venerdì 22 ottobre 2021

Cristiano Spila - Simulacri


    Cristiano Spila, Simulacri, Calibano Editore, 2020

I  quattro racconti che compongono questa raccolta di Cristiano Spila nascono dal confronto tra i simulacri e l’esistenza, tra le forme immutabili e cristallizzate del tempo ed il flusso enigmatico del divenire. In atmosfere sospese ed insieme cangianti, scosse dal pensiero che diventa visione e viceversa, l’autore coglie negli eventi narrati gli agguati imprevedibili del destino, come da una soglia oscura, quasi a spiarli, a sorprenderli nel loro manifestarsi. Tutto allora sembra oscillare tra l’essere e l’apparire: l’esistenza si sdoppia nel suo riflesso e quest’ultimo, a sua volta, la segna e la chiama.

Il primo racconto scaturisce da un sogno premonitore di rovina e di acqua putrescente, che visita Iciarco, discepolo di Talete, il quale sarà poi destinato a scoprire, in una Mileto «stordita e stanca, e umida di greve sonnolenza», la morte inaspettata del maestro. Egli sentirà dentro di sé di essere «condannato senza appello a non sapere più nulla». E davanti a lui ci saranno solo il corpo privo di vita di Talete, col suo «viso tumido e inerte», ed il volto gelido ed impassibile della statua di Afrodite, immobile nella luce, quella statua che già aveva sognato la notte prima grondante d’acqua, senza testa e con le estremità delle braccia monche. Forse – potremmo azzardare – Iciarco, al cospetto dell’imprevedibilità dell’esistenza e della consapevolezza della morte, nonché di quella luminosità altra del simulacro, intuisce improvvisamente ciò che Eraclito avrebbe poi introdotto per la prima volta, rispetto alla speculazione ionica precedente: l’importanza della ricerca interiore, rivelatrice di profondità infinite («Tu non troverai i confini dell’anima, per quanto vada innanzi, tanto profonda è la sua ragione»), e che mostra la paradossale coincidenza tra ciò che è lontano e ciò che è intimo. 

Nel  racconto successivo, Il liuto, Astrolabio – il figlio della colpa di Eloisa e di Abelardo –  anela alla luce, e cerca nel suono del liuto conforto e pace. All’interno dell’abbazia cistercense di Hauterive si dedica alla musica, nella quale, secondo Agostino, «il ritmo e il numero stanno in un’operazione dell’anima, che è il bene modulandi», ma essi sono anche un mezzo per evocare il silenzio. E proprio dal silenzio dell’ultima nota pizzicata nella corda del liuto, egli avverte una segreta presenza, una voce oracolare che gli sussurra:« Io sono quel che tu ignori». È l’inizio di qualcosa di misterioso che lo attende una notte, quando l’eco dei suoni del liuto provoca apparizioni – due molossi bianchi nel buio, che prendono vita dalle statue di un tempietto – e distruzioni nel silenzio: una frana di  capitelli, di colonne, di marmi, di sassi e di ghiaie senza alcun rumore. Prodigi o sortilegi della musica e di un silenzio che per Astrolabio sono rovina, ma forse anche rinascita e appropriazione di una nuova vita. «Io sono ciò che tu hai lasciato», mormora alla fine la voce oracolare.

Nel terzo racconto, intitolato Agonia della neve, il protagonista è Swedenborg, che qui è sempre denominato «l’uomo che si credeva Swedenborg», assecondando l’ignoranza intima – come la definisce Borges in Altre inquisizioni – per la quale nessun uomo sa chi è veramente, teoria che fu proprio di Swedenborg  e di altri autori, come ad esempio Leon Bloy. Il testo narra di una visione notturna che si rivela anche un trapasso, uno sconfinamento nell’oltre, in cui il vecchio Swedenborg insegue nella neve una figura femminile («una dea, o una maga, un’obliquità») di ghiaccio e di nulla,  che lo trattiene in un abbraccio mortale: è «ancora una volta il tragico corpo a corpo con il tempo», fino ad una sospensione che può significare il suo stesso superamento.

