sabato 20 marzo 2021

Alexander Lernet-Holenia - Il barone Bagge

Alexander Lernet-Holenia, Il barone Bagge, Adelphi, 1982

Una sospensione tra la vita e la morte, un interregno di cui non si è consapevoli, ma destinato poi a divenire una segreta rivelazione. In questo mirabile racconto  di Alexander Lernet-Holenia (1897-1976), pubblicato per la prima volta nel 1936,  il lettore – al pari del protagonista, il barone Bagge del titolo – si trova, pagina dopo pagina, in una zona in cui tutto vacilla, tutto appare e scompare, come in un sogno che annuncia un pericolo invisibile ma imminente.

L’atmosfera della storia – ambientata durante il primo conflitto mondiale, ma che ben presto si configura al di là di una dimensione temporale precisa, per assumere un valore altro, metafisico – avvolge i personaggi come un manto di nebbia, un alone di un mistero imperscrutabile che è destino e domanda, sguardo nel vuoto e ricerca di senso. Tutti qui sono fantasmi in una guerra fantasma. Tutti vagano in territori che sembrano in procinto di dissolversi, oppure che sono ormai disabitati perché qualcuno è fuggito. Tutti sono ai limiti dell’ignoto, e le loro stesse azioni non sembrano avere una ragione plausibile, come se fossero mossi da ossessioni segrete, da qualcosa d’innominabile che li assale costantemente. Stupende sono le descrizioni dello squadrone austriaco che procede sul fronte orientale come fosse una soglia estrema, un punto di non ritorno, un’avventura che pare non avere più alcuna direzione, ma che attende da un momento all’altro una rivelazione. Ciò che il protagonista sperimenta è la dissoluzione delle proprie ragioni, del proprio pensiero, perché è sospinto da una forza invisibile che lo domina. Il barone Bagge, infatti, non è consapevole di ciò che in realtà gli è accaduto e gli sta accadendo: non sa, ma crede di, si trova in un equivoco. Eppure dentro questo equivoco c’è qualcosa che lo supera e lo contraddice, qualcosa che alla fine lo segna, un’esperienza che non è il nulla, ma il contatto con una dimensione che non può essere rinnegata. Non siamo qui ai confini dell’ignoto, ma dentro l’ignoto. L’irrealtà ha, in questo breve romanzo di Lernet-Holenia, una straordinaria potenza, superiore a quella della cosiddetta realtà. E tutti i personaggi che ruotano attorno al barone Bagge sono portatori di qualcosa che al tempo stesso sfugge e ferisce, lasciando al loro cospetto un’impronta indelebile. Tra questi la figura dell’impenetrabile e imprevedibile comandante Semler, «sul suo grosso mezzosangue, un sauro scuro, il bavero di pelliccia rialzato con la catenella d’oro intrecciata sopra», che conduce lo squadrone di centoventi uomini, «non si sa verso dove», spinto «da qualcosa d’invisibile come il soffio del vento», in preda ad una follia senza rimedio, segnata da un eroismo distruttivo. E poi Charlotte, vera e propria apparizione nella desolazione del nulla, luminosa ed enigmatica, con i suoi occhi «d’un radioso, fantastico azzurro, come se vasti spazi di cielo vi si specchiassero», che fissa il protagonista «senza un batter di ciglia, al modo degli occhi delle dee» e che reca in sé un destino di amore e di morte.

Il barone Bagge è un gioiello narrativo che ha il dono del mistero e della brevità. Il primo chiama a sé inquietudini e interrogativi in cui vita e morte si confondono o si scambiano le parti, in una sorta di gioco di specchi in cui i morti sembrano più vivi dei vivi; il secondo concerne la grande abilità di Lernet-Holenia a narrare, in poche pagine e con una scrittura raffinata e incisiva, una storia per nulla scontata, foriera di implicazioni metafisiche e spirituali.

