giovedì 26 settembre 2019

Ennio Flaiano - Tempo di uccidere

Un’Africa quasi astratta, ma che il lettore si sente addosso con il suo caldo opprimente, il cielo incolore, il suo lento respiro. Un’Africa che è quella della guerra d’Etiopia, sospesa per il protagonista – un ufficiale italiano – tra allucinazione, vergogna e istinto di sopravvivenza. Un luogo che ben presto diviene quasi metafisico, emblema di smarrimento esistenziale e di improvvisa violenza, come una condanna da scontare. Un luogo – ancora – che mette a nudo la meschinità dell’essere umano, le sue profonde contraddizioni. E soprattutto l’assoluta mancanza di certezze. Perché il sospetto e la colpa tormentano fino alla fine l’animo del protagonista, in uno sdoppiamento continuo della propria personalità, incredulo egli stesso delle proprie azioni e della propria natura nascosta.
La vicenda narrata prende l’avvio dall’omicidio commesso dal protagonista nei confronti di Mariam, una ragazza etiope con cui ha trascorso una notte d’amore. La giovane, prima ferita involontariamente da un colpo di pistola esploso contro un animale dal tenente, viene poi uccisa di proposito da quest’ultimo. Dopo questo evento drammatico, per metà casuale e per metà voluto, il protagonista si trova in una condizione di confusione, di incertezza e di paura, alimentata poi anche dal sospetto di avere contratto la lebbra dalla ragazza, a causa di una pustola che compare poi sulla sua mano. Un malessere mentale e fisico s’impadronisce a poco a poco di lui, fino a condurlo quasi alla diserzione e a imprigionarlo in una sorta di delirio, tra ipotesi di fuga, esplosioni di violenza incontrollata, dubbi continui, viltà e pentimenti.
Niente è sicuro in questo romanzo, se non la tragedia di quest’uomo comune, in balia di se stesso e di una verità sfuggente. Egli non è un eroe, né un antieroe, piuttosto è chi non pensava di essere, un individuo che scivola tra indifferenza e orrore per ciò che sta vivendo, ma che prova anche profonda nostalgia per la moglie lontana, di cui gli restano ricordi struggenti e le lettere nello zaino. Un uomo solo, che non sa che fare, in preda a pensieri di morte che lo assalgono senza dargli tregua. Ipotesi, sospetti, indizi si succedono a improbabili progetti di salvezza, tra illusioni, disperazioni, vani tentavi di fuga. Il delitto commesso e la paura del contagio divengono il centro di un’ossessione, che dilaga all’ambiente, agli altri personaggi, alle cose. Che cosa è successo e sta succedendo veramente?
C’è indubbiamente, in questo straordinario romanzo di Ennio Flaiano (Premio Strega 1947), un’inquietudine che rimanda, per certe atmosfere e tematiche, a Dostoevskij (l'uomo del sottosuolo, intimamente contraddittorio e malato, dall'io diviso, posseduto da forze e ossessioni che sfuggono al proprio dominio), e a Kafka (il senso di colpa e di possibile condanna all'interno di un contesto che  pare spesso  incomprensibile), tuttavia con un’impronta personale di abbandono, di trasporto lirico, con uno sguardo che in certi momenti rivela una pietas non di maniera, uno scatto dell’anima, sia pur fragilissimo, esposto ai rischi costanti dell’annientamento.
Flaiano è abilissimo nel narrare, in prima persona, una storia che mette in gioco non solo la natura del protagonista, compromettendone la sua moralità e la sua lucidità, ma anche l’identità degli altri personaggi, tra tutti il vecchio Johannes e il bambino Elias, parenti della vittima, con i quali l’ufficiale, sempre più smarrito, instaurerà un rapporto contraddittorio, di dipendenza e di rifiuto insieme. Anch’essi, chi sono in realtà? Quali motivazioni nascondono i loro comportamenti?
Poi c’è la guerra di conquista, ormai giunta quasi al termine, e presente nelle pagine come una specie di sogno malato, un morbo dell’anima, che ha generato e continua a generare violenza e assurdità, stordimento della coscienza, sopraffazione e miseria. Il tutto senza discorsi ideologici, ma mettendo in evidenza quella tragica normalità, quel male dolciastro, che tutti accomuna, vincitori e vinti.
La conclusione del romanzo è spiazzante e insieme coerente, perché apparentemente tutto sembra risolversi e l’incubo del protagonista finire, in quanto “il prossimo è troppo occupato coi propri delitti per accorgersi dei nostri”, come afferma un personaggio nelle ultime pagine. E occorre ricordare quanto dichiarò lo stesso Flaiano circa l’epilogo non certo rassicurante della storia: “Il protagonista, alla fine, ha di nuovo il sospetto di non essere guarito. Forse non si tratta più della lebbra, si tratta di un male più sottile e invincibile ancora, quello che ci procuriamo quando l’esperienza ci porta a scoprire quello che noi siamo veramente. Io credo che questo non sia soltanto drammatico, ma addirittura tragico”.
Tempo di uccidere è sicuramente uno dei più importanti romanzi del Novecento italiano.
Mauro Germani



sabato 7 settembre 2019

Giovanni Testori - Trilogia degli Scarozzanti





Giovanni Testori, Trilogia degli Scarozzanti, in Giovanni Testori, Opere (1965-1977), Classici Bompiani, 1997

Con la Trilogia degli Scarozzanti, comprendente L'Ambleto (1972), Macbetto (1974), Edipus (1977), Giovanni Testori crea un percorso drammaturgico di estrema originalità, contraddistinto da una scrittura che nasce dentro la carne, perché il linguaggio – secondo le parole dello stesso Testori – “deve essere fisiologico, creare tensione tra chi parla e chi legge o ascolta”. Da questo motivo scaturisce la necessità di una scrittura non solo materica, ma anche libera da un sistema espressivo codificato ed istituzionalizzato, una scrittura ancestrale, quindi, la quale – per citare quanto Testori dichiarò a proposito del Macbetto – vuole “mettere l’apocalisse nelle parole: distorcerle, squartarle, scuoterle”, fino al risucchio, dentro “la grande fenditura di cui la donna è l’emblema, da cui tutto è uscito e in cui tutto rientra”. E questa affermazione è da collegare anche all’ossessione – presente sempre in Testori – della nascita, del venire al mondo contro la propria volontà, dell’espulsione dal ventre materno nel sangue, in una condanna terrena tutta da scontare, nella battaglia continua tra senso e non senso. Non a caso nell’Ambleto il fantasma del re emerge dal suo stesso sperma, perché è proprio da lì che per il protagonista inizia la tragedia.