«Io sono
Colui che sono» (Esodo 3, 14): questa
affermazione di Dio sancisce l’unità tra Dio e l’Essere. Ne consegue che Dio e
l’Essere sono una cosa sola, in quanto non c’è l’uno senza l’altro. Dio è colui
che è: a Dio appartiene l’Essere e l’Essere appartiene a Dio. Solo Dio ha il
privilegio dell’Essere nella sua pienezza.
Ma se
solo Dio è Colui che è, l’uomo non può esserlo. Dio è, l’uomo, invece, esiste.
Non bisogna confondere il piano ontologico con quello proprio dell’ex-sistere. L’esistenza è contrassegnata
dal venire-al-mondo, cioè dalla nascita, fino al suo svolgimento temporale, che
culmina nella morte. Dal momento in cui nasce, l’uomo entra nel tempo, che ne segna appunto
l’esistenza, il proprio percorso terreno. L’uomo è dunque nel tempo, è fatto di
tempo – potremmo dire. E il tempo ha sempre un limite, determinato da una durata, cioè ha un inizio e una fine: è
nel durante, infatti, che ciascun
uomo gioca la propria partita, che compie le proprie scelte, che coltiva le
proprie idee e i propri sentimenti. È in questo arco temporale che costruisce
– bene o male – la propria storia individuale, che non è isolata, ma
strettamente legata a quella degli altri esseri umani. La dimensione
dell’esistenza è pertanto limitata. E
all’interno di questo limite, l’uomo sperimenta, a sua volta, i propri limiti,
giacché si rende conto di poter gestire la propria esistenza solo
parzialmente. Infatti, i limiti temporali entro cui esiste, non dipendono da lui (a meno che decida,
con un atto volontario, di porre fine alla propria esistenza).
Se
questo vale per l’esistenza, non è così per l’Essere. Quest’ultimo – che è di
Dio – non si configura nel tempo, ma oltre
il tempo: la sua dimensione è l’eterno.
Dio è e l’Essere è con Dio. A ben riflettere, si potrebbe pertanto aggiungere
che l’unica realtà è quella di Dio,
non dell’uomo, perché Dio è nel sempre,
non nel durante: è stato, è, e sarà.
Queste
considerazioni, però, potrebbero portare a una incolmabile lontananza tra Dio
e l’uomo, se si escludesse la figura di Cristo. Con Cristo la prospettiva
cambia, e con essa anche il destino dell’uomo. Cristo, infatti, è il Verbo
fatto carne, il Figlio in cui Dio si è compiaciuto, Colui che è venuto nel
mondo e si è addossato tutto il peso dell’esistenza fino alle estreme
conseguenze. Tutto è estremo in
Cristo: nasce in estrema povertà, come l’ultimo degli ultimi, predica un amore
estremo per tutti, e muore di una morte atroce ed estrema, solo e abbandonato.
Cristo, come ogni mortale, compie il proprio percorso terreno fino alla fine,
fa suo il tempo del dolore, fa sua la notte del mondo, per riconciliare il
tempo con l’eterno, l’esistenza con l’Essere. E questa riconciliazione non può
che avvenire attraverso la morte. Assumendo la sofferenza più estrema e la
morte, Egli – nel suo atto d’amore per l’umanità – le riscatta. La sconfitta
della morte, che avviene tramite la resurrezione, non può però prescindere
dalla morte stessa. Quest’ultima è inevitabile,
e si configura come passaggio necessario
verso una perduta unità, quell’unità originaria venuta meno con il peccato,
il quale è, nella sua essenza, separazione, allontanamento dell’uomo da Dio. La
morte e il male sono tutt’uno col peccato, sono frattura, divisione, distanza,
abisso, e fanno parte di noi, della nostra esistenza. Ma il nulla della morte
si rivela anche indispensabile per
accedere all’eterno: occorre finire qui per
cominciare altrove. Un nulla, quindi,
non definitivo, ma la porta che apre all’Altro, che da sempre ci attende. E in
questo senso l’essere-per-la-morte di
Heidegger potrebbe trovare il suo rovesciamento in la-morte-per-essere, tenendo conto delle considerazioni precedenti,
che presuppongono una prospettiva di fede cristiana.
Postilla. Naturalmente queste riflessioni sono opinabili,
come lo è ogni pensiero. Ciò che è diversa è invece la fede, la quale non è un’idea, non è un esercizio intellettuale, né
un concetto filosofico. Essa viene prima
della ragione, non si pensa, ma si sente.
Come ha scritto Cioran in merito agli studi teologici, «tutti quei trattati non
valgono un’esclamazione di Santa Teresa!».
Mauro
Germani