Georges Bernanos, Diario di un curato di campagna, traduzione di Adriano Grande, Mondadori, I ed. 1946
C’è sempre qualcosa che eccede nei romanzi di Georges Bernanos, qualcosa che travalica, che supera la pagina scritta, la stessa storia narrata. Qualcosa che brucia, che infiamma l’anima. Qualcosa che è qui, tra le nostre mani, ma che, al tempo stesso, non è solo di questo mondo. Qualcosa di soprannaturale.
Leggendo il Diario di un curato di campagna (1936), la sua opera più celebre («il più bel libro della letteratura francese della generazione dopo Gide», scrisse Guido Piovene), tutto questo si percepisce fin dalle prime righe. Perché il diario del giovane curato è la testimonianza di un’anima segnata, di un essere che intende vivere profondamente la propria fede e la propria missione, ma che al contempo deve subire l’indifferenza o l’ostilità della gente di Ambricourt, le menzogne, l’assuefazione al peccato, la fuga da Dio.
Egli appare subito come un uomo destinato a una sorta di martirio spirituale e fisico, che si compie in mezzo alle tenebre. La sua è una lotta non solo contro il male, ma anche contro sé stesso, perché convinto della propria inadeguatezza o inettitudine davanti alla realtà che deve affrontare e che sovente gli procura angoscia. Come essere un autentico ministro di Dio, un vero servo del Signore? Come comprendere ciò che gli capita e ciò che si agita in lui? La decisione di affidarsi alla scrittura – invero non senza poche perplessità e con diversi ripensamenti, cancellature e pagine strappate – deriva proprio da questo: dall’urgenza di capire quanto gli accade per meglio assolvere all’arduo compito di cui è responsabile davanti a Dio. Proprio per questo, il suo non è un diario semplicemente composto dalla cronaca degli eventi, ma una miniera di annotazioni, di riflessioni, di moti dello spirito davvero straordinari. Non si può non riflettere attentamente su alcuni pensieri improvvisi, vere e proprie illuminazioni, oppure verità scomode e amare confessioni. Quanti mali, di misura ed entità diverse, vede attorno a sé il giovane curato d’Ambricourt!
Vale la pena sottolineare quanto egli scrive a proposito della noia presente nelle parrocchie, che definisce «una disperazione abortita, una forma torpida della disperazione che certamente è come la fermentazione di un cristianesimo decomposto». O quanto afferma riguardo alla lussuria: «Come mai non ci si accorge, più spesso, che la maschera del piacere, spoglia di ogni ipocrisia, è proprio quella dell’angoscia?». Ed è interessante notare che proprio su questo punto – che al giorno d’oggi molti troveranno inopportuno, anacronistico e persino ridicolo, o scandaloso – egli insiste:« La lussuria mi fa paura. L’impurità dei fanciulli, soprattutto… La conosco. Oh! Non la prendo già sul tragico! Penso al contrario che dobbiamo sopportarla con molta pazienza, poiché la più piccola imprudenza può avere, in questa materia, conseguenze spaventose. […] Ma ciò non m’impedisce di detestare quest’universale cospirazione, questo partito preso di non vedere ciò che, tuttavia, buca gli occhi; questo sorriso sciocco e accorto degli adulti di fronte a certe miserie che vengono credute senza importanza. […] Ho anche conosciuto troppo presto la tristezza, per non sentirmi rivoltato dalla bestialità e dall’ingiustizia di tutti verso la tristezza dei piccoli, così misteriosa. L’esperienza, ahimè, ci dimostra che esistono disperazioni infantili: e il demone dell’angoscia è, essenzialmente, credo, un demone impuro». Particolarmente rilevante dal punto di vista teologico, è quanto poi egli afferma rispetto al peccato:« Tutti i peccati si rassomigliano, non c’è che un solo peccato. Non vi parlo un linguaggio oscuro! Queste verità sono alla portata del cristiano più umile, purché voglia raccoglierle da noi. Il mondo del peccato sta di fronte al mondo della grazia come l’immagine riflessa d’un paesaggio, al margine di un’acqua nera e profonda. C’è una comunione dei santi, e c’è anche una comunione dei peccatori».
