giovedì 24 marzo 2016

Lia Maselli - Le case dei venti contrari



Lia Maselli, Le case dei venti contrari, Formebrevi Edizioni 2016

Con questo suo libro d’esordio, Lia Maselli ci consegna una scrittura narrativa anomala, altamente poetica, essenziale e stratificata insieme, che procede per frammenti ed associazioni, nella quale tutto  sembra spiato e vissuto al tempo stesso, in una sorta di continuo sdoppiamento, tra la realtà di ciò che accade e le sue segrete correspondances.
La storia comprende i temi del tradimento e della morte, della scelta e dell’identità, ma è costantemente spalancata verso il suo doppio oscuro, l’abisso che accompagna i sentimenti e le azioni, il teatro folle dell’io e delle sue enigmatiche proiezioni.
E proprio qui stanno le case dei venti contrari, i luoghi sospesi e vacillanti dove la protagonista cerca di cogliere, dietro le maschere dei nomi e del tempo, il mistero della propria storia.
Mauro Germani



lunedì 21 marzo 2016

Luca Lanfredi - Il tempo che si forma




 Luca Lanfredi, Il tempo che si forma, L’arcolaio 2015

C’è una specie di sguardo distonico in questa raccolta poetica di Luca Lanfredi, qualcosa che sembra sottrarsi ad una percezione netta del mondo, di uno spazio delimitato e certo.
Lo slabbrato sentimento dell’istante” è qui assediato dal nulla che rende instabile o addirittura cancella di senso ciò che accade, come le frasi a metà che si possono cogliere tra i passanti.
E l’andamento dei versi pare proprio disegnare una linea che continuamente si spezza, seguire una voce che s’interrompe e poi riprende “il poco del discorso”, senza artifici, ma in una nudità disarmata. Perché ciò che sta al centro di questa silloge è il rapporto tra il tempo della realtà ed il tempo della parola, che è tensione imprescindibile per ogni scrittura autentica, per un dire che non voglia compiacersi, ma incarnare per quanto possibile il suo sforzo estremo.
Lanfredi è cosciente che davvero “troppe sono le ossa” e ciò che resta “è tutto qui”, in una stanza che “non si può dire vuota, ma piena / di niente”. C’è dunque una totalità indicibile che in qualche modo arresta la nostra pronuncia: “La mia lingua non è più / la tua; non è il mio / muscolo, non è il tuo / discorso. Qui, sono / i platani dei viali e non / il tutto al quale si appartiene / a pronunciare i nomi che / si attendono alla porta.”
Il tempo si forma con gli istanti dello sguardo, ma questi sono destinati a diventare altro nella parola, a restare in una pronuncia ferita e frammentata, dove il niente risuona (“Guardare è avere male alle parole”). Le tracce mnesiche affiorano in una parola che a sua volta è traccia d’altro, vita latente e precaria, fino a divenire talvolta gesto che stupisce tra luce ed ombra.
Ci sono in molte poesie istanti che tornano, come momenti avvolti quasi da una meraviglia disincantata o da una perplessità attonita, barlumi d’esistenza che sembrano non appartenere più o fermarsi per poco ad un confine, ad una periferia prossima alla dissoluzione. 
La parola cerca il gesto del tempo come un destino a cui è chiamata, ma essa è nello scarto, forma il suo tempo, edifica la sua voce solitaria, come un “anagramma” che è arduo ricomporre. Ecco allora quella distanza che il poeta sa, quella frattura abitata dalla pagina, quel respiro straniero che pure è nostro, dove – come afferma Lanfredi -  le parole sono “distanti un’autobiografia”.
Il rapporto tra il tempo della realtà e quello della parola si configura allora come segnato da un’inquietudine, che è insieme tensione esistenziale e poetica, nella consapevolezza che “ci si perde poi /dentro la storia, in ogni inizio, nella camera / murata dove si cerca il nord come / nell’improvviso d’una città straniera”.
Mauro Germani