Bevi con me il nepente…, al termine della raccolta, descrive un vecchio De Quincey, che ormai prova un’immensa fatica a scrivere, a causa del tremore alle mani. Anche qui un simulacro, la statua del monumento funerario di Caius Iulius Bathyllus, uno dei liberti di Ottaviano Augusto, ha il potere di attrarre l’attenzione e l’immaginazione del personaggio protagonista, ormai assuefatto al laudano, oppiomane senza speranza, colpito inesorabilmente dal trascorrere degli anni, tanto che non smette di fissare la figura del giovane. Egli vede in quel delicato giovinetto di marmo ciò che non è più e che tuttavia non smette di essere, perché in qualche modo lo chiama, invitandolo a bere il nepente, il farmaco miracoloso, da quella coppa che gli offre, come fosse il riflesso immortale di sé, quando era ancora giovane.

In conclusione, si può asserire che i temi del tempo e della morte, presenti in tutti i racconti intensi, rarefatti e notturni di Cristiano Spila (saggista che si è occupato, tra gli altri, di Gadda, D’Arrigo, Vigolo, Bassani, nonché traduttore di Poe, Melville, London) si rifrangono e si contemplano in echi possibili, in sospensioni narrative che lasciano spazio al mistero, «mescolando tono fantastico e rievocazione letteraria», come si legge nella nota in quarta di copertina.

Mauro Germani

lunedì 18 ottobre 2021

Citazioni dalle opere di Georges Bernanos

 

C’è una vertigine nella tristezza, una sporca vertigine. […] Fortunati quelli che riescono ad amare la tristezza senza offendere Dio, senza peccare contro la speranza. (La gioia)

Come mai non ci si accorge, più spesso, che la maschera del piacere, spoglia di ogni ipocrisia, è proprio quella dell’angoscia? (Diario di un curato di campagna)

Io vedo ogni delitto creare attorno a sé come una specie di turbine che attira invincibilmente verso il suo centro colpevoli e innocenti e del quale nessuno potrebbe predire la forza e la durata. Sì… un gesto insignificante scatena una potenza misteriosa che trascina nello stesso gorgo il criminale e i suoi giudici, fino a quando non ha esaurito la sua violenza, secondo leggi che non ci sono conosciute. (Un delitto)

La noia: una disperazione abortita, una forma turpe della disperazione, che è come la fermentazione di un cristianesimo decomposto. (Diario di un curato di campagna)

Ho visto morire un santo, io che vi parlo, e ciò non avviene per nulla come lo si immagina, non assomiglia a quanto si legge sui libri: è uno spettacolo che esige fermezza, perché si sente l’armatura dell’anima scricchiolare. Ho capito allora cos’è il peccato… Ci siamo tutti dentro nel peccato, gli uni per goderne, altri per soffrirne, ma, a conti fatti, è lo stesso pane che spezziamo tutti sul margine della fontana, è lo stesso disgusto che inghiottiamo trattenendo la saliva. (La gioia)

I poveri hanno il segreto della speranza. Mangiano ogni giorno nella mano di Dio. […] Solo i poveri sperano per tutti noi, come solo i santi amano ed espiano per tutti noi. (Un uomo solo)

Il Signore ha vissuto e vive sempre fra noi come un povero, e viene sempre il momento in cui egli decide di farci poveri come lui, in modo da essere accolti e onorati dai poveri, alla maniera dei poveri, per ritrovare così quel che un tempo egli ha tante volte conosciuto sulle strade di Galilea: l’ospitalità dei miserabili, la loro accoglienza. Egli ha voluto vivere fra i poveri. (Dialoghi delle Carmelitane)

Il peccato contro la speranza, il più mortale di tutti, è forse il meglio accolto, il più accarezzato. Ci vuole molto tempo per riconoscerlo, e la tristezza che lo precede, lo annuncia, è così dolce… È il più ricco degli elisir del demonio, la sua ambrosia. (Diario di un curato di campagna)

La peggiore disgrazia che possa capitare a un uomo è essere soddisfatto di sé. (Corrispondance)

Una volta usciti dall’infanzia, occorre soffrire molto a lungo per rientrarvi, così come proprio in fondo alla notte si ritrova un’altra aurora. (Dialoghi delle Carmelitane)