Mauro Germani

 

venerdì 12 marzo 2021

Joseph Conrad - Cuore di tenebra

In Cuore di tenebra, lo straordinario romanzo di Joseph Conrad (1857- 1924), la voce narrante del capitano Marlow conduce i suoi ascoltatori e noi lettori in una vera e propria discesa agli inferi, in un luogo che pare oltrepassare i limiti del dicibile, o comunque configurarsi in una zona che si sottrae alla coscienza per inabissarsi nel baratro oscuro del rimosso. Si tratta del racconto di un viaggio sconvolgente e rivelatore insieme, tanto che la parola spesso vacilla, resta sospesa, e denuncia la propria debolezza davanti al mistero e alla crudeltà dell’esistenza. La risalita del fiume Congo è un addentrarsi progressivo verso qualcosa che sfugge e che spaventa, che attrae e che stordisce, una traversata nel buio e nel primordiale, un ricongiungimento con il sangue antico, con le ombre terribili e dimenticate di tutti noi. Gli interrogativi che questa storia pone riguardano non solo i fondamenti e le contraddizioni della nostra civiltà europea, cioè la ferocia del colonialismo e l’iniquità del cosiddetto darwinismo sociale, che si espressero nella corsa alla spartizione dell’Africa da parte delle maggiori potenze europee tra Ottocento e Novecento, ma anche la dimensione inquietante del male che si annida nei nostri cuori.

Al termine della vicenda di Marlow c’è Kurtz, personaggio centrale del romanzo, figura inquietante a cui tutto rimanda, avvolta dalle tenebre del proprio delirio di onnipotenza, specchio dell’innominabile lato oscuro dell’animo umano. Kurtz sembra incarnare una malattia originaria, qualcosa che eccede e sconvolge, che supera ogni limite temporale, pur rimanendo nella nostra storia. La sua duplicità è il suo fascino terribile, a cui nessuno – nemmeno Marlow – resiste. L’indubbia intelligenza di Kurtz, al servizio del potere e della crudeltà, ha un che di diabolico e di ancestrale, ma al contempo è dentro la storia, è quell’economia del profitto e del male che a più riprese l’Occidente ha abbracciato, ammantandola di discorsi menzogneri in nome della cultura, della civiltà e del benessere. Non è tanto azzardato sostenere che in Kurtz e in ciò che egli rappresenta e provoca ci sono già i prodromi delle catastrofi del Novecento, l’anticipo dell’umano annientamento perpetrato dalla shoah e dalla ferocia razionalizzata ed organizzata di altri terribili regimi dittatoriali, quali ad esempio lo stalinismo. Kurtz è contaminato e contamina. Il suo posto di comando, nascosto e sperduto nel centro dell’Africa, è il luogo di un orrore occulto che è nel cuore e che nel mondo trova espressione e giustificazione: è questo che sconcerta, che non si vuole sentire e che risulta essere sempre in difetto nel racconto di Marlow ai suoi compagni. Egli stesso esita nella narrazione. Egli stesso non vuole credere fino in fondo all’esperienza eccezionale e tremenda che ha vissuto. Ha visto le teste impalate in quel regno buio, l’enorme quantità di avorio accumulato, l’adorazione e la paura degli indigeni verso un uomo trasformato in idolo. Ha udito la voce di Kurtz, malato ma straordinariamente potente, consapevole d’essere sulla soglia di un confine estremo, lucido e delirante nel medesimo tempo, e ne ha subìto il fascino. La verità agghiacciante è che quella tenebra presente nel cuore di Kurtz è in parte anche nel suo cuore. Al cospetto della follia di chi ha creato un potere disumano, basato sul terrore e sullo sfruttamento in nome di una presunta superiorità civile e di razza, non riesce ad opporsi in modo netto, preferendo un’ambiguità di comodo. Non a caso Marlow, al ritorno dal suo viaggio, non rivelerà nulla alla fidanzata di Kurtz, la quale rimarrà nell’illusione di avere amato un uomo davvero grande e dal cuore nobile, un uomo che, prima di morire, ha avuto l’ultima parola per lei.

La menzogna di Marlow nasconde così quell’orrore che lo stesso Kurtz mascherava con la propria voce e la propria eloquenza, quell’orrore che ancora oggi non si è estinto e che spesso viene rimosso perché troppo imbarazzante, o che si cela in forme diverse, apparentemente innocue. Qui. Dentro di noi e attorno a noi.

