grande passione fin dagli esordi. Qui, oltre ai temi già accennati in precedenza, troviamo un gusto che potremmo definire tardo-romantico o decadente, che si esplica nella consapevolezza della vanità del tutto, della solitudine, dell’esilio su questa terra, nonché dell’attesa che si plachi “la furia del dolore”. E costante aleggia su tutto la presenza della morte, spesso invocata come possibilità di pace e di uscita dal buio dell’anima, cosicché la bara appare come “La miglior nicchia per chi deve attendere / La sconfitta delle tenebre”. Interessante, poi, la duplicità rappresentata dal sentimento d’amore, che da momento di luce e d’incanto si può tramutare repentinamente in inganno e menzogna, rivelando così quella bassezza che quasi sempre si cela negli atti umani.
Da non sottovalutare la sezione poetica intitolata Bisbigli sotto il marmo, nella quale Marchisio è abilissimo nel declinare poeticamente il suo gusto macabro e divertito, che risuona al lettore, aldilà dello humor nero, anche come monito e richiamo non solo all’ineluttabilità della morte (si legga, ad esempio Teatrino), ma anche amara riflessione sull’uomo contagiato ed orrendo, verso il quale Marchisio non mostra alcuna compassione, come nella sarcastica La bella umanità: “La bella umanità, io l’amo / Soltanto da lontano. / Venendone a contatto / - O fatto strano! -, / Prende forma di pantano: / Più agile d’un gatto / Mi morsica la mano, / M’appesta e mi fa matto”. Affini come tono, troviamo poi i versi, in conclusione al volume, della sezione intitolata Altre poesie giocose e satiriche, una miscellanea di testi acuminati e beffardi, che prendono di mira vari personaggi, tra cui il poeta stesso, e che si concludono spesso in modo crudele e grottesco.
La rilettura dell’ampia produzione poetica e narrativa di Mario Marchisio conferma la ricerca incessante – e a volte furiosa, urgente – di un autore che ha sempre seguito la propria strada, aldilà delle mode imperanti. Una voce classica fuori dal coro, che ci scuote, ci fa riflettere ed anche (giustamente) rabbrividire.
Mauro Germani


LA CITAZIONE (n. 15) - Guido Ceronetti



“I volti sono del corpo? A volte ne dubito. Sembrano avere vita indipendente, incontrarsi senza il peso del resto. Vengono direttamente dal demoniaco e dall’angelico, dal profondo e dall’alto; il resto è solo terrestre.”