sabato 19 marzo 2016

Intervista araba

Intervista a  MAURO GERMANI
a cura di Ahmed Loughlimi

Vorrei iniziare quest’intervista con il primo incontro di MAURO GERMANI con la poesia. Quando è successo il colpo di fulmine, oppure è stata una scelta? E chi ha scelto l’altro: la poesia o Germani?
Credo che sia stata la poesia a scegliere me. Mi ha chiamato fin da bambino. Mio fratello, più grande di me di undici anni, mi leggeva i suoi versi e quelli di autori classici come Pascoli. Io certo non capivo, ma ero affascinato dal mistero di quelle parole che in qualche modo restavano dentro di me nel loro suono e nel loro enigma.
Che cos’è la poesia secondo lei?
La poesia è gettata nel mondo e non ha protezioni, è indifesa. Viene dall’esistenza e cerca di dirla in uno sforzo estremo, in una tensione che i poeti conoscono bene. Non è consolatoria, né appagante. Si situa tra una sfuggente verità e il silenzio. Sfiora l’indicibile e non salva nessuno. Come dice Umberto Galimberti, la poesia ci porta nella sfera dell’indifferenziato, dell’originario, della follia che abita in noi e che rimuoviamo continuamente.
In un mondo materiale, barbaro, superficiale e pazzo come il nostro, qual è l’utilità della poesia, e quale ruolo ha oggi? Ci contiamo per  cambiare il mondo?
Sarebbe bello se la poesia potesse cambiare il mondo, ma non è così. Per cambiare il mondo dovrebbero cambiare gli uomini e la poesia non è in grado di cambiarli, se non in piccola parte. Anzi, la poesia, quella vera, spaventa.
Lei ha scritto anche narrativa e si occupa della scrittura di autori classici e contemporanei; come vede la narrativa italiana dei nostri giorni? E quali sono secondo lei gli scrittori contemporanei che rappresentano la narrativa come si deve?
A dire il vero adesso seguo poco la narrativa contemporanea. Non la trovo molto interessante. Mi sembra nel migliore dei casi che ci siano delle abilità nella costruzione delle storie, delle “furbizie tecniche”, ma niente di più. Non c’è nulla di estremo, manca la tensione dell’esistenza, non c’è “follia”, non c’è “sacro”. Esercizi di stile senza stile. Quello che manca spesso è la qualità della scrittura.
Lei ha fondato la rivista di scrittura, pensiero e poesia "Margo".Come vede la letteratura italiana contemporanea? E il racconto italiano chi lo rappresenta dopo i grandi Italo Calvino, Dino Buzzati, ecc.?
La rivista “Margo” è stata un’esperienza molto impegnativa. C’era da parte mia passione ed entusiasmo. Ero giovane e avevo più energia, ma più o meno le idee che avevo sulla scrittura sono le stesse di adesso. Ho avuto modo di conoscere più da vicino l’ambiente letterario italiano ed è stato abbastanza desolante, anche se ho conosciuto persone che stimo e di cui sono amico. Il racconto italiano oggi mi sembra morto. Non lo pubblica più nessuno, non so perché. E’ un vero peccato.
Chi sono i poeti e gli scrittori che hanno segnato Mauro Germani?
Tra i poeti italiani contemporanei soprattutto Roberto Carifi. Naturalmente ve ne sono anche altri, come ad esempio Mario Benedetti. Tra i classici Giorgio Caproni. Per quanto riguarda gli scrittori Dino Buzzati, a cui sono molto legato. E poi Kafka e Céline.
Lei ha scritto un libro sul grande Giorgio Gaber , “Il teatro del pensiero”. Ci parli un po’ di questo genio.
Gaber per me è stato fondamentale. Ne sento profondamente la mancanza. Vidi il suo primo spettacolo a 17 anni e rimasi folgorato. Mi è sembrato giusto dedicargli un libro, uno studio tematico sul suo teatro. E’ stato un grande maestro del dubbio, un artista davvero unico e profetico. Ha saputo rinnovare a modo suo l’esistenzialismo. La sua opera è ricca di riferimenti culturali: Céline, Sartre, Pasolini, Borges… Poi sulla scena sprigionava un’energia straordinaria. Alla fine di ogni spettacolo era stremato.
I suoi libri preferiti o diciamo i libri di cui ha sperato essere lei lo scrittore?
Sicuramente “Il Deserto dei Tartari” e i “Sessanta racconti” di Buzzati. Ma ce ne sono tanti altri. “Il processo” di Kafka, ad esempio.
In una o in poche parole. Il suo film o i suoi film preferiti?
Amo film molto diversi tra loro. Tra i registi prediligo Leone, Bunuel, Hitchcock. Sono molto legato in particolare a due film di Leone “Il buono, il brutto, il cattivo” e “C’era una volta il West”, che risalgono al periodo della mia adolescenza.
Il suo più grande poeta?
Come si fa a dirlo? Non mi piace definire chi è il più grande.
Che cos’è per lei l’amore?
L’amore per me è sempre segnato dalla mancanza, non è quella pienezza che sogniamo.
Il teatro?
E’ uno specchio in cui vediamo il nostro pensiero o il nostro nulla, una magia che quando è davvero tale ferisce.
Gli alberi?
Come le montagne o il mare o il cielo sembra che vogliano dirci un segreto antichissimo, qualcosa che ormai è impronunciabile.
La vita?
E’ qualcosa di incomprensibile, potente e fragile al tempo stesso. A volte spaventa.
La morte?
Ci accompagna sempre, ma lo dimentichiamo. E’ il nostro segreto.
La donna?
La donna è sempre un’altra, è sempre Altro. Può essere sogno, bellezza, dannazione o tutte queste cose insieme. E’ ciò che muta, che cambia sempre.
La bellezza?
E’ un enigma.
Il racconto?
Ogni racconto è un mondo che si apre, che ci viene incontro e che finisce. Non è mai un gioco. Ogni racconto è mortale.
La critica?
Non amo la critica accademica. Deve entrare nel testo, coglierne l’essenza, assorbirlo in un altro testo altrettanto valido, altrettanto creativo, se possibile.
La notte?
Ho sempre pensato che la notte e la mia poesia abbiano molte cose in comune.
Milano?
E’ la città in cui sono nato, la città dell’infanzia, della Bovisa, dei ricordi. Dagli anni Ottanta ha cominciato a perdere la sua identità. Mi dice sempre meno…
Gli amici?
Sono molto selettivo. Ne ho pochi.
Umberto Eco?
Un intellettuale indubbiamente, non certo un artista o uno scrittore.
Giorgio Gaber?
Lo sogno spessissimo da quando è morto. Una presenza costante per me.
Dino Buzzati?
Devo a Buzzati l’amore per la lettura, ma anche le mie prime domande sul destino dell’uomo.
Mauro Germani?
Non ho mai saputo chi sia veramente... 

Al-Sharq – 10 marzo 2016 – n. 10129