Nel poemetto su Pier Paolo Pasolini Le sacche della rana, la voce del poeta
Michele Caccamo è avvolgente, ha un respiro di molti respiri, un ritmo che si
consuma e si rigenera continuamente. I versi si stagliano come immagini tra
dissolvenze, come scene di un film interiore eppure materico, che
miracolosamente appare.
Qui troviamo l’anima di carne di
Pasolini, i suoi fuochi, le sue contraddizioni, la sua fragilità e il suo
tragico destino. Troviamo l’impetuosità dei sentimenti, quelli che assalgono
tra speranza e disperazione e che non danno tregua, nell’urgenza di una sfida
che è anche sacrificio. Casarsa, Sacile, Roma, Ostia sono alcune delle tappe di
qualcosa di ben più vasto, di una storia che dice sé stessa per dire la sua
passione travolgente, di un’esistenza divorata da una fame insaziabile. Il
rapporto esclusivo con la madre e quello conflittuale con il padre, il dolore
per la tragica morte del fratello Guido, gli incontri con i ragazzi di vita
s’intrecciano con i pensieri e i sentimenti di Pasolini al di là di ogni facile
retorica.
Ciò che colpisce è invece la verità
scomoda della poesia, come via alternativa per parlare di un personaggio non in
modo semplicemente biografico, ma sofferto, visionario e, al tempo stesso,
puntuale. È infatti questa la scommessa poetica vinta da Caccamo, in quanto il
lettore percepisce, a ogni pagina, la concretezza e la fisicità dell’anima
pasoliniana, il suo dibattersi estremo. Così la furiosa dolcezza e la
solitudine esistenziale e politica di Pasolini si scontrano inevitabilmente con
un’Italia in trasformazione, votata a una deriva antropologica e sociale
inarrestabile: quella dei polli d’allevamento del consumismo («Carosello era
Gesù che moltiplicava il consumo e diceva è finita la penitenza è ormai tutto a
portata di mano»), di una sacralità smarrita («Paolo VI disse che la gente non
sapeva più che farsene della Chiesa perché era diventata un folclore un
qualsiasi prodotto tenuto fermo sul mercato») e di un potere feroce e assassino
(«io so conosco i mandanti»). E poi il racconto, a frammenti, tesissimo,
trepidante, di quell’ultima notte, come un giallo davvero troppo complicato e
troppo semplice, Pino con «la camicia annerita dagli scappamenti delle auto»,
la cena in trattoria, Ostia «piena di fosse di rane», Pasolini disperato,
tenero e fragile, il mare che «rotolava aveva freddo», quell’amore pagato e
massacrato, e infine Ninetto chiamato per il riconoscimento e che «stava per
perdere i sensi».
Un destino che grida come una domanda o
una preghiera spezzata. Perché forse Pasolini continua a essere ucciso e la sua
morte, il suo strazio non sono finiti. E questo non solo a causa dei troppi
interrogativi irrisolti circa il suo assassinio, ma anche perché egli è stato
l’ultimo grande intellettuale che abbiamo avuto. Dopo di lui, il nulla.
L’agonia di Pasolini è oggi nella resa all’orrido che viviamo, come afferma
Michele Caccamo.
Mauro Germani