giovedì 26 gennaio 2023

Marco Molinari: recensione ampliata a "Tra tempo e tempo" sulla rivista online "ytali"



Sono molto grato a Marco Molinari, che ha voluto ampliare per la rivista online "ytali" la sua bellissima recensione (uscita  sul quotidiano "La voce di Mantova" il 2 dicembre 2022). Per la lettura della recensione ampliata: QUI

lunedì 23 gennaio 2023

Luigi Santucci - Orfeo in Paradiso


 Luigi Santucci, Orfeo in Paradiso, Mondadori 1967

Con Orfeo in Paradiso Luigi Santucci (1918-1999) si aggiudicò nel 1967 il Premio Campiello. Si tratta di un’opera assai originale, in cui la vicenda narrata si sviluppa mirabilmente in una doppia dimensione, metafisica e storica insieme, ambientata nella Milano tra Ottocento e Novecento. Orfeo, il protagonista,  disperato per la morte della madre vorrebbe gettarsi dal duomo di Milano, ma viene fermato dal misterioso Monsieur des Oiseaux, che – con una sorta di patto faustiano – gli concede di tornare indietro nel tempo per riavere accanto a sé la madre e accompagnarla negli anni, da quando era bambina fino alla giovinezza. L’avventura spirituale di Orfeo s’intreccia così non solo con la vita privata della madre Eva Grillo, ma anche con gli avvenimenti storici compresi tra il 1893 e il 1917. Precipitato in un passato che già conosce, egli non può  rimanere però indifferente. Come un postero che si ritrova in un tempo privo delle tradizionali barriere e che gli si presenta antico e nuovo contemporaneamente, egli si dibatte tra possibile e impossibile, sotto la stretta vigilanza di Monsieur des Oiseaux, preoccupato che Orfeo non cerchi di modificare la trama del destino. Ma qual è il vero paradiso? Quello che consiste nel possesso delle persone e del passato, nella non accettazione della morte e, in fin dei conti, della libertà, come è stato concesso a Orfeo, oppure quello che ha come unica forza e verità l’amore, qui, in questa vita, e oltre?

Luigi Santucci è molto abile nel mantenere viva, nella narrazione, la curiosità del lettore e, al contempo, di porre interrogativi riguardanti le questioni fondamentali dell’esistenza. L’amore e la morte, la memoria e il dolore si contendono qui la loro partita all’interno di una prospettiva religiosa, « in bilico tra il terrore e la grazia», come ebbe modo di sottolineare Giancarlo Vigorelli. E vale la pena citare anche ciò che scrisse al riguardo Claudio Marabini: «Un romanzo fantastico, vertiginoso, giocato sulla pelle del Tempo e della Morte […] in cui lo scrittore sfiora l’inesprimibile, dà verbo all’ineffabile».

Perché, a ben vedere, la vicenda di Orfeo è in realtà tutta interiore, e i personaggi che incontra, oltre ad essere se stessi, nella loro realtà in carne e ossa, sono sempre anime che si relazionano con quella del protagonista. Basti pensare alla figura di don Pasqua, straordinario e stravagante prete erborista, le cui parole da profeta, hanno un potere speciale e risuonano più volte nella mente di Orfeo. Don Pasqua è l’altra voce rispetto a quella demoniaca di Monsieur des Oisseaux. Ed eccola, la voce di don Pasqua: «Il bene lo vogliamo, il male no, lo subiamo. Tutta la vita è mobilitata, in ogni attimo, contro il male». E rispetto al tempo e alla morte afferma: «La commedia del tempo, questo vecchio istrione. Tutti ci cascano, lo so. […] Chi amiamo, per noi muore in ogni istante […] Amare è questo esercizio di vedere continuamente l’altro sul letto di morte. Già saltare in fondo a questa breve stagione di farfalle… È solo il falso amore che ha bisogno dell’avvertimento, della separazione: di quella che noi chiamiamo la perdita».  Poi, additando il sole che stava scendendo dietro le Prealpi, così si rivolge a Orfeo: «Tramonta, il vecchio amico. Ma anche lui recita. Ci credi tu al suo tramonto? Domani sarà qui di nuovo; gira gira, gli piace raccontare la favola dei giorni, degli anni… ma che cosa cancella, che cosa sostituisce qui dentro? […] Anche lui in una trappola, non ti accorgi?» «Che trappola?» «Io la chiamo Dio. Preferisci un’altra parola? È lo stesso: quello che non si muove, che non muore, insomma». Sono frasi queste che Orfeo sembra rifiutare, ma che in realtà lasciano un segno dentro di lui. 