***
“Meglio che l’anima soffra vedendo il corpo squartato e decomposto, piuttosto che non soffra per inesistenza.”

Guido Ceronetti, Il silenzio del corpo, Adelphi 1979

giovedì 18 ottobre 2018

Mario Marchisio - Sulle ultime tre raccolte poetiche di Mauro Germani



PRIMA DEL SILENZIO

Nelle raccolte successive al libro pubblicato nel 2002, l'onda luminosa si ritira e la poesia di Mauro Germani (1) torna ad aggirarsi in un orizzonte di tragico abbandono dove le tenebre, come fossero catene, si avvinghiano all'io senza concedergli scampo; essa torna, seppure con maggiore consapevolezza anche formale, al suo desolato punto di partenza (2). Tra la speranza e il nulla, è prevalso il nulla.
Preliminarmente, si rende opportuno un accenno al linguaggio, che presenta ora una caratteristica nuova: sfrondato, quasi scheletrico, tutto giocato sulla rifrazione di poche, ossessive parole in cui sembra specchiarsi l'altrettanto scheletrica magrezza dei versi. I quali oscillano, specie in Terra estrema e Voce interrotta, fra le tre e le nove sillabe, con una prevalenza schiacciante dei versicoli (3).
Come ha scritto Marco Ercolani, il poeta evita con ogni cura di elaborare «una frase [...] troppo articolata», quasi «non avesse neppure il tempo di pensarla. I versi brevi stringono lettore ed autore nell'esiguo spazio di un respiro rauco, interrotto, fra dolore e dolore» (4).
In effetti, qualcosa di simile a un balbettio disperato sembra coagularsi «nella fredda fiamma / del nulla / o più lontano in fondo / nel pozzo segreto / e senza nome» (5). In questo affannoso vagare privo di scopo e di meta, con la mente offuscata e le mani piene di mosche, sfugge talvolta al nostro poeta una confessione icastica, la diagnosi lucida e spietata della sconfortante eredità di chi si scopre orfano di Dio: «Com'è sola la carne / e noi assenti in lei / e lei nel mondo».
La carne, un termine biblico che risuona senza interruzione dalla Genesi alle Lettere di san Paolo (nel duplice significato di "corpo" e di "natura umana"), e che non a caso appare con insistenza nelle pagine di Terra estrema (6). Carne, ombra, mondo: ecco le parole decisive intorno alle quali ruotano i versi di questo libro (7), «Verbo perduto da Dio / verbo senza Dio / che nella notte chiama / e nessuno risponde, / grido senza bocca / che nel deserto cerca / un cuore sepolto».
Affermando più sopra che il linguaggio di Germani, dopo Luce del volto, denota un'asciuttezza scheletrica, mi riferivo alle pagine in versi. Nelle brevi prose che figurano in Livorno e Terra estrema (due sezioni in entrambi i libri) possiamo invece constatare un'inattesa ricchezza cromatica, la quale viaggia di pari passo con una più ricca varietà di toni. Vi si profilano anche frammenti di vicende angosciose, sfilacciate (8), che il nostro autore riesce però a tratteggiare senza la recente, ascetica parsimonia lessicale e sintattica. Ne emerge un modello espressivo assai differente da quello all'opera nei versi.
Si prenda ad esempio in esame quella che con ogni probabilità costituisce la più riuscita fra le sezioni in prosa: Voci (9), un ciclo di sette componimenti che ci danno la piena misura della versatilità di Germani. Pur mantenendosi fedele al suo tema di fondo, il poeta innesta nel flusso verbale improvvisi e balenanti riverberi, allusioni, figure simboliche, grazie anche al ricorso alla prosopopea, espediente retorico che gli consente di far parlare in prima persona la Terra, la Notte, il Vento, il Cielo, il Fuoco, la Neve e gli Animali. «Condanna condanna dice il Fuoco, vi porto questa luce assassina, questa profezia senza dio, questo dono strappato all'ignoto»: così inizia uno dei testi. Dice a sua volta la Neve: «Chi mi contempla ascolta il canto dell'esilio, la musica senza nome che è sulle labbra degli abbandonati, il battito sordo di un male segreto». Qui il ritmo triadico delle proposizioni, già riscontrabile, con esiti convincenti, in Una voce persa (10), si dispiega con uno slancio pari alla suggestione delle immagini. Poesie in prosa nelle quali, a dispetto di quel titolo, la voce di Germani è più che mai ritrovata.

***
Le ossessioni di un io spettrale, quasi evanescente, ribadite attraverso la prosodia affannosa e sincopata cui Germani ci ha abituati, tornano a galla tutte insieme per incidere come una lama i versi di Voce interrotta. Il paragone più calzante sembrerebbe quello col primo Ungaretti, se non altro per certi snodi della versificazione (11).
L'impalcatura metaforica, che appariva nettamente assestata nelle varie sezioni di Luce del volto ed è andata attenuandosi nei versi dei due libri successivi, tende qui invece a cedere e a sfaldarsi sul nascere, isolando in primo piano la testimonianza di una disfatta esistenziale. L'io non ha perduto soltanto ogni coordinata interiore, ma obbedisce all'esigenza di trasfondersi, nudo e crudo, in una musica verbale che rifugga come indebito ornamento anche la meno elaborata delle metafore. Ogni atto, ogni pensiero sfuma e si perde in se stesso, e prima ancora nell'assenza di Dio (12).
In Voce interrotta fa altresì capolino, fino a diventare una presenza significativa, la parola «impossibile» (13), sia in veste di sostantivo che di aggettivo (14). Ma il paradosso è questo: l'impossibile, pur rimanendo tale, continua a rivelarsi necessario. Ripudiata infatti e allontanata da sé la radice trascendente di ogni esistenza, l'io non smette di sanguinare. La rassegnata rinuncia al proprio fondamento ontologico non gli impedisce di sussistere e di patire: «mio verbo ignoto, mia febbre / sconsacrata». Il mondo, favola polverosa, è tutto racchiuso nella parola umana che coincide con il lento implodere dell'io e delle sue vestigia, ormai indecifrabili.
La mesta Livorno che campeggiava nella prima sezione della raccolta omonima passa ora il testimone a Milano: rinviando, di fatto, a un non-luogo, a un teatro di larve. Fra i vivi e i morti  viene meno  all'istante qualsiasi distinzione sul piano dell'essere. Dai ricordi materni e dall'infanzia remota, il corteo dei defunti accompagna il cammino di un io inabissato nella consapevolezza dell'impossibile: «Di chi è questa voce scritta / che ascolto, questo fiato / senza corpo, questa / febbre alta / che brucia nell'aria?».

