Tra Tempo e Tempo. Nel titolo Mauro Germani mette in relazione due termini uguali tra loro: tempo e tempo. Tuttavia, si tratta di una ripetizione necessaria perché attiene a due concetti ben distinti, ognuno dei quali viene indagato nella sua sfera specifica di senso: uno è il tempo del vivere quotidiano, con le sue preoccupazioni e le brutture; l’altro, il tempo della fede, della ricerca costante di Dio.
In un linguaggio piano e puntuale, espresso in prima persona, ciascuno dei trentatré brevi capitoli introduce un argomento trattato in continuità con il precedente conferendo, all’intero libro, un respiro ampio ma, anche, un imprescindibile “vincolo di necessarietà” (locuzione cara all’archivistica) tra i temi esaminati.
Il tempo del quotidiano prende le mosse dal passato, dall’infanzia, dall’amore per la lettura e la scrittura, dai ricordi famigliari; l’altro, il tempo della fede, abbraccia i temi cari a Germani filosofo e teologo: la perdita, la morte, il nulla, la verità, l’«urgenza di Dio», per citarne solo alcuni, non dimenticando il particolare amore per i gatti e, in generale, per tutti gli animali.
È opportuno rilevare come entrambe le due sfere
vadano di pari passo, spesso intersecandosi in modo che la prima (la parte
personale) nutra e fecondi quella spirituale: «Di qua la cosiddetta normalità.
Di là il sacro e l’abisso, l’urgenza di Dio e il nulla. Da un lato la precarietà
di ogni atto, la coscienza di una impossibilità o di una sconfitta, il dubbio
dell’illusione; dall’altro una specie di chiamata, fuochi improvvisi, piccole
estasi, cadute rovinose, paure, preghiere balbettanti, sangue che grida.
Entrambe le parti instabili, ma sempre, ovunque, l’attesa di qualcosa. Una
scissione che ho sempre guardato e che guardo. […] Bisognerebbe essere diversi
[…]». (A metà)
A tal proposito, riporto le parole dello studioso della mistica moderna,
Mino Bergamo, riguardo al rapporto «tra
biografia e l’opera, fra la scrittura e la vita». Dunque, Bergamo dice: «Anziché leggere l’opera di un autore in
funzione della sua vita, proviamo ad esempio a interpretare la sua vita in
funzione della sua opera. […] Anziché domandarci quale realtà sia segretamente
rappresentata nel contenuto di un’opera, chiediamoci quale realtà la dinamica
significante di quest’opera abbia la funzione di trasformare. Cerchiamo, in una
parola, di comprendere quel che un autore fa
con un testo, piuttosto che stabilire quello che egli rappresenta per suo tramite.» (Mino Bergamo, «La scrittura come
modello di vita (Jean-Joseph Surin)», in Rivista del Centro Internazionale di
Semiotica e di Linguistica, Università d’Urbino, 1991).
Per meglio comprendere se ci sia e, in caso affermativo, quale sia la «dinamica» trasformatrice di Tra Tempo e Tempo, a venire in soccorso sul versante affermativo è il libro in oggetto nel passaggio in cui Germani dice che le chiese sono luoghi che racchiudono «un segreto antico e importantissimo. […] Sento la gravità del tempo e penso ai lunghi anni in cui mi sono sentito abbandonato e perduto, un orfano di Dio. Anni di disperazione sorda, di un’oscura volontà di annientamento». (In chiesa)
Il «segreto antico» di cui l’autore parla rimanda ad un sapere di cui hanno
parlato i mistici a proposito del mistero della perdita (anéantissement) nella loro esperienza spirituale: «la perdita irreparabile della soggettività in cui il
mistico incorre sulla via dell’unione a Dio». (Mino
Bergamo, La scienza dei santi. Studi sul
misticismo del Seicento).
Per Germani la scrittura è testimoniare il divario tra vita vissuta e il bisogno di spiritualità: scrivere è un atto di umiltà e di rinuncia: «è soprattutto solitudine, vizio irrinunciabile o malattia, sguardo dentro l’abisso dell’esistenza e talvolta preghiera». (I Santi Evangeli)
E come diceva Adriana Zarri: «la preghiera si
nutre di solitudine, non di isolamento; e il silenzio contemplativo è denso di
parole e di presenze». (Adriana Zarri, Un
eremo non è un guscio di lumaca)
Dicevo che il titolo del libro contiene due parole uguali solo in apparenza, secondo un distinguo sapientemente indicato dall’autore nel corso dei vari capitoli. In particolare, parlando del Nuovo Testamento, egli parla di «bellezza e mistero» per connotare le parole del Vangelo.
