giovedì 18 ottobre 2018

Mario Marchisio - Sulle ultime tre raccolte poetiche di Mauro Germani



PRIMA DEL SILENZIO

Nelle raccolte successive al libro pubblicato nel 2002, l'onda luminosa si ritira e la poesia di Mauro Germani (1) torna ad aggirarsi in un orizzonte di tragico abbandono dove le tenebre, come fossero catene, si avvinghiano all'io senza concedergli scampo; essa torna, seppure con maggiore consapevolezza anche formale, al suo desolato punto di partenza (2). Tra la speranza e il nulla, è prevalso il nulla.
Preliminarmente, si rende opportuno un accenno al linguaggio, che presenta ora una caratteristica nuova: sfrondato, quasi scheletrico, tutto giocato sulla rifrazione di poche, ossessive parole in cui sembra specchiarsi l'altrettanto scheletrica magrezza dei versi. I quali oscillano, specie in Terra estrema e Voce interrotta, fra le tre e le nove sillabe, con una prevalenza schiacciante dei versicoli (3).
Come ha scritto Marco Ercolani, il poeta evita con ogni cura di elaborare «una frase [...] troppo articolata», quasi «non avesse neppure il tempo di pensarla. I versi brevi stringono lettore ed autore nell'esiguo spazio di un respiro rauco, interrotto, fra dolore e dolore» (4).
In effetti, qualcosa di simile a un balbettio disperato sembra coagularsi «nella fredda fiamma / del nulla / o più lontano in fondo / nel pozzo segreto / e senza nome» (5). In questo affannoso vagare privo di scopo e di meta, con la mente offuscata e le mani piene di mosche, sfugge talvolta al nostro poeta una confessione icastica, la diagnosi lucida e spietata della sconfortante eredità di chi si scopre orfano di Dio: «Com'è sola la carne / e noi assenti in lei / e lei nel mondo».
La carne, un termine biblico che risuona senza interruzione dalla Genesi alle Lettere di san Paolo (nel duplice significato di "corpo" e di "natura umana"), e che non a caso appare con insistenza nelle pagine di Terra estrema (6). Carne, ombra, mondo: ecco le parole decisive intorno alle quali ruotano i versi di questo libro (7), «Verbo perduto da Dio / verbo senza Dio / che nella notte chiama / e nessuno risponde, / grido senza bocca / che nel deserto cerca / un cuore sepolto».
Affermando più sopra che il linguaggio di Germani, dopo Luce del volto, denota un'asciuttezza scheletrica, mi riferivo alle pagine in versi. Nelle brevi prose che figurano in Livorno e Terra estrema (due sezioni in entrambi i libri) possiamo invece constatare un'inattesa ricchezza cromatica, la quale viaggia di pari passo con una più ricca varietà di toni. Vi si profilano anche frammenti di vicende angosciose, sfilacciate (8), che il nostro autore riesce però a tratteggiare senza la recente, ascetica parsimonia lessicale e sintattica. Ne emerge un modello espressivo assai differente da quello all'opera nei versi.
Si prenda ad esempio in esame quella che con ogni probabilità costituisce la più riuscita fra le sezioni in prosa: Voci (9), un ciclo di sette componimenti che ci danno la piena misura della versatilità di Germani. Pur mantenendosi fedele al suo tema di fondo, il poeta innesta nel flusso verbale improvvisi e balenanti riverberi, allusioni, figure simboliche, grazie anche al ricorso alla prosopopea, espediente retorico che gli consente di far parlare in prima persona la Terra, la Notte, il Vento, il Cielo, il Fuoco, la Neve e gli Animali. «Condanna condanna dice il Fuoco, vi porto questa luce assassina, questa profezia senza dio, questo dono strappato all'ignoto»: così inizia uno dei testi. Dice a sua volta la Neve: «Chi mi contempla ascolta il canto dell'esilio, la musica senza nome che è sulle labbra degli abbandonati, il battito sordo di un male segreto». Qui il ritmo triadico delle proposizioni, già riscontrabile, con esiti convincenti, in Una voce persa (10), si dispiega con uno slancio pari alla suggestione delle immagini. Poesie in prosa nelle quali, a dispetto di quel titolo, la voce di Germani è più che mai ritrovata.