Note
1) Mauro Germani, Luce del volto, Campanotto 2002; Livorno, L'Arcolaio 2008; Terra estrema, ivi 2011; Voce interrotta, Italic 2016. Germani, che è anche narratore e critico letterario, ha fra l'altro pubblicato il romanzo Il prescelto (Perdisa 2001) e Margini della parola. Note di lettura su autori classici e contemporanei (La Vita Felice 2014).
2) Mauro Germani, L'attesa dell'ombra, Schema 1988 (plaquette poi confluita in Luce del volto).
3)  Livorno presenta invece versi dalla struttura più ariosa, tendenzialmente svincolata dal predominio della reiterata brevità.
4) Marco Ercolani, L'abisso e il dolore, in: Terra estrema.
5) Questa citazione da Terra estrema, così come le successive, fanno parte dell'unica sezione in versi della raccolta: L'ignoto sangue.
6) «È questo solo / lo scandalo della carne, / l'enigma di ogni nome»; «È nel tuo viso / nell'indicibile carne»; «Non so quale risorta carne / quale vita eterna»; «nella luce e nella notte / della sua carne»; «ancora in questa / carne fantasma / come una voce / prima del sonno»; «Questo continuo / perdere la carne / come non fosse mia»; «È qualcuno il mio corpo / ignota carne»; «Quale carne nella carne / essere dentro la pelle»; «Amputato corpo / è questa parola / viva carne / che palpita ancora».
7) La quarta parola, «corpo», è qui una variante di «carne», un suo sinonimo.
8) A partire da Livorno, lo «scacco nei confronti dell'esistenza si fa sempre più acuto [...] Non c'è nessuna interezza ma solo [...]  uno smarrimento che include gli affetti, [...] i momenti di incontro e di tenerezza, quando le parole diventano povere, non bastano più ed i gesti sono sempre a metà, sempre incompiuti» (Conversazione con Gabriele Gabbia, in: www.margo - scrittura, pensiero, poesia, 18/02/2018).
9) Penultima parte di Terra estrema.
10)  Prima sezione in prosa di Livorno.
11)  Come in Indizi (XIII): «marciamo / nel buio della / parola, noi / tutti / voi senza / poesia / noi soldati / senza più / ordini, / fantasmi / di tutte le / veglie». Le citazioni che seguono sono tratte dalla prima e più ampia sezione della raccolta: Dissolvenze.
12) «brilleranno i morti / come per gioco / [...] il cielo rovescerà / l'estate sui visi / [...] senza più Dio».
13) Un termine presente fin dall'inizio, con varie sfumature semantiche, nell'opera poetica di Germani.
14) «L'impossibile in quella via / e le finestre ad una ad una»; «L'ho sentito qui / l'impossibile / tra il petto e la gola»; «bocche spalancate / a chiedere l'ultima / impossibile voce»; «la perfetta e impossibile / incarnazione, la frana / felice del mondo»; «Solo così fu l'impossibile, / solo così parlasti»; «In te è l'impossibile / della vita»; «È una parola / impossibile, un gesto / che salta le righe»; «[...] tutto precipitò / nell'errore di una voce / impossibile».


Mario MARCHISIO (Torino, 1953-) ha all'attivo svariate raccolte di poesie e di saggi dedicati alla letteratura, all'arte e alla religione. Gli aforismi completi sono stati pubblicati recentemente insieme a tutte le poesie e ai racconti nel volume La morte attiva (Aurora Boreale 2018). Vedi la voce su: www.wikipedia

