lunedì 27 settembre 2021

Alexander Lernet-Holenia - Lo stendardo


Alexander Lernet-Holenia, Lo stendardo, Adelphi 2014


Ad una lettura superficiale, questo romanzo di Alexander Lernet-Holenia (1897-1976), pubblicato nel 1934, potrebbe sembrare una storia avventurosa e romantica  ambientata in un contesto storico ben preciso, quello della prima guerra mondiale. In realtà il libro è una narrazione che viene scossa da improvvisi lampi metafisici e da un incombente senso di fine e di disfatta. La componente avventurosa si rivela puramente esteriore, perché sottende altro: non solo il disfacimento dell’impero asburgico, ormai prossimo alla rovina, tra le varie etnie di soldati lungo il fronte balcanico, ma anche la vicenda del protagonista, l’alfiere Menis, che si trova a vivere un’esperienza destinata a segnarlo per sempre. Egli scoprirà segretamente le proprie passioni e al tempo stesso il filo nascosto che lega la vita alla morte. In questo romanzo del tramonto, infatti, i morti – con le loro figure, le loro uniformi e le loro voci – irrompono improvvisamente, in brevi ma significativi passaggi, che sono memoria e premonizione insieme: «la folla di coloro che erano venuti pur non potendo più venire, l’esercito invisibile dei caduti e dei dispersi, un esercito glorioso, rutilante di uniformi e sfavillante di decorazioni. […] Perché il vero esercito non è fatto dei vivi, bensì dei morti». 

È interessante notare come ciò che capita al protagonista sia in conflitto con ciò che sta preparando la Storia: la fine di un impero con i suoi ideali e la sua antica gloria. Menis è costretto a partecipare incredulo alla catastrofe imminente. Proprio nel momento in cui tutto precipita e l’esercito è allo sbando, tra ammutinamenti, rivolte e stragi, egli sente ancor di più dentro di sé l’attaccamento alla patria, come una chiamata a cui non può non rispondere. Ed è lo stendardo a rivelargli questa fedeltà e questa obbedienza. All’inizio gli appare come «uno straccio stinto che mandava qualche luccichio di ricami metallici ormai opachi», ma poi ne resta impressionato, quando apprende che avrà più di centocinquant’anni e rappresenta «la gloria insanguinata» di tutti coloro che avevano perduto tutto per difenderlo. Così, guardando la mano di chi lo porta, immagina «di vedere anche tutte le altre mani, calzate di spettrali guanti bianchi alla moschettiera, […] quelle dei morenti che se lo erano lasciato sfuggire e quelle che si erano protese per afferrarlo al volo, tutto un groviglio di mani che avevano tenuto alta una sola cosa: l’onore». 

Nel corso della narrazione la passione per lo stendardo si rivelerà per Menis ancora più forte rispetto a quella per Resa, bellissima donna per la quale non esisterà a compiere audaci imprese. Dopo avere avuto l’onore di diventare egli stesso alfiere  dello stendardo e dopo la sconfitta dell’impero, egli si renderà conto di avere vissuto, più che per la donna amata, per quell’antico e glorioso drappo con l’aquila bicipite. Non solo. Capirà che una guerra, anche se finisce, non finisce mai del tutto per chi l’ha combattuta, e che molte cose che gli erano accadute gli restavano in fondo oscure, tanto da pensare: «E perché mai, in momenti così eccezionali, l’invisibile non potrebbe essersi insinuato davvero, e con maggiore evidenza del solito, dentro il visibile, governandolo, e governando tutti noi che assistevamo alla fine dell’Impero?».

Tutto in questo romanzo avviene in un’atmosfera sospesa, come se fosse eccezionale, come se da un momento all’altro dovesse esserci una rivelazione. L’apparizione dello stendardo, gli incontri tra Menis e Resa, le cavalcate notturne, le battaglie, le fughe, la solitudine dopo la sconfitta, ci appaiono come momenti di un sogno enigmatico, di qualcosa di misterioso che avviene lungo un confine incerto. A ben vedere, anche gli altri personaggi recano in sé aspetti oscuri: basti pensare alla figura profetica di Hackenberg, a quella sfuggente di Charbinsky, o a quella tormentata di Anschütz, per citarne alcuni. Lernet-Holenia ci fa sentire ogni volta – con tocchi sapienti – l’ importanza del mistero in noi e attorno a noi. 

A proposito del vecchio Hackenberg, egli scrive che  aveva avuto «il compito di rendere visibile il nesso tra gli avvenimenti, mentre nell’ambito dell’invisibile il Reale si compiva». Le stesse parole potremmo usarle anche noi per lo scrittore austriaco.

Mauro Germani

 

giovedì 16 settembre 2021

Salvatore Satta - La veranda

Salvatore Satta, La veranda, Ilisso, 2002

La veranda è il primo romanzo di Salvatore Satta (1902-1975), scritto tra il 1927 ed il 1928, ma pubblicato solo nel 1981 da Adelphi, dopo la fortuna critica che venne riservata a Il giorno del giudizio (Adelphi, 1979). 

