giovedì 28 gennaio 2021

"Il sorriso di Drogo" - Per ricordare Dino Buzzati (16 ottobre 1906 - 28 gennaio 1972)

Mi sono già occupato, in passato, del capolavoro di Dino Buzzati (16 ottobre 1906 – 28 gennaio 1972) Il deserto dei Tartari – uno dei più grandi romanzi del Novecento italiano, pubblicato nel 1940 – nel volume da me curato L’attesa e l’ignoto. L’opera multiforme di Dino Buzzati (L’arcolaio, 2012). Ora, però, vorrei soffermarmi a riflettere soprattutto sul finale del libro, quando Giovanni Drogo, il protagonista, ormai «consunto dalla malattia e dagli anni», attende la morte, solo, in una piccola locanda, lontano dalla Fortezza in cui aveva sognato per lungo tempo la gloria.

È l’ultimo atto per il maggiore Drogo, l’ultimo momento a lui concesso dopo un’intera esistenza trascorsa nell’attesa dei Tartari, i mitici nemici provenienti dal deserto del nord – quel deserto spiato giorno e notte, con trepidazione e speranza, quel territorio di confine vuoto e indefinito, che sembra sospeso tra visibile e invisibile, perché in esso lo sguardo si confonde sempre, si perde alla ricerca incessante di un segno, di un barlume o di un’ombra, di un piccolo movimento all’orizzonte. A causa della malattia, Drogo è stato costretto a partire, a lasciare la Fortezza proprio quando i Tartari sembrano finalmente arrivare. L’evento atteso e sognato da una vita – quello che ha dominato ogni pensiero di Drogo, in quanto l’unico capace di attribuire un senso al trascorrere degli anni – si manifesta proprio nel momento del congedo, allorché è ormai troppo tardi. E nel XXX capitolo del romanzo, quello conclusivo, il commiato diviene davvero speciale, è struggente, non è un semplice andarsene, è qualcosa di più, qualcosa che richiede un particolare moto dell’anima, un coraggio ulteriore. La sera è stupenda, dalla finestra della camera entra aria profumata, e Drogo – confinato in quella sperduta locanda, ormai solo al mondo – pensa alla «felicità per gli uomini anche di media fortuna», e immagina la città nel crepuscolo, le giovani coppie nei viali lungo il fiume, gli accordi di pianoforte provenire dalle finestre accese, e poi il suo pensiero va al luogo della sua vita, alle lanterne della Fortezza Bastiani che oscillano al vento, alla «notte insonne e meravigliosa prima della battaglia». Egli si sente escluso per sempre, lontano da tutto e da tutti, e per un attimo il pianto gli sale alla gola. Finalmente capisce che deve fare i conti con la morte. Qualcosa di decisivo ora incombe su di lui. La vera battaglia sta per cominciare, non si svolgerà nel deserto attorno alla Fortezza, ma lì, in quella camera spoglia avvolta dalle ombre, dalla quale egli comprende che «non si sarebbe più mosso». Ecco allora la consapevolezza che per lui sta per giungere «la sua grande occasione, la definitiva battaglia che poteva pagare l’intera vita». È l’ultima carta che resta da giocare a Drogo, l’ultima occasione possibile per mostrare la propria dignità, anche se il combattimento finale gli si rivela più duro di quello che un tempo aveva sperato, tanto che «vecchi uomini di guerra preferirebbero non provare» quella sua solitudine così estrema. Drogo esorta sé stesso ad andare incontro alla morte da soldato, e non importa se nessuno lo chiamerà eroe o ne canterà le lodi, anzi, proprio per questo egli dovrà dimostrare di varcare «con piede fermo il limite dell’ombra, diritto come a una parata» e perfino sorridere, se ci riuscirà. Così, la morte improvvisamente perde «l’agghiacciante volto, mutandosi in cosa semplice e conforme a natura», e il tempo passato appare a Drogo di poca importanza: «quell’affannarsi sugli spalti della Fortezza, quel perlustrare la desolata pianura del nord, le sue pene per la carriera, quegli anni lunghi di attesa», tutto diventa per lui quasi insignificante davanti alla «nera soglia» che lo attende.

Che cosa sta accadendo a Drogo? Quale nuova e misteriosa consapevolezza si sta impadronendo della sua anima? In brevi righe, Buzzati descrive la situazione. Sono pochi particolari essenziali, ma molto intensi: l’oscurità nella camera si fa più densa ed è difficile distinguere persino il biancore del letto; tra breve forse dovrebbe levarsi la luna e Drogo non sa se riuscirà a vederla; la porta «palpita con uno scricchiolio leggero» forse causato dal vento, un semplice risucchio d’aria come può capitare in certe notti di primavera, oppure è «lei che è entrata, con passo silenzioso».  Ed ecco la conclusione: «Facendosi forza, Giovanni raddrizza un po’ il busto, si assesta con una mano il colletto dell’uniforme, dà ancora uno sguardo fuori della finestra, una brevissima occhiata, per l’ultima sua porzione di stelle. Poi, nel buio, benché nessuno lo veda, sorride».

È bene sottolineare che Drogo non muore maledicendo, con la rabbia in corpo. Non impreca contro il destino o altro. E nemmeno il suo atteggiamento pare essere di spenta rassegnazione. In lui non c’è rancore, né accettazione passiva. A noi lettori colpisce, alla fine, il suo sorriso. Come interpretarlo? Che cosa ci rivela (o nasconde)? Quale muto segreto si porta con sé? È forse l’atto estremo di una sfida solitaria e impossibile, inevitabilmente perduta, di fronte al nulla, oppure qualcosa di più, l’apertura a un mistero che chiama, l’offerta della propria esistenza ad una verità superiore?