venerdì 5 ottobre 2018

Hugo von Hofmannsthal - Lettera di Lord Chandos



Hugo von Hofmannsthal, Lettera di Lord Chandos, Rizzoli, 2018


La lettera di Lord Chandos, che Hofmannsthal scrisse nel 1902, rappresenta una rinuncia, una resa della letteratura davanti alle forze oscure ed incontrollabili che dominano l’esistenza. Il protagonista, infatti, decide di abbandonare la scrittura perché avverte la sconfitta della parola rispetto a ciò che quotidianamente lo assale, travolgendo i suoi pensieri e le sue emozioni.
L’esperienza interiore si rivela così intraducibile non solo mediante una parola razionale ed ordinatrice della realtà, ma anche attraverso forme espressive più libere, inerenti cioè alla scrittura letteraria.
È questa una problematica cruciale che non può essere ignorata qualora si intenda affrontare sinceramente la funzione del linguaggio e della parola. Mitizzare quest’ultima, attribuendole – soprattutto in poesia – capacità divinatorie o terapeutiche o salvifiche, oppure avvolgendola in un’aura assoluta, aldilà del bene e del male, e collocandola in una dimensione totalmente altra, non significa rendere  un bel servizio alla stessa scrittura, che non è (o non dovrebbe essere) astratta composizione, né semplice esercizio di stile o di maniera.
La parola nasce dall’esistenza e di quest’ultima deve recare i segni, le ferite, le tensioni, gli abissi oscuri che la contraddistinguono. Una fiducia eccessiva nella scrittura comporta una considerazione della medesima pacificata, come se fosse semplicemente speculare al pensiero o alla realtà o al nostro spirito, con la conseguenza da parte di chi scrive di una ridotta volontà di ricerca, che paradossalmente coincide spesso con la presunzione di dire, o di salvare, o di rappresentare senza alcuna tensione esistenziale, senza alcuna lacerazione, il reale nelle sue molteplici manifestazioni. Ma pensiero e linguaggio, corpo e parola, esperienza vissuta e scrittura sono sempre in lotta, sempre in combattimento. E questo lo scrittore dovrebbe saperlo ed il lettore dovrebbe avvertirlo.
Nella sua lettera, Lord Chandos afferma: “La lingua in cui mi sarebbe dato non solo scrivere, ma forse anche di pensare non è né il latino, né l’inglese, né l’italiano o lo spagnolo, ma una lingua, delle cui parole non una mi è nota, una lingua in cui mi parlano le cose mute”. E questa atroce impossibilità lo induce al silenzio, confessando al destinatario della lettera, Francesco Bacone, di avere perduto completamente “la capacità di pensare o di parlare in maniera coerente e logica su qualsiasi argomento”. Ogni cosa si spezza, si frantuma e le singole parole gli fluttuano intorno: “divenivano occhi che mi guardavano fissi e che io, a mia volta, mi sento costretto a fissare: sono gorghi, che a guardarli mi danno le vertigini, che girano vorticosamente senza posa, e una volta attraversati i quali si approda nel vuoto”.
Come scrive Claudio Magris nell’introduzione al volume, questo breve testo di Hofmannsthal “costituisce un manifesto del deliquio della parola e del naufragio dell’io nel convulso e indistinto fluire delle cose non più nominabili né dominabili dal linguaggio; in tal senso il racconto è la geniale denuncia di un’esemplare condizione novecentesca”.
Tale condizione – aggiungiamo noi – non smette di interrogarci ancora oggi, nel momento in cui ci accingiamo ad affrontare la scrittura, che – come ha affermato Blanchot a proposito di Kafka e dell’enigma dell’opera - “non potrebbe avere la propria origine che nella vera disperazione, quella che non invita a niente e allontana da tutto, e per prima cosa, toglie la penna di mano a chi scrive”.
Mauro Germani

martedì 25 settembre 2018

Scipione (Gino Bonichi) - Le stelle cadono accese



Scipione (Gino Bonichi), Le stelle cadono accese, Raffaelli


Scipione - Apocalisse (Il sesto sugello)