Da molti considerato l’equivalente italiano della Montagna incantata (1924) di Thomas Mann, il libro (che venne presentato nella sezione inediti al Premio Viareggio, senza incontrare il favore della giuria, nonostante l’apprezzamento di Marino Moretti, che si prodigò inutilmente per premiarlo) è ambientato in un sanatorio isolato tra le montagne alpine, dove si trova l’io narrante, un giovane avvocato, improvvisamente colpito dalla tisi. È in questo universo chiuso, dominato dall’incubo della malattia, in un’atmosfera sospesa tra speranza e attesa della fine, tra ricerca inutile dell’oblio ed angoscia insopprimibile, che Satta consegna al lettore personaggi-emblema di una separazione: quella dal tempo e dal mondo dei sani, circoscritta in un luogo allontanato, nel quale ogni sentimento diviene più acuto, ogni pensiero contemporaneamente più fragile e più potente, in una strana mescolanza di realtà ed allucinazione. Se la prima parte del romanzo è più corale, in quanto presenta in brevi capitoli le voci dei malati che si alternano nella veranda durante le ore di sdraio, come fossero di fantasmi che assediano il protagonista con le loro ossessioni, la seconda parte risulta più intima e rivela la condizione esistenziale del protagonista. È infatti proprio qui che egli, nella sua solitudine, cerca di comprendere meglio sé stesso, confortato dalla presenza di suor Paola, angelo di purezza in quella comunità dolente e talvolta degradata (uno dei ricoverati arriverà a suicidarsi, sopraffatto dalla solitudine e dalla cattiveria gratuita dei compagni). Così, a poco a poco, in lui si fa risentire con forza il richiamo della vita, rappresentato dal sentimento d’amore platonico che prova verso «la bionda signora del n. 12», a cui affida il suo sogno di riscatto, mediante sguardi, attese, speranze, in una dimensione spirituale che sa di assoluto e sembra trascendere la realtà contingente: «Il mio cuore batte su queste tranquille rovine. Odo dal profondo il palpito ignoto, e su per le vene, le fibre, un fluire incessante, come di linfa da lontane radici. Sono la pianta immortale del mio morto giardino». In questa situazione, al tempo stesso rarefatta e vitale, il protagonista pensa al mondo da cui è separato in modo nuovo, con una strana dolcezza, e può accostarsi con l’immaginazione ai lumi che si accendono «nelle case degli uomini, sulle mense raccolte».

Piuttosto significativo si rivela l’incontro con Melanzana, personaggio che vive da anni nel sanatorio come un sopravvissuto dimenticato dal destino ed attratto irrimediabilmente dal nulla e dalla fine: «Tutto ciò che ha sapore di morte va acquistando un’attrazione sempre più invincibile nel mio cuore. Quando so che qualcuno sta per andarsene, io mi fermo lì accanto delle notti, fino a che posso non chiudere gli occhi». Non a caso, contro di lui, ad un certo punto, si scaglia il protagonista, forse intuendo inconsciamente che quell’uomo rappresenta in fondo la sua anima oscura: «Come egli non capiva che nel mondo tutto soggiace a una legge, ignota quanto si vuole, misteriosa quanto si vuole, ma indubitabile, la legge per la quale nessun essere è stato ed è mai vanamente creato, per la quale ciascuno, consapevole o inconsapevole, serve ad un fine, e rientra per questo nell’ordine universo delle cose?». E quest’anima oscura fu certamente anche di Salvatore Satta, se pensiamo al suo pessimismo nei confronti degli uomini e della storia («L’umanità è il demonio che Dio non riesce a distruggere», ebbe modo di scrivere), unito però ad una religiosità che Remo Bodei ha definito «severa ed arcaica, spesso più vicina a quella dell’Antico Testamento che non a quella del Nuovo», e dominata dall’attesa del giudizio finale, perché «forse la vera e sola storia è il giorno del giudizio».

Il rapporto misterioso tra la vita e la morte è al centro di tutto il romanzo e spesso viene vissuto in maniera contraddittoria. È interessante notare come la vita assuma connotazioni diverse proprio in funzione della morte. Quando la signora del n. 12, dopo un pneumotorace, viene considerata prossima alla fine, il protagonista dapprima si dispera, poi non vuole più che ella non muoia, perché «la morte è pace, liberazione, infinito». Il  protagonista sente che la propria vita potrà avere senso e giustificazione grazie alla lontananza di lei, al suo riflesso sulla terra. L’imprevista sopravvivenza della donna, insieme all’incontro che ci sarà per la prima volta tra i due, rivelerà allora nelle parole pronunciate da lei l’assurdità dei sogni passati. Così, guarito ormai dalla tisi, il protagonista dovrà affrontare una nuova realtà dopo il congedo dal sanatorio: ad attenderlo, dopo due anni, la città di Milano, sulle cui case «s’è distesa una patina bigia, un misto di polvere, di fumo, di umido». I suoi nervi sembrano disabituati a reggere il contatto con il mondo e con gli uomini, tanto che si chiede se non ci sia più qualcosa nella vita che vibri davvero con la sua anima. Che ne sarà di lui, dopo l’incontro casuale con un amico?

