venerdì 12 febbraio 2021

Dina Ferri - Quaderno del nulla e altri testi

Dina Ferri, Quaderno del nulla e altri testi, a cura di Nicoletta Mainardi, introduzione di Marco Marchi, Le Lettere, 2020

Si respira aria d’altri tempi leggendo le poesie e le prose di Dina Ferri (1908-1930), la cui vita «di quattro fogli», come ella stessa la definì dal suo letto d’ospedale, giunge a noi nella sua verità esemplare e toccante, così lontana dagli esibizionismi letterari odierni. Nata da una famiglia contadina della provincia senese, la Ferri, dopo aver  frequentato dai nove ai dodici anni le prime tre classi della scuola elementare, è costretta a dedicarsi per esigenze familiari al pascolo e alla vita dei campi. E proprio durante questa sua attività rimane vittima di un incidente che le procura l’amputazione di tre dita della mano destra: il primo segno di un destino avverso, che farà svanire il suo iniziale desiderio di diventare una ricamatrice. Alla ripresa della scuola elementare, avrà modo di rivelare la sua vocazione letteraria, tanto da ricevere un sussidio economico per proseguire gli studi, che compirà nel Convitto senese del Regio Istituto Magistrale «Caterina Benincasa» fino al completamento, in soli tre anni, nonostante problemi di salute, del ciclo quadriennale delle magistrali inferiori. Non per questo abbandonerà la sua attività nei campi, a cui si dedicherà durante i periodi di vacanza dal collegio. Gli studi e la lettura di autori classici e contemporanei le consentiranno di sviluppare meglio il proprio talento, ed ecco che nel giugno del 1928 vedono la luce, sulla rivista «La Diana», sette sue poesie tratte dal Quaderno del nulla, il quadernetto sul quale Dina, fin dai tempi della scuola elementare, aveva scritto le sue composizioni. Il caso della «poetessa pastora» – come veniva chiamata – non passa inosservato, e la casa editrice Treves di Milano, grazie all’interessamento dei critici Aldo Lusini e Piero Misciattelli, si mostra intenzionata alla pubblicazione delle sue poesie. Ma proprio quando tutto sembra procedere per il meglio, la salute della Ferri comincia a vacillare, fino al grave peggioramento del febbraio del 1930, quando sarà ricoverata all’ospedale di Siena, dal quale non uscirà più.

Ciò che colpisce nella vicenda biografica e letteraria di Dina Ferri non è solo la sua precoce (e davvero rara) passione per la poesia e la scrittura in genere, ma anche il suo atteggiamento nei confronti della vita, che si esplica soprattutto nell’attenzione alla natura e al suo mistero. C’è nella sua opera (nella quale è riconoscibile soprattutto l’impronta del Pascoli di Myricae) la ricerca continua di una profondità che sia in grado di rivelare il segreto dell’esistenza, come se le voci degli elementi naturali, il ritmo delle stagioni ed i mutamenti del cielo, non fossero altro che richiami per l’anima, segni da accogliere con disponibilità, da interpretare e da custodire nel cuore. Il suo Quaderno del nulla è la testimonianza umile (si pensi al titolo attribuito al quaderno) di una sensibilità dolce ed inquieta nel medesimo tempo, di una volontà tenace di comprendere il mondo naturale per meglio intendere le luci e le ombre di sé, dei propri pensieri e dei propri sentimenti. La sua vocazione letteraria è vissuta come un destino (e non a caso Marco Marchi nell’introduzione afferma che «la Ferri era abitata dalla poesia»), che trova espressione nella promessa di un vecchio viandante: «t’insegnerò a strappare i segreti del creato e a camminare senza vacillare sul margine dei precipizi», come si legge nella prosa del 23 agosto 1929. Avvicinarsi al segreto della natura e penetrare l’ignoto è proprio ciò che affascina la Ferri, senza timore: «Vorrei fuggire nella notte nera, / vorrei fuggire per ignota via, / per ascoltare il vento e la bufera, / per ricantare la canzone mia». L’attrazione verso il mistero che si cela nella natura senza mai rivelarsi compiutamente è una costante dell’opera di Dina Ferri. La presenza ricorrente della notte in molte liriche attesta proprio questa tensione verso l’assoluto che chiama con la sua voce arcana, facendo nascere al contempo interrogativi e preghiere, come nella poesia Ricordo, in cui un canto misterioso di campane rapisce la piccola Dina, la quale chiede alla madre il senso di quel canto:« – Oh – dissi – cosa cantano sì bene? / La madre mi guardò tra riso e pianto: / Cantano a Cristo, nato tra le pene».  Fa davvero un certo effetto, poi, leggere i suoi ultimi scritti (poesie, prose, lettere) durante i mesi d’ospedale. Non solo troviamo fino alla fine la sua grande sensibilità e la sua capacità di ascolto poetico del mondo naturale, nel suo rivelarsi (come, ad esempio, il rosignolo che canta la canzone del suo destino) e nel suo nascondersi («la natura si compiace delle sue meraviglie […] perché l’uomo le guardi, ma poi le vela di ombra più densa perché esso non ne penetri il segreto»), ma anche quella sua religiosità mai venuta meno («L’ultimo appoggio dell’uomo vinto o dal dolore o dalle avversità è la speranza che reca la Fede. Essa molte volte si addormenta, ma si ridesta poi al disperato appello del cuore dolorante davanti all’impossibile») e che si esprime, ad otto giorni prima della morte, che la coglierà nel suo letto d’ospedale, al numero 185 della corsia delle donne povere, nel desiderio di perdersi in Dio («Sento vicino come un ronzio, / forse di un’ape, forse… di che? / Voglio nel cielo fatto d’oblìo / perdermi sola, sola con Te»).

