Che
effetto leggere oggi il Diario
di un parroco di campagna
di Nicola Lisi (1893-1975), autore ingiustamente dimenticato del
nostro Novecento! Si entra in un mondo scomparso, in quella grazia
citata
alla fine dal curato di Ambricourt nel ben più noto romanzo di
Bernanos dallo stesso titolo. Se però in quest’ultimo (scritto nel 1936,
ma pubblicato in Italia nel 1945) prevale spesso il tormento, e
l’assedio del male non dà tregua, nel libro di Lisi (uscito da
Vallecchi nel 1942) è possibile cogliere il candore di una
meraviglia continua, lo sguardo umile della creatura verso il mistero
della creazione di cui fa parte, nella consapevolezza di vivere un
dono che è compito dell’anima custodire.
Don Antonio, l’anziano
parroco di campagna, annota nel proprio diario la sua particolare
attenzione nei confronti del mondo naturale, che gli si presenta come
manifestazione di un disegno ben più vasto, di una volontà che
insieme lo comprende e lo trascende. C’è in lui una sapienza
religiosa e popolare che non viene mai meno: non solo accettazione
di una volontà superiore ma anche fiducia nella preghiera e nella
Provvidenza. Egli è un’anima semplice, non superficiale, una sorta
di fanciullo invecchiato, ricco della propria esperienza interiore e
di vita e, al tempo stesso, aperto al mistero e allo stupore. Il suo
diario, suddiviso in tre parti, corrispondenti a tre anni denominati
Anno del freddo,
Anno dei
pellegrini,
Anno dei fiori,
è per noi una testimonianza di una cura e di un’umiltà che non
possono non sorprenderci, in quanto espressioni di una saggezza e di
una forza che oggi sembrano irrimediabilmente perdute.
Del resto, il
parroco di Lisi rispecchia proprio il mondo amato dall’autore
toscano (era nato a Scarperia, nel Mugello), presente in tutti i suoi
libri in svariate forme, dal dialogo teatrale (L’acqua,
1928; La via
della Croce,
1953), alla favola (Favole,
1933;
Il seme della
saggezza, 1967),
al
racconto (I
racconti, 1961),
alla prosa autobiografica (Parlata
dalla finestra di casa, 1973).
Nella sua opera la realtà contadina non è mai chiusa in sé stessa,
ma è sempre specchio del cielo, delle stagioni che scandiscono i
tempi della vita, in una specie di calendario
terrestre e spirituale.
Non a caso, Nicola Lisi, già nel 1923, insieme a Piero Bargellini e
Carlo Betocchi (autori cattolici come lui, con i quali condivise
l’avventura della rivista mensile “Il Frontespizio”) diede alle
stampe il Calendario
dei pensieri e delle pratiche solari, un
almanacco di racconti, aforismi e apologhi con l’intento di
un’adesione alla vita naturale non separata dalla verità della
Provvidenza.
Sarebbe tuttavia sbagliato sostenere che in Lisi il male
sia completamente assente: esso è tentazione e peccato, separazione,
allontanamento dal divino, ma non incombe in modo drammatico e
lacerante come in Bernanos. Carlo Bo, giustamente, ebbe modo di
sottolineare che «Lisi
è passato indenne fra disastri e disperazioni e non già perché non
ne avvertisse la presenza, ma perché si teneva ben fermo a quella
geometria dell’anima con cui ha costruito la stessa lettura del
mondo».
Nel Diario
di un parroco di campagna il
vento, le nuvole, gli animali, le piante, il passaggio delle stagioni
sono tutt’uno con le speranze o le disgrazie degli uomini, le loro
paure o le loro infermità, in un andamento corale e insieme
sommesso, che viene registrato sulla pagina con rispetto e
partecipazione, delineando così un vero e proprio paese dell'anima, come s'intitola un'altra sua opera del 1934. Non solo. Affiora sovente un mistero
buono,
una grazia,
appunto, che soccorre l’anziano parroco nei momenti di difficoltà
e lo prepara ad accettare serenamente il destino che lo attende. Una
lezione per lui e per noi, oggi.
Mauro
Germani