Da non sottovalutare sono poi le pagine “storiche” riguardanti i morti di Milano del 1898 e la disfatta di Caporetto del 1917. Lo sguardo di Santucci si sofferma sui particolari, sui gesti, sulle fatiche e sulle speranze di chi lotta per il pane  e di chi combatte o scappa durante la guerra, in una ricostruzione veridica e puntuale. La Storia in cui Orfeo si ritrova è anche la storia della gente comune e della sua famiglia che, benché agiata, non è immune da quanto accade. Egli è un’anima sdoppiata e tentata, a un passo dall’abisso o dalla salvezza. E non è il caso di rivelare il finale del romanzo per non privare il lettore del piacere della scoperta.

Per concludere, un’informazione. Nel dicembre 1971, venne trasmesso uno sceneggiato RAI in due puntate (oggi pressoché dimenticato), tratto dal romanzo di Santucci, per la regia di Leandro Castellani. Interpreti principali: Alberto Lionello nel ruolo di Orfeo, Arnoldo Foà in quello di Monsieur des Oisseaux ed Erminio Macario in quello di don Pasqua.

 Mauro Germani

giovedì 12 gennaio 2023

Fulvio Panzeri - I luoghi dell'anima. In viaggio con i grandi scrittori


Fulvio Panzeri, I luoghi dell'anima. In viaggio con i grandi scrittori, Interlinea 2022 (prima edizione 2000)

«Non è lo scrittore a cercare il luogo, ma è questo stesso a rivelarsi ai suoi occhi appunto come occasione di grazia». Queste parole di Fulvio Panzeri (scomparso nel 2021, autore di notevoli contributi critici riguardanti Pasolini, Tondelli e Testori; a proposito di quest'ultimo è da segnalare Vita di Testori, edito da Longanesi nel 2003, nonché la curatela dell'opera completa per Bompiani, in due volumi, rispettivamente usciti nel 1996 e nel 1997) bene descrivono nel  libro da lui curato I luoghi dell’anima. In viaggio con i grandi scrittori (Interlinea, 2022; prima edizione 2000), che cosa intendesse per letteratura da viaggio: la testimonianza di un incontro, di una scoperta, di un’intima rivelazione. E il volume suddetto, comprendente testi di trenta autori, scrittori e poeti, con un’introduzione (nella seconda edizione) di Alessandro Zaccuri, conferma questa caratteristica fondamentale. Ogni autore, infatti – consapevole di vivere qualcosa di unico e di irripetibile – affida alla scrittura il compito di custodire quella speciale esperienza dell’anima offerta dai luoghi visitati. Non è possibile qui soffermarsi su tutti i brani dell’antologia, tratti spesso da volumi poco conosciuti e contraddistinti da una straordinaria varietà di riflessioni e di emozioni, tuttavia vale la pena accennare, per la loro particolarità, alle pagine di Carlo Betocchi, Dino Buzzati, Giorgio Caproni, Charles Dickensn, Henry James, Julien Green, Mario Soldati e Giovanni Testori. 

Betocchi, nel suo testo, estrapolato da Confessioni minori (Sansoni, Firenze 1985), afferma limpidamente che «quel che sappiamo fare è nostra grazia: si tratta di impiegarla al suo fine, in questo deserto d’ostacoli aguzzi che è il mondo». E nell’osservare una cava rievoca, in modo sorprendente, la figura di Rimbaud, insieme ad alcuni versi di Una stagione all’inferno, che definisce «di squillante fame spirituale». 