La preghiera: una strana sospensione del dolore e della gioia, o il lento dileguarsi dell’uno e dell’altra in un sentimento unico, indefinibile, in cui sembrano fondersi la tenerezza, la fiducia, una ricerca inquieta e tuttavia soave e ancora qualcosa che somiglia a una pietà sublime. (La gioia)

Certamente, l’uomo è dappertutto il nemico di se stesso, il proprio segreto e subdolo nemico. Il male gettato in qualsiasi luogo fruttifica quasi sicuramente; mentre al seme del bene, per non essere soffocato, occorre una sorte straordinaria, una prodigiosa fortuna. (Diario di un curato di campagna)

C’è sempre un’avventura che correte, vostro malgrado, che forse correrete domani. Il più sedentario degli uomini la correrà, ed è un’avventura più grande e meravigliosa di quelle che avete letto nei libri… Ma sì, la morte, la vostra morte, proprio la vostra. Un letto d’agonia non è che un letto d’agonia finché il moribondo conserva l’ultimo  contatto con i vivi: voglio dire quel cuore infaticabile che resisterà fino alla fine. Ma non appena il povero petto estenuato si è riempito di un solenne silenzio, il letto più ordinario mi appare come una miracolosa piccola imbarcazione che all’improvviso scivola via e se ne va… Così comincia la grande avventura. (Satan et nous, in Essais)

La paura della morte è un sentimento universale che riveste molte forme, di cui alcune sono sicuramente intraducibili dal linguaggio umano. Solamente un uomo le ha conosciute tutte: è il Cristo nella sua agonia. (I grandi cimiteri sotto la luna)

Se l’affermazione non fosse audacissima, direi che i poemi più belli non valgono, per un essere veramente commosso, il balbettio d’una maldestra confessione. (Diario di un curato di campagna)

Non capire nulla! Essere informato di tutto e non capire nulla: è questa la sorte degli imbecilli, preda della furia di bramosie rivali, scatenate dalla stampa o dalla radio. Tutta quanta l’esistenza di uno di questi sventurati probabilmente non basterebbe ad assimilare neppure la metà delle notizie contraddittorie che gli vengono proposte in una settimana. (La France contre les robots)

La mediocrità dei benpensanti… La civiltà moderna scommette sulla parte bassa dell’uomo. Noi scommettiamo sull’altra: essere eroici o non essere più. (Le chemin de la croix-des-âmes)

Che importano a Dio il prestigio, la dignità, la scienza, se tutto questo non è che un sudario di seta su un cadavere decomposto? (Diario di un curato di campagna)

Molti mi applaudono, ma interiormente sono seccati di ascoltare da un cattolico certe verità che avrebbero volentieri sfruttato contro la nostra fede. (Un uomo solo)

Non ho mai confuso il partito clericale con la Chiesa di Dio. La Chiesa ha la custodia del povero; il partito clericale è sempre stato nient’altro che il subdolo intermediario del cattivo ricco, l’agente più o meno consapevole di tutte le simonie. (Scandale de la vérité)

Si diceva un tempo – si dice ancora, ahimè! – che la verità si trova nel giusto mezzo. Tanto vale proclamare apertamente che il suo posto naturale è tra due menzogne, come il prosciutto tra le fette di pane del sandwich. Il miglior modo di raggiungere la verità è andare fino in fondo al vero, quali che siano i rischi. (Le chemin de la croix-des-âmes)

Il peccato entra raramente in noi con la forza, ma vi entra con l’inganno. Si insinua come l’aria. Non ha né forma né colore né sapore che gli siano propri, ma li assume tutti. Ci usa dal di dentro. (Sotto il sole di Satana)

Nessuno è gettato nell’abisso senza aver respinto, senza aver ritirato il proprio cuore dalla mano terribile e dolce, senza averne sentito la stretta. Non è abbandonato nessuno che prima non abbia commesso il sacrilegio essenziale: rinnegato Dio non nella sua giustizia, ma nel suo amore. (L’impostura)

Quelli là non hanno saputo riconoscere il più prezioso tra i doni dello Spirito Santo. Non capiscono mai nulla quelli là. Il nostro vero nome ce lo dà Iddio. Quello che portiamo lo abbiamo in prestito. (Sotto il sole di Satana)