Scipione - Gli uomini che si voltano


Versi tra luce e buio, quelli di Scipione (Gino Bonichi, 1904-1933).
Parole che dicono epifanie misteriose, attese dentro la terra e colpite dal cielo, carni che cercano sorgenti e lievitano nel mondo. 
Dieci poesie che s’innalzano e che scendono, come in un’apocalisse quotidiana e segreta. Segreto che avvicina il segreto, il fiato dell’uomo e della notte, quando “le stelle cadono accese”.
Versi segreti, appunto, detti nella visione, nella meraviglia febbricitante, nella consapevolezza che "la terra ha tutti i nascondigli", nella malattia che cerca redenzione. E al pari di ogni cosa il poeta attende, "abbacinato / come un foglio bianco", così come il cielo è "in attesa / dei gridi che lo squarciano". Natura che è carne, che respira, che è fuoco ed ombra.
Scipione: pittore della cosiddetta “Scuola Romana”, di quella luce che sa di terra rossa, di rivelazione sensuale e mistica, che sbava sulle cose e sui volti. Pittore estremo e poeta estremo, perché così dev’essere l’arte vera, quando tocca la terra e al tempo stesso cerca l’aldilà e lo chiama, in un’estasi ferita, nell’abbandono. “Tutto ci abbandona a nostra insaputa” – scrive Scipione, consapevole del miracolo e della perdita, dentro la carne ed oltre.
Vita brevissima, segnata prima dalla pleurite, poi dalla tubercolosi, ma soprattutto da un’urgenza irrefrenabile di avvicinare i confini, di darsi interamente all’arte e ai suoi agguati, come fosse sempre l’ultima volta. Ansia di assoluto e di riscatto, sull’orlo di un precipizio, mentre “la folgore scrive nel cielo / i caratteri di Dio”.
Senso religioso, o addirittura non senso religioso, a dire l’attesa, l’enigma, “la notte nera e perversa”, quando la terra è secca e ha sete, vuole bere, “ché vuol peccare / e farsi perdonare”, oppure quando "le civette gridano, tutto si muove / e l'angoscia riempie l'aria / di inquietudine".
Poeta inclassificabile, come scrisse Amelia Rosselli nell’introduzione al volume Carte segrete, edito da Einaudi nel 1982: e proprio inclassificabile è in fondo la poesia che non vuole essere da salotto, né tanto meno da esibizione (come spesso accade oggi), perché unicamente mossa dall’esistenza che la scuote.
Dieci poesie da leggere e rileggere trattenendo il respiro, in ascolto, in punto di – come per essere afferrati dai versi, e poi cambiare e sparire, in questa sobria ed elegante edizione contenente anche alcuni dipinti di Scipione ed una interessante ed incisiva prefazione di Davide Brullo, il quale avverte che  “si scrive sempre da un deserto fuori dal tempo […], un quartiere prima della morte”.
Mauro Germani

giovedì 6 settembre 2018

LA CITAZIONE (n. 14) - Giacomo Leopardi



Folletto. Voi gli aspettate invan: son tutti morti, diceva la chiusa di una tragedia dove morivano tutti i personaggi.
Gnomo. Che vuoi tu inferire?
Folletto. Voglio inferire che gli uomini son tutti morti, e la razza è perduta.
Gnomo. Oh cotesto è caso da gazzette. Ma pure fin qui non s’è veduto che ne ragionino.
Folletto. Sciocco, non pensi che, morti gli uomini, non si stampano più gazzette?
Gnomo. Tu dici il vero. Or come faremo a saper le nuove del mondo?
Folletto. Che nuove? che il sole si è levato o coricato, che fa caldo o freddo, che qua e là è piovuto o nevicato o ha tirato vento? Perché, mancati gli uomini, la fortuna si ha cavato la benda, e messosi gli occhiali e appiccato la ruota a un arpione, se ne sta colle braccia in croce a sedere, guardando le cose del mondo senza più mettervi le mani; non si trova più regni né imperi che vadano gonfiando e scoppiando come le bolle, perché sono tutti sfumati; non si fanno guerre, e tutti gli anni si assomigliano l’uno all’altro come uovo a uovo.
Gnomo, Né anche si potrà sapere a quanti siamo del mese, perché non si stamperanno più lunari.
Folletto. Non sarà gran male, che la luna per questo non fallirà la strada.
Gnomo. E i giorni della settimana non avranno più nome.
Folletto. Che, hai paura che se tu non li chiami per nome, che non vengano? o forse ti pensi, poiché sono passati, di farli tornare indietro se tu li chiami?
Gnomo. E non si potrà tenere il conto degli anni.
Folletto. Così ci spacceremo per giovani anche dopo il tempo; e non misurando l’età passata, ce ne daremo meno affanno, e quando saremo vecchissimi non istaremo aspettando la morte di giorno in giorno.
Gnomo. Ma come sono andati a mancare quei monelli?
Folletto. Parte guerreggiando tra loro, parte navigando, parte mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infracidando nell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male.