In uno scritto dal titolo Cristo e il Tempo Anna Maria Ortese parla dei Vangeli sottolineando la potenza innovatrice e rivoluzionaria di Gesù. Nel fare questo pone in risalto i grandi temi: il potere del male nel mondo, la morte terrena, il valore del tempo, ma sottolinea come la possibilità data all’uomo di venire fuori dalla perversione sia riconoscere Dio come unico e solo «vero signore della vita». Soltanto con l’obbedienza a Dio l’uomo si riscatterà dalla schiavitù del Diavolo, attuale «Signore del mondo». Sono cioè i temi che ritroviamo in Tra Tempo e Tempo:
«Ho
sempre avuto la sensazione che, nel momento in cui compiamo le nostre azioni
liberamente, siamo invasi o posseduti da qualcosa più grande di noi. Il bene e
il male non sono soltanto azioni, né concetti astratti: sono due forze e due
principi in opposizione tra loro, verso cui il nostro essere è costantemente
aperto, che comportano conseguenze ben precise. Mentre il bene è sempre
luminoso, il male lascia sgomenti». (Il male nel mondo)
Riporto un ampio stralcio tratto dal libro di Ortese, nel quale si evidenzia la differenza sostanziale tra i due diversi significati dati alla parola tempo: «…il Vangelo resta chiuso ai potenti, ai felici, ai sani, ai giovani, agli intellettuali, agli amanti di superficie, per tutto il tempo che durano i loro beni, averi, onori e poteri: spesso l’intera vita. E subito, sin dall’inizio, è aperto a coloro che non ebbero nulla, o seppero presto che il loro tesoro era fondato sul nulla, né dato – se era dato – al loro Io invisibile e sicuro; ma solo era dato a tutte le possibili servitù e compromissioni dell’Io spirituale, alle firme che l’Io appose a quanti contratti ne chiedevano la lenta destituzione o degradazione. Per costoro […] Cristo venne, a dare, appunto, la resurrezione e la vita. Non venne per altri. // Si spiegano così le sue parole: «Non sono venuto per tutti». E ancora: «Non sono venuto a portare la pace, ma la guerra». La sua guerra è il rifiuto del tempo e delle leggi poste dal tempo, il distacco dalle sue fioriture già ipotecate dal perire, è la condanna già fissata per chi si nutre di solo tempo. Questo tempo è morto. Di solo tempo non ci si può nutrire, senza mangiare morte. Lo sanno i seguaci, i devoti, gli adulatori del tempo, ora moltitudini senza fine, che si saziano di un tempo sempre più breve, e tutto, già chiaramente, riverberato di morte. L’Eterno, il Dio, il Creatore con le sue inenarrabili grandezze, il RESPIRO (Dio è lo stesso RESPIRO, il MOTO e la LIBERTÀ di tutto), è tenuto fuori, o destituito costantemente, dai guardiani del Tempo. Il quale si fa anche Tempio, cattedrale dell’infimo, il livido, il gelido, il repellente, l’inerte – che deve essere il nutrimento dell’uomo, se si vuole che l’uomo sia morto. Ed eccolo, è come morto. […]» (sta in Anna Maria Ortese, Da Moby Dick all’Orsa Bianca: Scritti sulla letteratura e sull’arte).
Per Mauro Germani mettere l’insegnamento di Gesù al centro del quotidiano vuol dire imprimere al tempo presente un carattere distintivo di “forza” e di “responsabilità” verso gli altri, argomenti da sempre oggetto di riflessione dei filosofi e dei mistici fino a Kierkegaard, Weil, Levinas. Ed è questa l’unica maniera che abbiamo noi, sorretti dalle sole forze in nostro possesso, per sconfiggere il male che ci circonda; è l’Eccomi! di Levinas che abolisce l’indifferenza di cui siamo così disgraziatamente ricchi, a tal punto da permettere lo strazio della ineguaglianza e della violenza più brutale, nonché della «perversione» che coabita nelle strade delle nostre città. E nel mondo.
Concludo con gli splendidi versi di un poeta come Umberto Saba, per la sintonia che vi trovo, nella bellezza e coraggio, con le parole di Germani, e per il messaggio di speranza che può venire solo da chi preserva la propria purezza d’animo:
QUASI UNA MORALITÀ
Più non mi temono i passeri. Vanno
vengono
alla finestra indifferenti
al
mio tranquillo muovermi nella stanza.
Trovano
il miglio e la scagliuola: dono
spanto
da un prodigo affine, accresciuto
dalla
mia mano. Ed io li guardo muto
(per
tema non si pentano) e mi pare
(vero
o illusione non importa) leggere
nei
neri occhietti, se coi miei s’incontrano,
quasi
una gratitudine.
Fanciullo,
od
altro sii tu che mi ascolti, in pena
viva
o in letizia (e più se in pena) apprendi
da
chi ha molto sofferto, molto errato,
che
ancora esiste la Grazia, e che il mondo
-
TUTTO IL MONDO – ha bisogno d’amicizia.
(Umberto
SABA)
Giuseppina Di Leo