***
Le ossessioni di un io spettrale, quasi evanescente, ribadite attraverso la prosodia affannosa e sincopata cui Germani ci ha abituati, tornano a galla tutte insieme per incidere come una lama i versi di Voce interrotta. Il paragone più calzante sembrerebbe quello col primo Ungaretti, se non altro per certi snodi della versificazione (11).
L'impalcatura metaforica, che appariva nettamente assestata nelle varie sezioni di Luce del volto ed è andata attenuandosi nei versi dei due libri successivi, tende qui invece a cedere e a sfaldarsi sul nascere, isolando in primo piano la testimonianza di una disfatta esistenziale. L'io non ha perduto soltanto ogni coordinata interiore, ma obbedisce all'esigenza di trasfondersi, nudo e crudo, in una musica verbale che rifugga come indebito ornamento anche la meno elaborata delle metafore. Ogni atto, ogni pensiero sfuma e si perde in se stesso, e prima ancora nell'assenza di Dio (12).
In Voce interrotta fa altresì capolino, fino a diventare una presenza significativa, la parola «impossibile» (13), sia in veste di sostantivo che di aggettivo (14). Ma il paradosso è questo: l'impossibile, pur rimanendo tale, continua a rivelarsi necessario. Ripudiata infatti e allontanata da sé la radice trascendente di ogni esistenza, l'io non smette di sanguinare. La rassegnata rinuncia al proprio fondamento ontologico non gli impedisce di sussistere e di patire: «mio verbo ignoto, mia febbre / sconsacrata». Il mondo, favola polverosa, è tutto racchiuso nella parola umana che coincide con il lento implodere dell'io e delle sue vestigia, ormai indecifrabili.
La mesta Livorno che campeggiava nella prima sezione della raccolta omonima passa ora il testimone a Milano: rinviando, di fatto, a un non-luogo, a un teatro di larve. Fra i vivi e i morti  viene meno  all'istante qualsiasi distinzione sul piano dell'essere. Dai ricordi materni e dall'infanzia remota, il corteo dei defunti accompagna il cammino di un io inabissato nella consapevolezza dell'impossibile: «Di chi è questa voce scritta / che ascolto, questo fiato / senza corpo, questa / febbre alta / che brucia nell'aria?».

Note
1) Mauro Germani, Luce del volto, Campanotto 2002; Livorno, L'Arcolaio 2008; Terra estrema, ivi 2011; Voce interrotta, Italic 2016. Germani, che è anche narratore e critico letterario, ha fra l'altro pubblicato il romanzo Il prescelto (Perdisa 2001) e Margini della parola. Note di lettura su autori classici e contemporanei (La Vita Felice 2014).
2) Mauro Germani, L'attesa dell'ombra, Schema 1988 (plaquette poi confluita in Luce del volto).
3)  Livorno presenta invece versi dalla struttura più ariosa, tendenzialmente svincolata dal predominio della reiterata brevità.
4) Marco Ercolani, L'abisso e il dolore, in: Terra estrema.
5) Questa citazione da Terra estrema, così come le successive, fanno parte dell'unica sezione in versi della raccolta: L'ignoto sangue.
6) «È questo solo / lo scandalo della carne, / l'enigma di ogni nome»; «È nel tuo viso / nell'indicibile carne»; «Non so quale risorta carne / quale vita eterna»; «nella luce e nella notte / della sua carne»; «ancora in questa / carne fantasma / come una voce / prima del sonno»; «Questo continuo / perdere la carne / come non fosse mia»; «È qualcuno il mio corpo / ignota carne»; «Quale carne nella carne / essere dentro la pelle»; «Amputato corpo / è questa parola / viva carne / che palpita ancora».
7) La quarta parola, «corpo», è qui una variante di «carne», un suo sinonimo.
8) A partire da Livorno, lo «scacco nei confronti dell'esistenza si fa sempre più acuto [...] Non c'è nessuna interezza ma solo [...]  uno smarrimento che include gli affetti, [...] i momenti di incontro e di tenerezza, quando le parole diventano povere, non bastano più ed i gesti sono sempre a metà, sempre incompiuti» (Conversazione con Gabriele Gabbia, in: www.margo - scrittura, pensiero, poesia, 18/02/2018).
9) Penultima parte di Terra estrema.
10)  Prima sezione in prosa di Livorno.
11)  Come in Indizi (XIII): «marciamo / nel buio della / parola, noi / tutti / voi senza / poesia / noi soldati / senza più / ordini, / fantasmi / di tutte le / veglie». Le citazioni che seguono sono tratte dalla prima e più ampia sezione della raccolta: Dissolvenze.
12) «brilleranno i morti / come per gioco / [...] il cielo rovescerà / l'estate sui visi / [...] senza più Dio».
13) Un termine presente fin dall'inizio, con varie sfumature semantiche, nell'opera poetica di Germani.
14) «L'impossibile in quella via / e le finestre ad una ad una»; «L'ho sentito qui / l'impossibile / tra il petto e la gola»; «bocche spalancate / a chiedere l'ultima / impossibile voce»; «la perfetta e impossibile / incarnazione, la frana / felice del mondo»; «Solo così fu l'impossibile, / solo così parlasti»; «In te è l'impossibile / della vita»; «È una parola / impossibile, un gesto / che salta le righe»; «[...] tutto precipitò / nell'errore di una voce / impossibile».