La Vergine era l’innocenza. Ella non ha del peccato alcuna esperienza, quell’esperienza che non è mancata ai più grandi santi. Lo sguardo della Vergine è il solo sguardo realmente infantile, il solo vero sguardo da bambino che si sia mai levato sulla nostra vergogna e sulla nostra infelicità. Per pregarla bene, occorre sentire su di sé questo sguardo, che non è per nulla quello dell’indulgenza ma della tenera compassione, della sorpresa dolorosa, di non so quale sentimento inconcepibile, inesprimibile, che la fa più giovane del peccato, più giovane della razza da cui è nata e, per quanto madre per la grazia, madre delle grazie, la più giovane del genere umano. (Diario di un curato di campagna)

I testi qui proposti sono tratti da: G. Bernanos, La mia rivolta, Gribaudi, 1970; G. Bernanos, Pensieri parole profezie, Paoline, 1996.


domenica 3 ottobre 2021

Giovanni Testori - Interrogatorio a Maria

Giovanni Testori, Interrogatorio a Maria, Biblioteca Universale Rizzoli, 1979

Che emozione rileggere, dopo tanti anni, Interrogatorio a Maria di Giovanni Testori! In questo testo, pubblicato nel 1979, si fa nostra una voce che è domanda e poi preghiera, una voce che trema, che è antica e sempre nuova, qui e ora. Essa trova espressione nel teatro-oratorio, nel teatro-altare, nel teatro che è accoglienza e ascolto, «luogo d’una comunione» – per usare le parole dello stesso Testori – , spazio d’incontro in cui l’esistenza si rivela, si confessa e si comprende nell’offrirsi alla propria origine, alla propria ragione e sostanza.

Così, «in una sera che «brucia ed arde,/nell’ombra che troppo rapida/discende/e a morire si prepara/», in una sera che porta con sé «il dubbio, la certezza,/ il dolore, la pena, /la fatica»– come sono in fondo tutte le sere degli uomini – la figura dolce di Maria viene invocata dal Coro. E tra la folla che attende la sacra apparizione, Ella risponde alla chiamata e si fa presenza, si muove, sale verso la scena disadorna, «non giovane, non sposa; / vestita già degli anni, /di strazi e di dolori ricoperta», pronta ad accogliere tutti, perché di tutti è madre. Il dialogo di Maria con i membri del Coro ha al centro il mistero dell’Incarnazione: solo accettandolo interamente si può per Testori dare un senso alla nascita, alla vita ed alla morte. Qui il grido drammatico e disperato di tante sue opere si tramuta in domanda trepidante ed attesa, abbandono fiducioso e preghiera. E la figura di Maria, nella sua materna dolcezza, nel suo grembo d’amore e di sangue, è il sì incarnato, è l’obbedienza all’Essere increato, che a sua volta si dona nel Figlio: «Mio Figlio è un infinito stormo, /un furibondo volo, /un vento./ Soffia spinto dall’essere/ la sua stessa ragione,/ il suo stesso movimento/e feconda di sé la misera nostra creta/di cenere e sgomento».  E quel grembo, che è stato di Lui, proprio per questo è anche di tutti: «[…] fu l’assommarsi in me/ d’ogni altra madre che avesse detto sì/e accettato avesse ogni figlio deciso/da mio Figlio/ […] No, non le madri solamente,/ma le vite,/tutte le vite apparse,/le vite in quell’attimo apparenti,/quelle che appariranno dopo/e quelle che ancora appariranno nel futuro;/tutte le gioie,/tutte le speranze, tutti i dolori,/tutte le pene e le fatiche;/tutte le vite intere dei suoi figli/negli intero loro movimenti,/furono ugualmente necessarie/perché il Figlio alfine si facesse».

