giovedì 1 settembre 2022

Michele Caccamo - Le sacche della rana


Michele Caccamo, Le sacche della rana. Poemetto su Pier Paolo Pasolini, Castelvecchi, 2022

 

Nel poemetto su Pier Paolo Pasolini Le sacche della rana, la voce del poeta Michele Caccamo è avvolgente, ha un respiro di molti respiri, un ritmo che si consuma e si rigenera continuamente. I versi si stagliano come immagini tra dissolvenze, come scene di un film interiore eppure materico, che miracolosamente appare.

Qui troviamo l’anima di carne di Pasolini, i suoi fuochi, le sue contraddizioni, la sua fragilità e il suo tragico destino. Troviamo l’impetuosità dei sentimenti, quelli che assalgono tra speranza e disperazione e che non danno tregua, nell’urgenza di una sfida che è anche sacrificio. Casarsa, Sacile, Roma, Ostia sono alcune delle tappe di qualcosa di ben più vasto, di una storia che dice sé stessa per dire la sua passione travolgente, di un’esistenza divorata da una fame insaziabile. Il rapporto esclusivo con la madre e quello conflittuale con il padre, il dolore per la tragica morte del fratello Guido, gli incontri con i ragazzi di vita s’intrecciano con i pensieri e i sentimenti di Pasolini al di là di ogni facile retorica.

Ciò che colpisce è invece la verità scomoda della poesia, come via alternativa per parlare di un personaggio non in modo semplicemente biografico, ma sofferto, visionario e, al tempo stesso, puntuale. È infatti questa la scommessa poetica vinta da Caccamo, in quanto il lettore percepisce, a ogni pagina, la concretezza e la fisicità dell’anima pasoliniana, il suo dibattersi estremo. Così la furiosa dolcezza e la solitudine esistenziale e politica di Pasolini si scontrano inevitabilmente con un’Italia in trasformazione, votata a una deriva antropologica e sociale inarrestabile: quella dei polli d’allevamento del consumismo («Carosello era Gesù che moltiplicava il consumo e diceva è finita la penitenza è ormai tutto a portata di mano»), di una sacralità smarrita («Paolo VI disse che la gente non sapeva più che farsene della Chiesa perché era diventata un folclore un qualsiasi prodotto tenuto fermo sul mercato») e di un potere feroce e assassino («io so conosco i mandanti»). E poi il racconto, a frammenti, tesissimo, trepidante, di quell’ultima notte, come un giallo davvero troppo complicato e troppo semplice, Pino con «la camicia annerita dagli scappamenti delle auto», la cena in trattoria, Ostia «piena di fosse di rane», Pasolini disperato, tenero e fragile, il mare che «rotolava aveva freddo», quell’amore pagato e massacrato, e infine Ninetto chiamato per il riconoscimento e che «stava per perdere i sensi».

Un destino che grida come una domanda o una preghiera spezzata. Perché forse Pasolini continua a essere ucciso e la sua morte, il suo strazio non sono finiti. E questo non solo a causa dei troppi interrogativi irrisolti circa il suo assassinio, ma anche perché egli è stato l’ultimo grande intellettuale che abbiamo avuto. Dopo di lui, il nulla. L’agonia di Pasolini è oggi nella resa all’orrido che viviamo, come afferma Michele Caccamo.

Mauro Germani