sabato 7 settembre 2019

Giovanni Testori - Trilogia degli Scarozzanti





Giovanni Testori, Trilogia degli Scarozzanti, in Giovanni Testori, Opere (1965-1977), Classici Bompiani, 1997

Con la Trilogia degli Scarozzanti, comprendente L'Ambleto (1972), Macbetto (1974), Edipus (1977), Giovanni Testori crea un percorso drammaturgico di estrema originalità, contraddistinto da una scrittura che nasce dentro la carne, perché il linguaggio – secondo le parole dello stesso Testori – “deve essere fisiologico, creare tensione tra chi parla e chi legge o ascolta”. Da questo motivo scaturisce la necessità di una scrittura non solo materica, ma anche libera da un sistema espressivo codificato ed istituzionalizzato, una scrittura ancestrale, quindi, la quale – per citare quanto Testori dichiarò a proposito del Macbetto – vuole “mettere l’apocalisse nelle parole: distorcerle, squartarle, scuoterle”, fino al risucchio, dentro “la grande fenditura di cui la donna è l’emblema, da cui tutto è uscito e in cui tutto rientra”. E questa affermazione è da collegare anche all’ossessione – presente sempre in Testori – della nascita, del venire al mondo contro la propria volontà, dell’espulsione dal ventre materno nel sangue, in una condanna terrena tutta da scontare, nella battaglia continua tra senso e non senso. Non a caso nell’Ambleto il fantasma del re emerge dal suo stesso sperma, perché è proprio da lì che per il protagonista inizia la tragedia.
La scrittura teatrale di Testori è dunque contaminata, ma anche regressiva, quasi pregrammaticale, e a darle corpo e voce sono proprio gli Scarozzanti, poveri e tragici guitti, che rappresentano, secondo l’autore, “il mondo dei reietti, dei diversi, dei fuori norma, dei non accettati dai partiti e dalle chiese”.
Ci troviamo così davanti ad un teatro spoglio, precario, traballante, retto unicamente dal corpo degli Scarozzanti e dalla loro lingua, che sa di terra e di sangue, un impasto lessicale che trova espressione nel dialetto lombardo, unito a coloriture latine, francesi, spagnole, un magma linguistico di straordinaria efficacia nell’esprimere la disperazione, la rabbia, la violenza, la solitudine, la tenerezza, l’amore.
Un teatro ultimo, potremmo dire, sacrificale, come su un palcoscenico-altare in rovina, dove ogni volta si compie miracolosamente il dramma dell’esistenza, e la passione, il delirio, la rivolta dell’uomo contro il potere si rinnovano, prima del silenzio. Ed è proprio il potere, in tutte le sue forme, ad essere al centro della Trilogia, un potere-assassino, che da sempre governa il mondo e che non accetta alcuna diversità ed opposizione, e che per mantenere sé stesso tortura ed uccide, perpetuando costantemente la menzogna. Vale la pena, a questo punto, riportare le parole di Ambleto: “Se i morti, quelli defungiuti veramente, dervissero in de su la cassa anca al giorno de ‘desso! Se se lazzerazzero i veli dei templa templorum e, ammò prima, quelli del requiem aeternam! Se i governamenti e i misteramenti dervissero i busi de loro e lasassero apparire tutta l’infametà e l’antecristità che covano e nuteriscono in del ventro! Se vegnisse in de giù el Messia e punteresse le dida su de tutti i sepolcri manducanti e sbiancanti! Se se spaccasse fiarmente el segillo che ce tiene tutti legati a ‘sta cadena qui! Tutti! Anca el figlio de un re, ‘pena ce se ‘lumina un momento el zevello! Se la ‘pocalisse se decidesse a scioppare e squartasse su tutta ‘sta menzogneria, tutta ‘sta recitazzione de bavamenti e de leccamenti e ve furminasse lì, in su le vostre cadreghe! ‘Lora, sì! ‘Loria se vedarebbe d’in dove viene el pus che impesta da sempro el mondo e l’universo intrègo!” E L'Ambleto termina con il sogno di un’altra dimensione, aldilà della condanna dell’esistenza, a cui il protagonista, morendo, vuole affidare l’ultima speranza: “E, forze, tornati per sempro in del niente, reussriremo a capire quello che qui se chiamava vanamente la felicità, la giustizia e, indelsopradeltutto, la vita”.
