Questo
romanzo di Léon Bloy (1846-1917), pubblicato nel 1897, è un grido e una preghiera. Con la
straordinaria forza espressiva che lo contraddistingue, il grande scrittore cattolico ci consegna un’opera che fa trasalire, percorsa da fremiti violenti e
soavi, ora di condanna e ora di profonda fede e spiritualità.
Ben
oltre il naturalismo, che giudica fallimentare, Bloy rivendica «il diritto di
narrare al di fuori dei limiti stabiliti dai teorici della finzione». E in
effetti la sua scrittura si situa in uno spazio letterario altro, in cui i personaggi appaiono come incarnazioni di anime tout-court, senza psicologismi di sorta,
e il narratore non risulta mai esterno,
ma coinvolto nella storia con il furore e la passione di un profeta che non può
tacere.
La
vicenda di Clotilde, la donna povera del titolo, è esemplare. Creatura segnata
dalla sventura e dalla grazia, luminosa anche e soprattutto nella sofferenza,
non può non trasmettere al lettore una profonda commozione.
Già
nella descrizione iniziale, è possibile percepire la natura eccezionale del
personaggio: «i suoi magnifici capelli neri scintillanti, i grandi occhi di
gitana prigioniera da cui sembrava si dilatassero le tenebre, ma dove si
concentrava ogni rassegnazione, il pallore doloroso del suo volto infantile i
cui lineamenti, modificati da un’angoscia vivissima, erano divenuti quasi
severi e infine la morbida agilità dei suoi gesti e del suo camminare»
conferiscono, fin da subito, alla figura di Clotilde «un’aria di grandezza», in
opposizione a quanto di turpe la circonda, cioè alla forza travolgente e incessante del male.
A
Clotilde è riservato un destino di dolore e di elezione, degno dell’eroica
santità dei martiri, o degli ultimi,
a cui è stato promesso il Regno Celeste.
Il
tema della povertà – centrale in tutta l’opera di Léon Bloy e che egli stesso dovette sperimentare
drammaticamente sulla propria pelle – è qui fonte di lacrime e di preghiera, di
solitudine e di abbandono a Dio, di umiltà e di coraggio. A proposito del suo
mistero, Bloy scrive: «“Avrete sempre i poveri con voi”. Dal giorno in cui
furono pronunciate queste parole abissali, nessuno è stato più in grado di dire
che cos’è la povertà». E Clotilde, questa vittima sacrificale del mondo, questo
agnello immolato e baciato dalla grazia, rifulge tra le tenebre di una società
ipocrita e meschina, condannata al proprio nulla, alla propria tragica
insensatezza.
Il
feroce disprezzo di Bloy per la borghesia passa attraverso la denuncia della
sua cupidigia, nonché della terribile falsità morale, ovvero quella maschera
sociale che viene ostentata per coprire ogni segreta nefandezza. Così i ricchi
– afferma Lèon Bloy – «questi miserabili intuiscono che la povertà è la faccia
stessa di Cristo, la faccia oltraggiata che mette in fuga il principe di questo
mondo e che dinanzi ad essa non è possibile straziare il cuore dei poveri al
suono dei flauti o degli oboe. Sentono che la sua vicinanza è pericolosa, che
le lampade fumigano al suo avvicinarsi, che le torce diventano ceri funebri e
ogni gioia sparisce». Va detto poi che gli strali dello scrittore colpiscono
anche quella parte del clero troppo comoda
e amante del quieto vivere, quei ministri opachi o benestanti, che hanno ridotto in normale consuetudine, vale a dire
in cenere, il fuoco della parola divina, e non sanno pertanto trasmettere
alcunché a chi li incontra.
Attorno
a Clotilde ruotano diversi personaggi, l’anima
dei quali è sapientemente tratteggiata da Bloy. Oltre a coloro che sono la
causa della sventura della donna, descritti con sarcasmo in tutta la loro
miseria morale, vi sono quelli attratti dal suo misterioso fascino spirituale:
personalità non comuni, artisti eccentrici e solitari, fuori da ogni
conformismo ideologico e sociale, destinati anch’essi all’incomprensione e a una sorte avversa. Tra questi, vale la pena citarne due: Cain Marchenoir e
Léopold: il primo, scrittore dilaniato dall’assoluto, innamorato del Medioevo
(«Il Medioevo era un’immensa chiesa come non se ne vedrà più fino a quando Dio
non ritornerà sulla terra […] Era costantemente il Venerdì Santo e il sole non
si mostrava»), segnato da una religiosità tragica e intransigente, tanto da
essere chiamato il grande inquisitore di
Francia; il secondo, praticante «l’arte dimenticata della miniatura»
sposerà, invece, Clotilde, e condividerà con lei i patimenti e i dolori della
loro drammatica vita.
L’impetuosità
della scrittura di Bloy non risparmia – all’interno della narrazione – pagine
di profonde riflessioni circa l’esistenza, i suoi abissi e i suoi enigmi, come
isole sparse qua e là, circondate da un mare agitato che attende d’essere
placato da una forza superiore. Perché alla fine questo romanzo dolce e
violento, evangelico e visionario, incarna mirabilmente le ultime parole di lei,
la donna povera: «Non c’è che una
tristezza. È quella di non essere santi».
Mauro Germani