Dina, purtroppo, non vedrà la pubblicazione del suo Quaderno del nulla, che uscirà nel 1931 per i tipi della casa editrice Treves, a cura di Piero Misciattelli, e che la farà conoscere al grande pubblico e alla critica. Il «caso Dina Ferri» varcherà addirittura i confini italiani, e nel 1933 una casa editrice di Boston pubblicherà la traduzione in lingua inglese della sua opera. Poi, improvvisamente, come spesso succede, e senza apparente motivo, l’oblio per molti anni, salvo alcune sporadiche e solitarie pubblicazioni.

Dobbiamo dunque esprimere gratitudine alla casa editrice Le Lettere, che ha voluto riproporre in un’edizione davvero molto bella, ed arricchita di un numero consistente di testi finora inediti, le poesie e le prose di Dina Ferri, la «pastorella» che ha rivelato con le sue parole il candore del mistero.

Mauro Germani


martedì 9 febbraio 2021

LA CITAZIONE (n. 25) - Giuseppe Ungaretti


 

Superstite infanzia

 

Un abbandono mi afferra alla gola

Dove mi è rimasta l’infanzia.

 

Segno della sventura da placare.

 

Quel chiamare paziente

Da un accanito soffrire strozzato

È la sorte dell’esule.

 

 

Giuseppe Ungaretti, Dialogo 1966-1968, in Vita d’un uomo, Mondadori – I Meridiani, 1969

lunedì 1 febbraio 2021

Silvio Raffo - Lo specchio attento


 Silvio Raffo, Lo specchio attento, Elliot Edizioni, 2020

Lo specchio attento di Silvio Raffo, scritto quando l’autore aveva poco più di vent’anni, è un romanzo che a poco a poco trascina il lettore in una zona indefinita, in cui apparenza e realtà, finzione e verità diventano quasi indistinguibili. Si tratta – come ha scritto Pietro Citati – di «un piccolo gioiello del fantastico-visionario, genere quasi ignorato dalla narrativa italiana», dove il tema del doppio si manifesta come l’altro che rivendica la propria dimensione oscura e segreta, fino a sconvolgere ogni consueto approccio al reale. Come in un abile gioco di specchi, si ha a volte la sensazione, durante la lettura, di un vero e proprio ribaltamento in cui è il visibile, la cosiddetta realtà, a perdere consistenza e a trasformarsi magicamente nel riflesso di qualcos’altro, cioè di una dimensione arcana ed inquietante.

