In quest’ultimo libro di Letizia Dimartino il tempo è sempre perduto e sempre ritrovato, è un movimento circolare il cui diametro si concentra e si espande continuamente. È una sorta di eterno ritorno dello sguardo e della scrittura, tra passato e presente, dove ciò che è stato riprende a vibrare sulla pagina, come fosse la prima o l’ultima volta, vacillante eppure ancora nitidissimo, preciso, prima della sparizione. Ogni esperienza vissuta ha l’intensità, la meraviglia, l’incanto di ciò che è stato unico, ma che pure a frammenti riappare, tocca l’anima, chiama per configurare un destino. Lontano e vicino si cercano, s’incontrano, s’interrogano.
Chi scrive sa di questa dimensione ambigua, di questo essere fantasma tra i fantasmi. Eppure le città evocate (più che rievocate) da Letizia Dimartino giungono a noi quanto mai concrete. Milano, Roma, Messina, Catania, Napoli, Bologna palpitano con la loro vita dentro la vita: non sono mai sole, sono popolate dall’esistenza, dagli appuntamenti degli anni, dai sogni, dalle paure, dalle speranze, dai dispiaceri e dalle malattie, in un groviglio inestricabile di verità e di mistero. Ogni città ha una propria anima con cui l’autrice si relaziona. Uomini, donne, strade, case, nonché voci, rumori, stanze, cibi, abitudini, sono certo quel che sono ma, al tempo stesso, diventano altro: domande inespresse, desideri segreti, amori implorati, illusioni, presagi, timori o aspettative che continuano a parlare e che ci interpellano. Perché è specialmente ciò che di solito non ha voce a prendere vita.
Letizia Dimartino ha la capacità straordinaria di dare anima alle cose, di presentarci dettagli e circostanze apparentemente trascurabili che assumono però un’importanza eccezionale. Sono sequenze brevi o semplici fotogrammi che – come in una pellicola scomposta eppure unitaria – a volte ritornano tra una dissolvenza e l’altra, con minime variazioni, intessendo la scrittura di soprassalti emotivi e di memorie nette nella loro esclusività, nel loro speciale esserci. Grazie ad una prosa cadenzata e ricca di valenze poetiche, spesso contraddistinta da uno stile paratattico e/o nominale, che ben si confà alla successione dei ricordi, l’autrice ci fa sentire, come in un particolare processo medianico, ciò che in passato ella stessa ha visto e sentito e oggi ancora vede e sente: e sono volti, vie, piazze, treni, stazioni, negozi, paesaggi, sapori, odori, passioni, che conferiscono al libro un valore di preziosità, al pari di uno scrigno da custodire.
Ecco allora, tra i luoghi narrati e vissuti, delinearsi la Milano del passato, conosciuta soprattutto nei soggiorni settembrini, la Milano di un tempo, sempre amata e fantasticata, nonostante a volte mettesse paura, con la sua vita così diversa e lontana, con la nebbia o i temporali improvvisi, «il cielo basso e denso», «i taxi verde scuro», «le farmacie specchiate, i marmi lucidi», «le cassiere dalle gentilezze eccessive», la Milano dove cercare costantemente quadrifogli che avrebbero cambiato la vita. E poi Roma, la malattia della madre, gli studi medici, gli alberghi, i caffè in via Veneto, la voglia di vivere come una specie di miraggio. E il mare di Messina, la città natale, quel «vento di scirocco sempre, con le carte che si sollevavano lungo le strade diritte e le onde si facevano bianche e pure il cielo», la città che si poteva vedere anche ad occhi chiusi. E Catania con le terapie speciali per la madre, i sogni della giovinezza, le strade dove «un tempo passavano carrozze e dame con cappelli infiocchettati» e «gli aranceti splendevano, e gli sguardi erano di fuoco dietro le persiane e agli angoli delle vie». E Napoli, meta un tempo di viaggi di nozze, il padre che amava cantare le canzoni napoletane e considerava Posillipo e Mergellina i luoghi più belli d’Italia, Napoli con il suo «dialetto incomprensibile», le vie strette, e Amalfi e Capri, conservate con commozione in «cartoline anni Cinquanta con le strade fiorite e il mare a strapiombo». E Bologna col suo freddo estivo, «gli alberghi chiassosi le loro stanze ammuffite i copriletti di cretonne fiorato l’odore del ragù le scale buie», e la Romagna con l’allegria delle donne, i loro nomi strani, i loro «occhi che guardano diritto», senza paura.
L’ultimo capitolo del libro è infine dedicato
al Sud, luogo di luoghi, centro di ogni centro, in cui il passato va sempre
incontro al presente, s’avvicina e si allontana, con le sue figure che appaiono
improvvisamente in un’assenza vibrante, dentro la scrittura e il dolore della
malattia. Ora ci sono «solchi di carne, solchi d’anima», strade non più
attraversate e piazze abbandonate. Ma le città qui narrate, quelle che hanno
acceso i sentimenti dell’autrice («la vita mia è tutta un sentimento») non si
sono spente del tutto. E se è vero che la malattia le ha rese da tempo
irraggiungibili, è altrettanto vero che le loro luci, i loro colori, le loro
particolari atmosfere in qualche modo esistono ancora: sono i doni che Letizia
Dimartino offre a noi lettori con la sua
scrittura.
Mauro Germani