Ecco il qui e l’oltre di Testori: la carne di Maria ferita, perché vi entra il Corpo di tutti i corpi, schiantata a terra dall’amore, «piena di carne, sì,/ma altra;/la Sua e nostra;/la carne dentro ogni tempo», quella carne ripiena di «Spirito eterno,/eterno fiato» che diventa «sangue, vene,/grumo di muscoli, ossa,/feto».  Come ebbe modo di sottolineare Geno Pampaloni, «quello di Maria è qui un acconsentimento drammatico, lacerante e carnale, ove non c’è più traccia dei colori aerei e trasparenti del Beato Angelico, ma che ha il senso di una tremenda, seppur dolcissima, assunzione di responsabilità del dolore, della gloria, della storia, della Croce». Maria già sente, già vede «le spine, i chiodi,/i legni della croce» e  nel teatro spoglio nel quale è stata invocata ricorda e rivive il sacrificio del Figlio, i suoi «fiori d’agonia,/nostra carità, nostro martirio,/nostra strada, nostra speranza sola,/nostra via». Perché Egli non ha mai smesso di morire ed ancora «muore in ogni vita/che prima che nasca voi spegnete,/muore in ogni vita cui nata/di vivere non permettete», muore in tutte le ingiustizie e in tutti i tradimenti, «invade queste assi/col Suo cadavere lucido e straziato,/occupa l’altare,/scende dentro la piazza,/per le strade si perde e si ritrova,/entra nelle case,/nelle capanne chiuse del lavoro,/dorme con voi, con voi s’alza,/soffre, fatica, suda, pensa,/ansima, respira./Vi guarda». È questo il suo amore, questa la sua vicinanza, questo il suo essere con noi.

L’appello a Cristo da parte di Maria (e di Testori) risulta centrale. Egli, infatti, nonostante il dolore, «è dolce nel Suo immenso sacrificio» e di tutti, uno per uno «è arso dalla sete». Viene definito  «Amore dell’Essere Santissimo e increato», «Parola fatta carne», «Carne fattasi qui martirio», «Martirio fattosi in noi ludibrio», «Tempo d’eternità», «Eterno in nullità», «Scienza nella bontà», «Luce in carità», «Sapienza senza potenza», «Potenza senza violenza», «Dolcezza senza languore», «Folgore senza furore». La Sua promessa sarà mantenuta quando verrà a riprendersi la nostra cenere e «nel Suo grembo/che è vita fuori della vita/tutti ci riporterà,/là dove già fummo», così che «anche nel chiudersi cieco della storia» potrà esserci luce e certezza.

Ecco, dopo le parole di Maria tutto appare diverso. L’invocazione iniziale è stata esaudita. La sera adesso ha una dolcezza nuova e «di rose dolci bagna i tetti delle case», perché «è la sera di Dio/com’è di Dio ogni alba,/ogni mattina». In Lui anche la notte che sta per sopraggiungere diventerà rifugio dai dolori. Maria, con la Sua presenza, ha cambiato il cuore di tutti.

Sergio Pautasso nella nota in appendice al testo, scrive giustamente che qui troviamo «una lingua semplice e limpida che, quasi, pare toccata dalla grazia» e che la poesia di Testori «arriva alle vette della comunicazione individuale e globale attraverso la forma più semplice e più popolare che da secoli si conosca: la preghiera». Non si pensi, però, che con la trilogia di cui fa parte Interrogatorio a Maria ed iniziata con Conversazione con la morte (1978), per terminare poi con Factum est (1981) – scompaia nell’opera di Testori la componente drammatica: essa sarà sempre presente, anche in forma estrema (si pensi a In exitu, oppure a Gli angeli dello sterminio), in quanto strettamente legata alle contraddizioni dell’esistenza, alle passioni che sconvolgono l’animo umano e all’abisso del male nel mondo. Ed occorre aggiungere che anche la fede ritrovata di Testori non sarà mai astratta né puramente spirituale, ma segnata profondamente dalla carne e dunque sofferta. In un’intervista pubblicata nel volume Traduzione della prima lettera ai Corinti (Longanesi, 1991), egli confessa: «Ogni volta che prendo a scrivere qualcosa, per me, è l’ultima e definitiva; poi mi trovo a dover continuare a vivere come un vecchio sacco smagrito, pieno solo d’orrore e di peccati, e allora si rimette in moto, senza che io lo meriti, la Carità; ella (Lui) sa benissimo che quanto da questo nuovo momento uscirà sarà solo un’altra ingiuria… […] Da sempre devo, ogni volta, ricominciare: è la mia dannazione…».

Mauro Germani