Mauro Germani

 

martedì 2 marzo 2021

San Giovanni della Croce - Pensieri

 


L’anima si allontana moltissimo dal cammino che conduce all’alto stato di unione con Dio quando si affeziona a qualche suo modo d’intendere, di sentire e di immaginare, o si attacca al proprio parere e alla propria volontà, o nutre affetto per la sua maniera di agire o per qualsiasi altra cosa, non riuscendo a sciogliersi e spogliarsi di tutto ciò.

Nessuna forma, figura, immagine o altra notizia celeste o terrena, naturale o soprannaturale che può cadere nella memoria, è Dio.

Annientando nelle opere la gioia vana, l’anima si rende povera di spirito, il che è una delle beatitudini evangeliche di cui il Figlio di Dio parla dicendo: Beati i poveri di spirito poiché di loro è il regno dei cieli.

Quanto più l’anima si avvicina a Dio, tanto maggiori sono le tenebre e profonda oscurità a causa della sua fiacchezza. Come chi si avvicina di più al sole, per la debolezza e impurità dei suoi occhi, deve necessariamente subire tenebre e pene maggiori causategli dal grande splendore.

Gli umili, essendo lontanissimi dal voler far da maestri, sono pronti a camminare e a prendere una via diversa da quella su cui si trovano, qualora fosse loro comandato, perché mai credono di riuscire in qualche cosa.

La notte toglie lo spirito dal suo modo ordinario e comune di sentire le cose, facendolo passare a quello divino, il quale è estraneo e lontano da ogni altra maniera umana.

O anima bellissima fra tutte le creature, che desideri tanto conoscere il luogo dove si trova il tuo Diletto, per trovarlo ed unirti a Lui! Tu stessa sei il luogo in cui Egli dimora e il nascondiglio dove si cela.

Tutto ciò che in vita si può conoscere intorno a Dio, per molto che sia, non è cognizione vera, ma parziale e molto remota.

L’anima che desidera Dio, in nessuna cosa trova conforto e compagnia; anzi, finché non lo trova, tutto le cagiona maggiore solitudine.

Oh, se si riuscisse a capire che non si può giungere alla densità e alla sapienza delle ricchezze di Dio, se non entrando dove più numerose sono le sofferenze di ogni genere, riponendovi la sua consolazione e il suo desiderio!

Per quanto un’anima abbia sublimi notizie di Dio, sia dotata di contemplazione e conosca tutti i misteri, come afferma San Paolo, in nessun modo se ne potrebbe servire per l’unione con il Signore se non possedesse l’amore.

O anime che desiderate camminare sicure e consolate nelle vie dello spirito! Se voi sapeste quanto è necessario che soffriate per giungere a questa sicurezza e consolazione, e come senza di ciò, non potete pervenire alla meta desiderata, ma anzi potete solo tornare indietro, non andreste in cerca di consolazione né da parte di Dio né da parte delle creature. Abbraccereste anzi la croce e crocifisse berreste fiele ed aceto puro, perché vedreste che, morendo così al mondo e a voi stesse, vivreste in Dio con gloria di spirito.

Il Padre pronunciò una parola, che fu suo Figlio, e sempre la ripete in un eterno silenzio; perciò in silenzio essa deve essere ascoltata dall’anima.

Chi non cerca la Croce di Cristo, non cerca la gloria di Cristo.

Procura sempre che le cose siano un niente per te e tu un niente per esse, e, dimentico di tutto, rimani nel tuo raccoglimento con lo Sposo.

È buona cosa tenere nascosti e in pace anche i tesori dell’anima, cosicché neppure noi stessi li conosciamo e vi fissiamo gli occhi. Infatti non vi è ladro peggiore di quello che è dentro casa. Dio ci liberi da noi stessi; ci dia quanto gli piacerà e non ce lo mostri finché vorrà.

Le parole distraggono, mentre il silenzio e l’azione raccolgono lo spirito e lo rinvigoriscono.

In questa vita non si può gustare essenzialmente Dio, quindi ogni soavità e diletto che l’anima prova, per quanto sia sublime, non può essere Dio.

I pensieri sopra riportati sono tratti da: S. Giovanni della Croce, Pensieri, Il passero solitario, 1991