Mario MARCHISIO (Torino, 1953-) ha all'attivo svariate raccolte di poesie e di saggi dedicati alla letteratura, all'arte e alla religione. Gli aforismi completi sono stati pubblicati recentemente insieme a tutte le poesie e ai racconti nel volume La morte attiva (Aurora Boreale 2018). Vedi la voce su: www.wikipedia

venerdì 5 ottobre 2018

Hugo von Hofmannsthal - Lettera di Lord Chandos



Hugo von Hofmannsthal, Lettera di Lord Chandos, Rizzoli, 2018


La lettera di Lord Chandos, che Hofmannsthal scrisse nel 1902, rappresenta una rinuncia, una resa della letteratura davanti alle forze oscure ed incontrollabili che dominano l’esistenza. Il protagonista, infatti, decide di abbandonare la scrittura perché avverte la sconfitta della parola rispetto a ciò che quotidianamente lo assale, travolgendo i suoi pensieri e le sue emozioni.
L’esperienza interiore si rivela così intraducibile non solo mediante una parola razionale ed ordinatrice della realtà, ma anche attraverso forme espressive più libere, inerenti cioè alla scrittura letteraria.
È questa una problematica cruciale che non può essere ignorata qualora si intenda affrontare sinceramente la funzione del linguaggio e della parola. Mitizzare quest’ultima, attribuendole – soprattutto in poesia – capacità divinatorie o terapeutiche o salvifiche, oppure avvolgendola in un’aura assoluta, aldilà del bene e del male, e collocandola in una dimensione totalmente altra, non significa rendere  un bel servizio alla stessa scrittura, che non è (o non dovrebbe essere) astratta composizione, né semplice esercizio di stile o di maniera.
La parola nasce dall’esistenza e di quest’ultima deve recare i segni, le ferite, le tensioni, gli abissi oscuri che la contraddistinguono. Una fiducia eccessiva nella scrittura comporta una considerazione della medesima pacificata, come se fosse semplicemente speculare al pensiero o alla realtà o al nostro spirito, con la conseguenza da parte di chi scrive di una ridotta volontà di ricerca, che paradossalmente coincide spesso con la presunzione di dire, o di salvare, o di rappresentare senza alcuna tensione esistenziale, senza alcuna lacerazione, il reale nelle sue molteplici manifestazioni. Ma pensiero e linguaggio, corpo e parola, esperienza vissuta e scrittura sono sempre in lotta, sempre in combattimento. E questo lo scrittore dovrebbe saperlo ed il lettore dovrebbe avvertirlo.
Nella sua lettera, Lord Chandos afferma: “La lingua in cui mi sarebbe dato non solo scrivere, ma forse anche di pensare non è né il latino, né l’inglese, né l’italiano o lo spagnolo, ma una lingua, delle cui parole non una mi è nota, una lingua in cui mi parlano le cose mute”. E questa atroce impossibilità lo induce al silenzio, confessando al destinatario della lettera, Francesco Bacone, di avere perduto completamente “la capacità di pensare o di parlare in maniera coerente e logica su qualsiasi argomento”. Ogni cosa si spezza, si frantuma e le singole parole gli fluttuano intorno: “divenivano occhi che mi guardavano fissi e che io, a mia volta, mi sento costretto a fissare: sono gorghi, che a guardarli mi danno le vertigini, che girano vorticosamente senza posa, e una volta attraversati i quali si approda nel vuoto”.
Come scrive Claudio Magris nell’introduzione al volume, questo breve testo di Hofmannsthal “costituisce un manifesto del deliquio della parola e del naufragio dell’io nel convulso e indistinto fluire delle cose non più nominabili né dominabili dal linguaggio; in tal senso il racconto è la geniale denuncia di un’esemplare condizione novecentesca”.
Tale condizione – aggiungiamo noi – non smette di interrogarci ancora oggi, nel momento in cui ci accingiamo ad affrontare la scrittura, che – come ha affermato Blanchot a proposito di Kafka e dell’enigma dell’opera - “non potrebbe avere la propria origine che nella vera disperazione, quella che non invita a niente e allontana da tutto, e per prima cosa, toglie la penna di mano a chi scrive”.
Mauro Germani