Giacomo Leopardi, Dialogo di un folletto e di uno gnomo, in Operette morali.

giovedì 30 agosto 2018

Gottfried Benn - Morgue


Gottfried Benn, Morgue, Einaudi, 1971

Le prime poesie di Gottfried Benn sono contraddistinte da un livido espressionismo, qua e là punteggiato da note sardoniche. Il poeta descrive la condizione umana segnata dalla fine, quando la decomposizione è ormai in atto, oppure è prossima a manifestarsi. L’irreparabile incombe in tutti i testi di Morgue come una condanna fisiologica che disintegra i corpi mediante una esecuzione incessante, a cui il poeta assiste con la freddezza di un anatomopatologo. E leggendo questi versi si comprende che per Benn la malattia è in realtà l’esistenza stessa, che risulta minata ab origine: l’infezione nasce nella carne, nella materia e non l’abbandona più, così come si evince dalla terribile e paradossale Requiem, nella quale ciò che resta della pulsione di vita nei tronconi dei corpi all’obitorio viene cooptato dalla morte in una sorta di infernale capovolgimento: “Due su ogni tavolo. Di traverso / tra loro uomini e donne. Vicini, nudi, / eppur senza strazio. Il cranio aperto. / Il petto squarciato. Ora figliano / i corpi un’ultima volta”.
Il Benn di questi testi non è ancora quello della cosiddetta staticità poetica. Qui – come afferma Ferruccio Masini nella prefazione – “si svellano e si amputano i nervi e i tendini che assicurano l’uomo al mondo; qui si fa del mondo un immenso cadavere”.
Questo annichilamento progressivo dell’esistenza opera in Benn una riduzione totale di ogni atto umano, che appare inutile ed assurdo, perché cerca di nascondere la propria verità profonda, cioè la putrescenza della carne. 
L’uomo è smembrato, è un cervello, o un insieme di organi destinati a perdersi, a ritornare alla terra, ma senza alcuna rinascita possibile: “Carne si livella al suolo. Fiamma si dà via. / Umore si appresta a colare. Terra chiama”. 
Non c’è nulla di sentimentale in Benn. Gli esseri umani s’incontrano e si accoppiano spinti da una forza naturale a cui non possono sottrarsi, ma che un giorno rivelerà il loro niente, nello spietato raffronto tra il prima e il dopo, tra l’incoscienza vitale di ogni amore o passione e la rigidità del cadavere.
Accanto a questa tematica centrale, si può rilevare, tra le altre, la nostalgia per gli antenati primevi (“l’uomo della selva primeva / che tutto dal suo ventre genera”), in contrapposizione alla ferita della propria nascita, presente nella poesia Madre: “Come una ferita porto te / sulla fronte, che non si rimargina”.
La lettura di questo primo Benn ci inserisce così in una dimensione esistenziale ultima, frantumata, tra la verità terribile della scienza e la consapevolezza che l'uomo è fatalmente condannato non solo dalla propria nascita, ma anche dal proprio tempo.
Mauro Germani



martedì 3 luglio 2018

LA CITAZIONE (n. 13) - Luigi Pirandello



Mi lasci dire! Se la morte, signor mio, fosse come uno di quegli insetti strani, schifosi, che qualcuno inopinatamente ci scopre addosso… Lei passa per via; un altro passante, all’improvviso, lo ferma e, cauto, con due dita protese le dice: - “Scusi, permette? lei, egregio signore, ci ha la morte addosso”. E con quelle due dita protese, la piglia e butta via… Sarebbe magnifica! Ma la morte non è come uno di questi insetti schifosi. Tanti che passeggiano disinvolti e alieni, forse ce l’hanno addosso; nessuno la vede; ed essi pensano quieti e tranquilli a ciò che faranno domani e doman l’altro.

da Luigi Pirandello, L’uomo dal fiore in bocca (atto unico; I rappresentazione al Teatro degli Indipendenti di Roma, 21 febbraio 1923)

mercoledì 27 giugno 2018

Thomas Bernhard - Il loden



Thomas Bernhard, Il loden,  Edizioni Theoria, 1988

Ripropongo una mia nota critica a Il loden di Thomas Bernhardapparsa sul primo numero della rivista “margo” nell’ottobre del 1988 e successivamente pubblicata nel volume Margini della parola (La Vita Felice, 2014).