Buzzati, inviato speciale in India per conto del “Corriere della Sera”, al seguito dello storico viaggio di Paolo VI, si chiede come sia stato possibile che un’incredibile folla di un milione di persone, di cui solo una minima parte cattolica, abbia potuto accogliere così festosamente il papa. Forse, scrive, la risposta è nello «straordinario fondo di spiritualità» del popolo indiano, il quale mostra «una grande  reverenza e ammirazione per i grandi maestri dello spirito». Inoltre si domanda come abbiano fatto tutte quelle persone, soprattutto povere, prive di radio e  non abituate a leggere i giornali, a venire a conoscenza dell’avvenimento. E annota: «Che senza sapere bene cosa sia il cristianesimo, abbiano intuito che da qualche parte può venire una speranza terrena finora ad essi negata proprio dalle loro convinzioni religiose?». 

Particolarmente sentita risulta la testimonianza di Giorgio Caproni, in visita nel 1948, insieme ad altri uomini di cultura provenienti da tutto il mondo, al campo di sterminio di Auschwitz. Il poeta prova un amaro senso di inadeguatezza e scrive: «Dio mi aiuti, in questo mio povero diario a posteriori, dove ci vorrebbe il fiato di un genio per rappresentare al giusto la follia d’un intero popolo. Anzi, la nostra umana follia, ahimè». 

L’amore per Venezia è invece ciò che accomuna Charles Dickens e Henry James. Il primo definisce la città un «posto da sogno, stupendo, immateriale, impossibile, perverso, irreale», e resta incantato davanti alla «perfezione» di dipinti come L’Assunzione della Vergine di Tiziano e Il Paradiso di Tintoretto, quest’ultimo con «tutte le linee magistralmente e rispettosamente convergenti verso la Maestà di Dio». Il secondo celebra Venezia come suo «luogo dell’anima» e come «la più bella città del mondo», nonostante la sua mutevolezza e la presenza dei turisti: «È vivace o depressa, pallida o infuocata, grigia o rosa, fredda o calda, colorita o esangue, a seconda del tempo e dell’ora». 

Julien Green, in visita a Tubingen, immagina Hölderlin, durante gli ultimi anni della sua vita, nella stanza rotonda della torre, e gli appare come un «bambino di genio che scopre la bellezza del mondo dietro le finestre di una prigione». Proprio per questo, il luogo si rivela, agli occhi dello scrittore francese, misteriosamente doloroso, «dove l’anima prigioniera batte le ali e si manifesta nell’invisibile e nella solitudine». 

Una speciale avventura interiore ce la offre Mario Soldati: il suono delle campane di Sondrio («una specie di ampio, solenne carillon»), riporta lo scrittore al suono di quelle della Valsolda, che udiva svegliandosi la mattina, quand’era giovane. È l’occasione per chiedersi se «la fede sussiste solo come dolore o, tutt’al più, come dubbio, come speranza». Insieme all’eco delle campane, gli pare che qualcosa tremi  «come l’approssimarsi di un’impossibile rivelazione finale»; per lui la conclusione è che «la coscienza del mistero è la nostra unica certezza». 

Di grande spessore è il brano di Giovanni Testori, tratto da Ennio Morlotti. Teschi (Edizioni Bambaia, Busto Arsizio 1978), in cui lo scrittore ricorda la cappella dei Morti di Valmorana, tra i boschi di castani, dove era collocato un antico teschio, davanti al quale, quand’era bambino, recitava un “requiem” insieme alla madre. E annota, mirabilmente: «Le stagioni, i mesi, i giorni; le mattine, le sere; e, in essi, uno per uno, gli attimi, i baleni; gli affetti, gli amori, gli spasimi, i segreti, i deliri, tutto ciò che ci prese e ci infiammò, tutto ciò che ci prende e ci infiamma, lo sappiamo e lo sentiamo benissimo, ha sotto le sue luci, sotto i suoi colori, sotto le sue polpe, un teschio». 

Questi sono, ovviamente, solo alcuni accenni relativi a ciò che questa pubblicazione, nella sua ricchezza e varietà, offre. Il viaggio in compagnia degli scrittori e dei poeti antologizzati (oltre a quelli citati, Auden, Coccioli, Guardini, Hesse, Marin, Mazzolari, Piovene, Rebora, Rilke, Volponi e altri ancora), che si sono lasciati sorprendere e catturare dai luoghi incontrati, non può che continuare nelle pagine del libro medesimo.

Mauro Germani