Salvatore Satta non dà indicazioni, ma consegna al lettore lo strano e malinconico stupore del protagonista, che cammina solitario nella notte sotto la pioggia: «Sono solo, sono sveglio, sono vivo». E  un’automobile  che passa con furia lo inzacchera tutto di fango.

Mauro Germani

mercoledì 1 settembre 2021

Concetta D'Angeli - Le rovinose

 

Concetta D’Angeli, Le rovinose, Il ramo e la foglia, 2021

In quest’ultimo romanzo di Concetta D’Angeli – ambientato in Italia tra il 1976 ed il 1988, cioè nel periodo che comprende in parte i cosiddetti anni di piombo – la violenza della storia e quella segreta e privata appaiono l’una lo specchio dell’altra. Ed è in questa rifrazione, spesso enigmatica e dolorosa, che trovano espressione le vicende dei personaggi principali, sempre in bilico tra i loro sogni e la realtà, tra i loro desideri più o meno consapevoli ed i condizionamenti di un tempo instabile e contraddittorio, segnato da una profonda volontà di cambiamento per una società migliore e più giusta, ma anche da pericolose derive estremistiche e violente.

Al fondo del libro si può percepire un senso tragico che c’interroga, qualcosa che è più di un disagio collettivo, qualcosa che a poco a poco sconfina nella follia: una follia che forse è un po’ di tutti. Così le figure di Silvana, Clara e Lorenzo, pur diverse tra loro, appaiono legate alle contraddizioni del periodo storico a cui appartengono. La prima insegue tenacemente, come una forma di riscatto, un successo professionale che si rivelerà irto di difficoltà in una società dominata dal maschilismo. Clara, dotata di una bellezza prorompente – alla quale non sarà insensibile Silvana, che scoprirà così la propria omosessualità – è una creatura fragile e indifesa, che incarna illusione e dolore, ingenuità e disperazione, costantemente in fuga da se stessa e dilaniata da pulsioni autodistruttive. Lorenzo, invece, è tormentato dalla ricerca di una forma d’assoluto impossibile da raggiungere: prima sarà tentato dal rifiuto della propria classe sociale d’appartenenza, l’alta borghesia, e dalla lotta armata, poi indirizzerà il proprio delirio di onnipotenza nella costruzione dell’Opera, che prevede la totale dipendenza fisica e psicologica di Clara.

Anime inquiete di un’epoca inquieta, questi personaggi acquisiscono sempre più spessore con l’avanzare della lettura, fino a delinearsi nettamente come emblemi esistenziali di un periodo tanto travagliato e  complesso della nostra storia. Soprattutto il personaggio di Clara vive nella pagina così com’è, cioè s’impone a noi lettori senza alcun artificio o retorica, con l’evidenza del suo destino e della sua misteriosa rovina, recando in sé l’impronta incancellabile dei personaggi veri che non si possono dimenticare: si veda, ad esempio, la terza parte del romanzo, che riporta brani del diario di Clara, in un crescendo drammatico fra detto e non detto. Ma anche Silvana e Lorenzo non hanno nulla di falso o di costruito. Essi ci appaiono nella loro tragica verità, che si configura come una sconfitta generazionale. Silvana è segnata da ricordi ingombranti e da un’insoddisfazione senza rimedio, la quale è anch’essa rovinosa, in qualche modo speculare a quella di Clara. Concetta D’Angeli ce la consegna efficacemente in una doppia dimensione narrativa, che percorre ed innerva quasi tutto il romanzo, alternando il racconto dalla terza persona alla prima, cioè passando dalla narrazione esterna a quella del monologo interiore. Lorenzo, invece, nella sua drammaticità appare privo di scampo, come posseduto da forze incontrollabili, prigioniero di se stesso, dei suoi sentimenti confusi e delle sue insanabili contraddizioni: una figura indubbiamente di forte impatto, in cui la debolezza che nasconde si maschera spesso di una folle ferocia. Personaggi destinati ad una deriva che ha travolto parecchie persone alla ricerca di un senso che non hanno trovato, legittime aspirazioni deviate o troncate troppo spesso dalla violenza, in un’Italia gremita di gravissimi crimini politici e mafiosi, come testimonia l’accurata (ed agghiacciante) cronologia posta in appendice al volume.

Ciò che emerge a lettura ultimata del romanzo – che risulta sempre scorrevole e sorretto da un sapiente impianto narrativo, a tratti quasi cinematografico – è una domanda che sembra ineludibile: come riflettere oggi, a distanza di anni, sul senso di sconfitta incarnato dai personaggi ? E ancora: che cosa ci dicono le loro esistenze? Ciascun lettore potrà tentare di rispondere, ma è più probabile – com’è forse giusto – che le eventuali risposte non siano mai del tutto esaustive e che addirittura da esse nascano nuove inquietanti domande.

Mauro  Germani