Anche questo racconto di Bernhard, pubblicato per la prima volta in Germania nel 1971, costituisce, come le altre opere dello scrittore austriaco, un vortice del perturbamento, dove la scrittura è una specie di frase ossessiva, continuamente lacerata, eppure interminabile.
Ed è proprio all’interno di una fissazione, simile a tratti ad un vuoto delirio, che Bernhard (questo “recensore del caos”, come l’ha definito Claudio Magris) ha ideato la semplice ma inquietante storia di Humer, anziano proprietario di un negozio di rivestimenti interni per bare del Tirolo, uomo alla deriva, vittima di se stesso e del mondo ormai incomprensibile, a cui non resta che la ripetizione continua di parole sconnesse e malate da pronunciare come se fosse sempre l’ultima volta.
In preda all’angoscia della perdita (l’appartamento nel quale viveva da decenni e che il figlio e la nuora hanno indotto a lasciare fino ad obbligarlo a vivere in soffitta, lontano dal proprio negozio) si rivolge all’avvocato  Enderer, ma il dialogo è solo apparente. Humer sviluppa piuttosto uno dei tanti soliloqui bernhardiani (quello del principe Saurau di Perturbamento e del pittore Strauch di Gelo, per citarne alcuni) ancora una volta “sugli orli del vuoto lasciato dalla colonna che reggeva il mondo” – per usare un’espressione di Giorgio Cusatelli.
Questo tipo di angoscia – intesa come perdita di un’abitudine ad un mondo e più in generale come lutto davvero universale – è spesso presente nelle pagine di Bernhard , in cui “l’individuo pensante si ritrova sempre più in un immenso orfanotrofio”, come afferma nel suo lucido delirio il principe Saurau in Perturbamento ed il linguaggio percorre l’estrema periferia di un centro smarrito. Qui infatti la narrazione ha origine da una voce impersonale che presenta e contiene due diverse articolazioni linguistiche che volutamente si intersecano disgregandosi a vicenda: quella di Humer e di Enderer in prima persona.
Tutto, allora, non è che la citazione di una citazione, in quanto tutto è già stato detto. Ciò che sconvolge l’incontro tra i due personaggi è proprio il loden indossato da Humer, nel quale Enderer riconosce quello di suo zio, suicidatosi anni prima nel fiume Sill. Il protocollo che l’avvocato redige smarrisce sempre più la propria funzione di obiettiva verbalizzazione (un metodo come un altro di controllo inutile del caos) ed è continuamente interrotto e stravolto dal fantasma del loden, vero protagonista del libro, oscuro significante di un destino-necessità ormai senza più significato, che provoca  il progressivo e lacerante passaggio dal panico del senso al senso del panico e del fallimento. Humer se ne va improvvisamente senza neppure firmare la procura generale e si suicida qualche giorno dopo; Enderer  si reca alla casa del defunto per riavere il loden che era stato di suo  zio. I puntini di sospensione finali lasciano intuire un probabile epilogo tragico anche per l’avvocato. Ciò che deve, ineluttabilmente sarà.
Mauro Germani

Altri articoli su Thomas Bernhard presenti su questo blog:

martedì 19 giugno 2018

In ricordo di Christian Tito


Desidero ricordare Christian Tito, improvvisamente scomparso, con il suo libro Lettere dal mondo offeso (L'arcolaio, 2014), una testimonianza importante che raccoglie la corrispondenza con Luigi Di Ruscio, negli anni tra il 2009 e il 2011. 


Ho sempre apprezzato in lui la sua profonda umanità, unita ad una grande curiosità intellettuale e all’amore per l’arte in tutte le sue forme.



