martedì 13 febbraio 2024

Lorenzo Morandotti - I demoni della speranza

Lorenzo Morandotti, I demoni della speranza, puntoacapo, 2022


Che cos’è un aforisma se non un lampo del pensiero, un’intuizione folgorante, una visione improvvisa, o addirittura una veggenza dentro la notte, una verità che grida nel deserto? Come la punta di un iceberg, ogni aforisma nasconde un segreto sommerso, un mondo occulto, un humus profondo, un prima che è all’origine della scrittura vera e propria. Ed è questo sapere antecedente, questa premessa velata a rendere affascinante ciò che poi appare sulla pagina, nella forma lapidaria e abbagliante di un dire sentenzioso, che resta come un segno finale, un’ultima conclusione con cui il lettore deve fare i conti. Si comprende allora come la brevità aforistica non sia solo sinonimo di una concisione del pensiero, ma accurata selezione lessicale, perentorietà stilistica, associata sempre a un alone di mistero, di un non detto, di un’assenza che palpita all’ombra di ogni parola. Occorre, insomma, una notevole perizia per comporre aforismi degni di questo nome, capaci di scuotere l’intelletto e l’anima di chi legge. 

È quanto, con mirabile estro, ci consegna Lorenzo Morandotti con I demoni della speranza, dopo il volume di surrealistico umor nero, nonché di suppurazioni dell’anima e smarrimenti corporali Crani e topi (ES, 2014). In questa nuova raccolta rinveniamo capovolgimenti semantici che sono sconfinamenti irregolari della parola e del senso, paradossi esistenziali che diventano irriverenti arguzie, guizzi sorprendenti della mente oltre sé stessa, e soprattutto fulminanti intuizioni relative alla scrittura e ai libri: tutti requisiti per una lettura coinvolgente, che provoca non solo l’intelligenza («L’unico delitto è rinunciare all’intelligenza»), ma anche l’anima («Date ascolto all’anima. Prima che vi distrugga»). 

Ciò che Morandotti ci trasmette è una sorta di partecipazione ironica, di distacco critico eppure – a ben vedere –  appassionato nei confronti dell’esistenza, della sua ambiguità e dei suoi lati oscuri e nascosti. Ed è proprio qui che si colloca, nelle sue multiformi sfaccettature, l’enigma dello scrivere, tra caducità («I libri ingialliscono come le foglie. Ma cadono più in fretta») e severa dedizione («La parola si nutre senza mani. Va alla deriva in un semplice nome. Ha bisogno di veglie, di esatte cornici»), in una tensione che è quella della vita stessa nella consapevolezza che il pericolo odierno e infernale è quello di «una babele miserabile dove ogni parola si equivale». La scrittura, pertanto, non risulta essere una dimensione separata, ma qualcosa che agisce misteriosamente in noi e oltre noi, tanto che «un romanzo può essere la cronaca di un fallimento o il movente per un delitto»; oppure «È ordine della natura o esercizio della volontà, quando muore un essere umano. Ma se capita a un libro è un sacrilegio intollerabile». Da considerare, poi, l’aleggiante ombra della morte che affiora tra un aforisma e l’altro, ora in modo esplicito e ironico («La signora con la falce, dopo l’inchino: “Permette questo ballo?”. E, sventurata, la vita risponde»), ora in maniera più sottile («Anche se il corpo è una camera d’albergo, ne restituirai la chiave una volta sola»). 

Durante la lettura non si può non cogliere l’influenza, più o meno evidente, di grandi autori di aforismi come Cioran e Ceronetti, dai quali Morandotti eredita, da par suo – cioè con una vena più eccentrica, sconfinante spesso nell’assurdo o nell’umorismo macabro – non solo la tagliente nitidezza dello stile dei suddetti, ma anche un problematico afflato metafisico, nell’ineludibile scarto tra anima e mondo, tra negazione della speranza e il suo ricorrente, luminoso (o diabolico) fantasma.