Nel mio saggio Il segreto e la morte nei romanzi di Dino Buzzati, pubblicato nel volume citato all’inizio di questo intervento, affermo che «Giovanni Drogo s’abbandona ad una sorta di nulla glorioso». È evidente come questa espressione sia un ossimoro, che – a ben riflettere – contiene in sé le domande sopraesposte, alle quali non intende dare una risposta precisa, ma mantenere vive tutte le opzioni ad esse relative: il nulla (la morte) come annichilamento totale, e il nulla (la morte) come passaggio verso un altrove che libera e salva. Perché Drogo sorride? Vuole affermare semplicemente la nobiltà della sconfitta, oppure comprende di andare incontro a una realtà più alta, indicibile? Buzzati, giustamente, non aggiunge nient’altro. E credo proprio che l’ambiguità di questo finale conferisca al romanzo un valore aggiunto. Tutta la storia sarebbe stata più povera senza l’enigmatico sorriso di Giovanni Drogo.

Mauro Germani

A proposito di Dino Buzzati, su questo blog: La lingua di Dino Buzzati 


lunedì 18 gennaio 2021

"Io sono Colui che sono" - Alcune riflessioni


«Io sono Colui che sono» (Esodo 3, 14): questa affermazione di Dio sancisce l’unità tra Dio e l’Essere. Ne consegue che Dio e l’Essere sono una cosa sola, in quanto non c’è l’uno senza l’altro. Dio è colui che è: a Dio appartiene l’Essere e l’Essere appartiene a Dio. Solo Dio ha il privilegio dell’Essere nella sua pienezza.

Ma se solo Dio è Colui che è, l’uomo non può esserlo. Dio è, l’uomo, invece, esiste. Non bisogna confondere il piano ontologico con quello proprio dell’ex-sistere. L’esistenza è contrassegnata dal venire-al-mondo, cioè dalla nascita, fino al suo svolgimento temporale, che culmina nella morte. Dal momento in cui nasce, l’uomo entra nel tempo, che ne segna appunto l’esistenza, il proprio percorso terreno. L’uomo è dunque nel tempo, è fatto di tempo – potremmo dire. E il tempo ha sempre un limite, determinato da una durata, cioè ha un inizio e una fine: è nel durante, infatti, che ciascun uomo gioca la propria partita, che compie le proprie scelte, che coltiva le proprie idee e i propri sentimenti. È in questo arco temporale che costruisce – bene o male – la propria storia individuale, che non è isolata, ma strettamente legata a quella degli altri esseri umani. La dimensione dell’esistenza è pertanto limitata. E all’interno di questo limite, l’uomo sperimenta, a sua volta, i propri limiti, giacché si rende conto  di poter gestire la propria esistenza solo parzialmente. Infatti, i limiti temporali entro cui esiste, non dipendono da lui (a meno che decida, con un atto volontario, di porre fine alla propria esistenza).

Se questo vale per l’esistenza, non è così per l’Essere. Quest’ultimo – che è di Dio – non si configura nel tempo, ma oltre il tempo: la sua dimensione è l’eterno. Dio è e l’Essere è con Dio. A ben riflettere, si potrebbe pertanto aggiungere che l’unica realtà è quella di Dio, non dell’uomo, perché Dio è nel sempre, non nel durante: è stato, è, e sarà.

Queste considerazioni, però, potrebbero portare a una incolmabile lontananza tra Dio e l’uomo, se si escludesse la figura di Cristo. Con Cristo la prospettiva cambia, e con essa anche il destino dell’uomo. Cristo, infatti, è il Verbo fatto carne, il Figlio in cui Dio si è compiaciuto, Colui che è venuto nel mondo e si è addossato tutto il peso dell’esistenza fino alle estreme conseguenze. Tutto è estremo in Cristo: nasce in estrema povertà, come l’ultimo degli ultimi, predica un amore estremo per tutti, e muore di una morte atroce ed estrema, solo e abbandonato. Cristo, come ogni mortale, compie il proprio percorso terreno fino alla fine, fa suo il tempo del dolore, fa sua la notte del mondo, per riconciliare il tempo con l’eterno, l’esistenza con l’Essere. E questa riconciliazione non può che avvenire attraverso la morte. Assumendo la sofferenza più estrema e la morte, Egli – nel suo atto d’amore per l’umanità – le riscatta. La sconfitta della morte, che avviene tramite la resurrezione, non può però prescindere dalla morte stessa. Quest’ultima è inevitabile, e si configura come passaggio necessario verso una perduta unità, quell’unità originaria venuta meno con il peccato, il quale è, nella sua essenza, separazione, allontanamento dell’uomo da Dio. La morte e il male sono tutt’uno col peccato, sono frattura, divisione, distanza, abisso, e fanno parte di noi, della nostra esistenza. Ma il nulla della morte si rivela anche indispensabile per accedere all’eterno: occorre finire qui per cominciare altrove. Un nulla, quindi, non definitivo, ma la porta che apre all’Altro, che da sempre ci attende. E in questo senso l’essere-per-la-morte di Heidegger potrebbe trovare il suo rovesciamento in la-morte-per-essere, tenendo conto delle considerazioni precedenti, che presuppongono una prospettiva di fede cristiana.

Postilla. Naturalmente queste riflessioni sono opinabili, come lo è ogni pensiero. Ciò che è diversa è invece la fede, la quale non è un’idea, non è un esercizio intellettuale, né un concetto filosofico. Essa viene prima della ragione, non si pensa, ma si sente. Come ha scritto Cioran in merito agli studi teologici, «tutti quei trattati non valgono un’esclamazione di Santa Teresa!».

Mauro Germani