domenica 17 giugno 2018

Pierre Drieu La Rochelle - Fuoco fatuo



Pierre Drieu La Rochelle, Fuoco fatuo, SugarCo 1979

Non appartenenza e fuga dalla vita: questo è ciò che caratterizza Alain, il protagonista di Fuoco fatuo, il romanzo che Pierre Drieu La Rochelle (1893-1945) scrisse nel 1931. Egli, infatti, si sente come un fantasma in questo mondo, non ha pace, non ha alcun motivo per esistere veramente. E’ sempre fuori di sé, sempre altrove. Ciò che vive è inevitabilmente toccato dall’ombra. La sua figura sprigiona un fascino strano, un mistero inavvicinabile. Passa attraverso gli eventi con una lontananza che inquieta, mosso da qualcosa che sfugge, ma che è potente. E’ un destinato, un prescelto del nulla (“Io non sono nulla; e la morte è due volte nulla”), una specie di adolescente che sfida se stesso e gli altri, anche se il suo cammino non conduce alla cosiddetta maturità bensì alla morte. Tutto nel romanzo ha il brivido ultimo, tutto concorre all’ineluttabile che viene ricercato dal protagonista, “questo straniero che guardava con la tenerezza remota e derisoria di un morto”.
Seduttore suo malgrado, seduttore senza amore, seduttore sedotto dalla morte, Alain vive l’attimo per distruggerlo e vincere nell’impossibile. C’è qualcosa di eroico, ma è un eroismo alla rovescia, un trionfo della dissipazione e del vizio, un precipitare nel baratro aperto dall’esistenza.
E’ una fenomenologia dell’abisso, la descrizione del lavoro inesorabile della morte, uno sguardo lucido – quello di La Rochelle – che non può lasciare indifferenti. La sua scrittura testimonia questo scacco mortale, questo addio prolungato, questo parlare a nessuno. Perché le parole di Alain restano nel vuoto e gli interlocutori sono solo apparenti, sono ombre che si dissolvono.
Ma se non c’è scampo per il protagonista, in realtà non c’è nemmeno per gli altri, tutti persi ed imprigionati in un mondo insignificante, verso cui Alain prova sempre più disgusto. A ben vedere, il denaro sembra essere il feticcio necessario, intorno al quale gravita la vita sociale di ciascuno. Denaro per la libertà, secondo la concezione adolescenziale di Alain; denaro per la propria identità, secondo gli altri. Frammenti d’esistenza intorno a qualcosa che eccede, che pare giocare o liberare, ma che in realtà opprime, proprio come la droga che il protagonista assume. Una spirale che avvolge e che soffoca. E vivere senza lavorare e farsi mantenere – ciò che ha sempre fatto e fa Alain, con il suo attaccamento all’adolescenza – non è una soluzione, ma un’altra forma di schiavitù, come ora ben comprende. Non c’è via d’uscita nel mondo borghese che frequenta. Gli incontri, un matrimonio fallito, l’alcol, la droga, le donne, le richieste continue di denaro: tutto così risibile e tragico, tutto così accerchiato dal vuoto, così nulla. E l’incapacità di esistere davvero, di essere reale nella realtà.
Se per un attimo la scrittura pare ridestare in lui qualcosa, una potenza nascosta, che “raccoglie e unisce le forze diffuse della vita umana”, è ormai troppo tardi. Egli è un viaggiatore senza biglietto, come ha intitolato l’abbozzo di una sua confessione, poche righe appena: è un estraneo fra estranei, è un colpevole che continua a trasgredire la vita, è un clandestino di passaggio, un fantasma che ormai ha rinunciato a incarnarsi non solo in quel mondo, ma nel mondo. E’ davvero troppo lontano. E così la “piccola carovana di parole, che portava il ristretto bagaglio di desideri con cui avrebbe potuto rifornire la sua ragion d’essere, e che egli aveva abbandonato per tanto tempo in mezzo al deserto del foglio” è destinata a fermarsi per sempre. Non scriverà più.
Anche le parole dell’amico Dubourg, che tenta di salvarlo - prima compagno di trasgressioni ed ora integrato e sposato, con la passione dell’egittologia - sono inutili, anzi non fanno che rafforzare il suo desiderio di fuga e di annullamento.
Alain comprende la propria inconsistenza e la propria diversità, ma non sarà la droga ad ucciderlo, perché ora ha bisogno di concretezza, di realtà. Ora vuole esserci davvero. Non più discorsi a metà, relazioni fasulle, richieste di denaro, viaggi senza biglietto, ma un gesto unico, definitivo: “Una pistola è solida, è d’acciaio. E’ una cosa. Aderire, finalmente, alle cose”.
Il lavoro della morte, a cui si accennava prima, pare così trasformarsi in un paradosso estremo, cioè nell’appropriazione della morte da parte della vita. E il fatto che poi il 15 marzo 1945 anche Pierre Drieu La Rochelle abbia posto fine alla propria tormentata esistenza non è certo da considerarsi secondario.
Mauro Germani