Mauro Germani

 

mercoledì 24 gennaio 2024

Antonin Artaud - Il Pesa-Nervi. Frammenti di un diario infernale


Antonin Artaud, Il Pesa-Nervi. Frammenti di un diario infernale. Saggio introduttivo, Lettera ad Artaud e traduzione di Carmelo Claudio Pistillo, La Vita Felice, 2023

Questa pubblicazione del Pèse-Nerfs (1927) e dei Fragments d’un journal d’enfer di Antonin Artaud (1896-1948), a cura di Carmelo Claudio Pistilllo – che firma l’ampio saggio introduttivo, una lettera ad Artaud e la traduzione – è da non perdere per vari motivi. Innanzitutto perché di queste due opere giovanili di Artaud quasi nessuno si è mai finora occupato, e poi perché l’introduzione di Carmelo Claudio Pistillo risulta davvero illuminante per comprendere la vita e l’opera di Artaud, forse l’autore più estremo e tormentato del Novecento, la cui esistenza drammatica appare inscindibile dalla sua produzione multiforme e febbrile. Quest’ultima appare segnata da un desiderio incessante e insopprimibile di raggiungere un’espressività incarnata, una dimensione non cartacea o letteraria della parola, ma capace al contrario di dire la vita, di esserci, fino al sacrificio di sé, fino a divenire silenzio nella sua contesa con l’impossibile, con l’inafferrabile. E proprio la consapevolezza della frattura abissale tra pensiero e linguaggio spingerà Artaud a cercare risposte oltre il cosiddetto dicibile, al di là della scrittura comunemente intesa e del teatro occidentale, fondato sulla ripetizione inutile di una parola immobile. La sua sarà una lotta tremenda contro tutto ciò che non scuote il corpo e lo spirito, contro il risaputo, il già visto, il già sentito, e alla fine contro la letteratura e lo stile, verso cui non può che provare orrore. 
Dall’originario conflitto corpo-mente, passando attraverso la permanenza presso la tribù dei Tarahumara, indios dediti a strani riti e all’uso di peytol, pianta dagli effetti allucinogeni, al cosiddetto «teatro della crudeltà» del 1938 (il quale vuole essere «la vita stessa in ciò che ha di irrappresentabile», come scrisse Deridda), Artaud viene sempre più attratto e tentato dall’impossibile, da una ricerca che sfida il limite, la ragione e la stessa scrittura, in un annientamento totale del pensiero compiuto e del senso. Ed è interessante notare come già nel Pèse-Nerfs troviamo la seguente affermazione: «Tutta la scrittura è uno schifo. Tutte le persone che fuggono dal vago per definire quel che accade nel loro pensiero, sono schifose. Tutta la stirpe dei letterati è schifosa, specialmente nel nostro tempo». Sembra esserci un’anticipazione di ciò che avverrà negli ultimi anni di vita dell’autore, quando farà del corpo uno strumento di ribellione, mediante l’uso delle glossolalie, fino al delirio dell’indicibile e dei rumori corporali. 
Il Pèse-Nerfs – «una specie di stazione indecifrabile e completamente eretta in mezzo allo spirito», secondo la dichiarazione dell’autore – è un’opera frammentaria, spezzata, magmatica, percorsa da lampi in mezzo alle tenebre e al dolore («Sono un abisso totale»), che divengono paradossi, capovolgimenti di senso, pulsioni, confessioni, espropriazioni di sé, ma è anche, al tempo stesso, una testimonianza drammatica contenente i prodromi di ciò che sarà la vita e l’opera complessiva di Artaud. 
Anche i Fragments costituiscono una prova evidente dei conflitti di Artaud («È il confltto tra la mia abilità interiore e la difficoltà a esprimerla che crea il momento in cui muoio»), del suo spossessamento e della battaglia che combatte con ciò che potremmo definire la parola del suo sottosuolo
Le tappe della sua dolorosa vicenda esistenziale («questo dolore conficcato in me come un cuneo», scrive ancora nei Fragments),  che lo vedrà più volte ricoverato in istituti psichiatrici, tra cui quello di Rodez, nel quale subirà ben cinquantuno elettroshock, costellano, come una sorta di disperata via crucis, l’attività di Artaud, che rappresenta sicuramente un unicum artistico, sfuggente a qualsiasi definizione, come peraltro egli stesso desiderava. Forse, però, pare lecito azzardare che, nonostante tutto, cioè nonostante il nulla, Artaud sia stato un uomo divorato dall’assoluto e dalla vita, anche nella negazione, nel rifiuto e nella bestemmia. Certo è che la sua esistenza e la sua opera non possono alla fine non interrogarci sul misterioso rapporto arte-follia, a cui Karl Jaspers dedicò in Genio e follia un ampio studio. Senza entrare nello specifico, possiamo aggiungere semplicemente che talvolta le possibilità dell’arte in genere e le possibilità della follia si incontrano, restando indissolubilmente ed enigmaticamente legate tra loro, in quanto possibilità dell’esistenza stessa.

Mauro Germani