È quanto succede a Giorgino, un ragazzo taciturno, privo di amici, dotato di una sensibilità fuori dalla norma, che vive in simbiosi con la madre, la quale esercita su di lui un fascino straordinario. Nel rapporto tra i due c’è qualcosa di assoluto, una sorta di misteriosa dipendenza reciproca, di complicità spirituale, che li lega indissolubilmente. Il giovane, che frequenta il liceo classico, ha il dono di un’immaginazione assai fervida e sovente incontrollabile, una predisposizione all’invenzione e al sogno, di cui non può fare a meno. Così, per vincere la solitudine e la monotonia quotidiana, e fuggire da un mondo che gli risulta estraneo, inizia a creare dentro di sé un personaggio che a poco a poco si impossesserà della sua anima: Ester. Sarà proprio Ester a diventare sempre più importante per Giorgino: egli parlerà spesso con la voce di lei, ne condividerà gesti e sentimenti, in un processo creativo sempre più preciso, dettagliato e autonomo, tanto che l’invenzione sembra perdere la sua dimensione fantastica e divenire sempre più reale.

Quali sono, infatti, i confini tra realtà e immaginazione? Silvio Raffo è molto abile nel confondere i piani, suscitando nel lettore non solo spaesamento, ma anche curiosità e attesa per lo sviluppo della vicenda. Chi racconta è  Giorgino, che si prefigge lo scopo di fare ordine e luce nella sua storia, perché solo così – come egli dichiara – potrà vincere il suo male. Ma di che male si tratta? Ed è poi veramente un male? Certo, il giovane, fin dall’inizio della storia, appare scisso dalla realtà, come se vivesse ai bordi del nulla, tuttavia a ben vedere egli è soprattutto un essere abitato dalla poesia o comunque da una dimensione altra che lo chiama e lo possiede, che gli conferisce il potere della creazione. Intorno alla figura di Ester, infatti, costruisce una storia, con tanto di delitto, che può anche essere letta come una sorta di romanzo nel romanzo. Non a caso, poi, Giorgino subisce il fascino irresistibile del giardino dei poeti presso la villa della zia inglese Maud a Portofino: un luogo magico e segreto, dove vi erano i busti di Byron, Shelley e  Keats, che «si guardavano interrogativamente, anzi guardavano il vuoto, giacché erano sistemati a triangolo». Proprio lì il giovane ama disporsi a lato di John Keats e, «per fargli compagnia», recita i versi del poeta; così con la sua presenza il triangolo diventa un quadrato. Quelle figure solitarie rappresentano per lui un ideale di perfezione di cui la realtà è priva.

La passione di Giorgino per la poesia (e per la letteratura in genere) risulta assai importante per comprendere il romanzo. Essa ne rivela non solo l’aspetto autobiografico (si pensi, ad esempio, alle citazioni di Emily Dickinson, della cui opera Raffo è stimato traduttore ed interprete), ma anche un’impronta di formazione, iniziatica quasi, come se tutta la vicenda narrata fosse in qualche modo metafora di ciò che in fondo è alla base di ogni atto creativo. La vita di Giorgino sembra avere consistenza solo nel suo immaginario, nella sua appartenenza ad altro, ai fantasmi che lo abitano. Il suo gioco iniziale ha dato corpo ad un mondo che si è rivelato con la sua misteriosa urgenza. Non è ciò che accade ad ogni artista? Non c’è forse uno sdoppiamento in chi scrive? I versi poetici non sono sempre dettati? E chi narra una storia non vive forse nelle storie altrui? Poeti e scrittori conoscono bene il fascino ed il rischio del nulla, il loro destino è legato all’assenza e al vuoto, proprio come capita a Giorgino. Nella conclusione del romanzo, infatti, sembra che il nulla abbia il sopravvento. Ma di quale nulla si tratta? Forse significa per il giovane protagonista la fine dei suoi giochi d’identità, il superamento di una fase della sua crescita, l’affrancamento dalla madre e da Ester, e la possibilità di abbandonare un mondo per entrare in un altro. Un nulla necessario, quindi, come per chi si affida all’atto misterioso dello scrivere e – sull’orlo di un abisso – è pronto ad accogliere ogni volta la parola.

Mauro Germani