Nel Macbetto, opera teatrale davvero potente, scritta in versi, a differenza delle altre, la strega nasce dagli intestini dello stesso protagonista, dal suo corpo generato e contaminato dal male e dal potere, nonché ovviamente dalla madre, quella Ledi Macbet della malvagità, dell’odio e del sangue, inizio della maledizione di Macbet, il quale – colpendola a morte – le grida tutta la sua rabbia e la sua disperazione: “Porca! Porca d’una vacca e d’una mona/da cui tutto è comencià/e comenciare dorà fino alla fine!”. E il destino del protagonista è segnato dalla morte, che coinvolge, con le parole finali del coro, lo stesso teatro: “E ‘desso? Che sarà ‘desso de noi, de voi, de tutto questo stato,de tutta questa giesa,/de tutto questo orribilo teatro?/Tutto, vardate, è marcio/desfatto et infettato./E come osar possiamo a voi contare,/voi che per ascolare arete pur pagato,/che intanta che in eterna,/avanti va incoì il mondo qui creato,/l’ultemo atto s’è serrato/e tutto il trageco complesso su quest’orrenda scena/fenito è ormai per sempro e termenato?/Meglio è che si smorzino/vuno a vuno, tutti i ciari/di modo che niente più se vardi e più se veda/di ‘sto morbato mondo/di quel che sovra lui sta qui ‘rivando,/niente della gran volta slacerata su del cielo/che dìseno sia eterna,/perché e mondo e cielo et universo intrego/sono solo somiglianti/al buso senza luse e senza fine dell’inferna”.
L’ultima opera della trilogia, Edipus, vede sulla scena un solo personaggio, lo Scarozzante, in un monologo che – secondo le parole di Testori – è tragedia “metastorica, è rapporto diretto con l’Altro, la divinità o il nulla, o il padre e la madre come totalità, la goccia generante, la mutezza, la non risposta”. E il critico Roberto De Monticelli ebbe modo di sottolineare come in questa ultima tappa della Trilogia, aldilà di ogni dialettica teatrale, resta la solitudinecome grido individuale, vana protesta della condizione umana, interrogativo tragico al nulla, alla non risposta”.
Lo Scarozzante è un attore abbandonato da tutti, rimasto all’interno di un teatro ancora più povero dei precedenti, in una scena dove c’è solo un letto nel mezzo, circondato da avanzi di oggetti sparsi qua e là. Eppure, ancora una volta, il palcoscenico si rivela un luogo di luoghi, e la lingua una lingua di lingue. E qui lo Scarozzante deve da solo interpretare i personaggi principali, compresa Iocasta, in uno sforzo supremo, in un sacrificio totale, fino all’evento sconvolgente, l’incesto, che è feroce e dolce insieme, ritorno al grembo materno, desiderio di annullamento e di irrefrenabile passione erotica: “Nissuna carna è ‘me la tua, mia donna primarissima et unighissima! Nissuna! Nissuna è incosì calderosa, vumidente, receventa, lagrimosa, fregnorosa, biscottenta, bagnifenta!”. E lei qui accetta, consapevole: “Viegni, sì, viegni, te che sei el mio creato ma, in dell’insieme, el mio creatoro”, sfidando così entrambi la “Lex unifigante”, la “felosofia dell’Unifigazzione”, cioè a dire il Potere, che risponderà con una mitragliata. E le parole di lui saranno tenerissime: “Di’ che sei anca un po’ contenta...contenta de me, de te, della follaria che abbiamo combenato… Ha fatto de sì con la crappa; l’ha anca sossurrato, spettaculanti...Ma disendo de sì, vardate, è ispirata, ‘me se ci vegnisse fuori dai labbri ‘una rosa...”.
Con Edipus è l’ultimo Scarozzante a parlare, l’ultimo povero guitto su cui calerà il sipario, l’ultimo teatro. La sfida e l’invettiva alla vita di Testori raggiungono qui il punto più disperato e buio, ai limiti del silenzio. Ci vorrà poi Conversazione con la morte (1978) per ritrovare la voce in una nuova, lucida e straziante confessione.
Mauro Germani
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