Il giovane curato d’Ambricourt – proveniente da una famiglia povera e contadina, colpita da varie disgrazie – si porta addosso un’infanzia solitaria e una giovinezza mai pienamente vissuta, tuttavia, pur nel tormento che spesso lo possiede (sua è la convinzione d’esser «prigioniero della Santa Agonia»), riesce a conservare una sorta di spirito di fanciullo, qualcosa difficile da definire, un particolare atteggiamento dello sguardo e del cuore, una forma d’innocenza disarmata, che si scontra con il mondo e che si trova sempre esposta al rischio dell’incomprensione e del fraintendimento: è lo stato di povertà unito al sentimento dell’infanzia. Scrive, infatti: «Per quanto io mi giudichi severamente, non ho mai dubitato di avere lo spirito di povertà. Quello dell’infanzia gli somiglia. Entrambi, senza dubbio, formano una sola cosa».
Innocenza e tormento convivono dunque, in modo misterioso, nel giovane curato, che non si risparmia nella sua opera, nonostante la salute precaria, e non cerca mai scappatoie e compromessi. Chi lo incontra, è costretto a riconoscere – anche respingendola – la sua diversità. Il curato di Torcy, uomo senza dubbio di fede (si leggano le sue stupende parole dedicate alla Vergine Maria: «Lo sguardo della Vergine è il solo sguardo veramente infantile, il solo vero sguardo di bambino che si sia mai levato sulla nostra vergogna e sulla nostra disgrazia»), vigoroso e concreto, comprende la strana fragilità e, al tempo stesso, l’inconsueto rigore del giovane curato, ma gli consiglia d’essere meno preoccupato nei confronti del male, perché il peccato non deve fare paura alla Chiesa. Un altro sacerdote, il decano di Blangermont, dalla mentalità borghese, lo considera in modo sospetto, e gli dice soprattutto che deve curare più scrupolosamente l’amministrazione della parrocchia («i santi sono stati troppo sovente una prova per la Chiesa, prima di divenirne una gloria»). Altri personaggi mettono alla prova il giovane curato: il dottor Delbende, privo di fede, la bambina Séraphita Domouchel, ambigua e maliziosa, ma soprattutto il conte e la contessa castellani di Ambricourt, la loro figlia Chantal e la governante di lei, Mademoiselle Louise. Il giovane curato dovrà conoscere la relazione del conte con Louise, il disgusto provato da Chantal, la freddezza della contessa che, dietro l’apparente tranquillità e rispettabilità, prova un sentimento di ribellione verso Dio, non ama ormai più nessuno e vive solo nel ricordo di un figlio morto in tenera età. L’ostilità di tutti costoro gli si porrà davanti in modo inesorabile. E tuttavia il giovane curato non fuggirà dal proprio compito. Non solo. Qualcosa di misterioso è in lui. Le parole che pronuncia sembrano dettate da un Altro: è proprio come se lo Spirito del Padre parlasse in lui, secondo la promessa fatta da Gesù agli apostoli.
Si veda, al riguardo, uno dei momenti più alti del romanzo: il lungo, estenuante colloquio con la contessa, una vera e propria sfida contro la menzogna e l’odio. E qui colpisce una potente affermazione del curato: «Non c’è un regno dei viventi e un regno dei morti, non c’è che il regno di Dio e noi, viventi o morti, vi stiamo dentro». Essa produrrà, insieme ad altre parole, un effetto miracoloso: la contessa finalmente troverà la pace e si convertirà. La tensione drammatica del romanzo, però, non finisce e continua a crescere ulteriormente, a causa della morte improvvisa della contessa e della malattia incurabile del giovane curato: un cancro allo stomaco. La via crucis del protagonista si concluderà nella casa di un ex compagno di seminario, ormai spretato, a cui egli chiederà l’assoluzione. Poco prima della morte, il curato mormorerà, in conformità con Santa Teresa di Liseux, che «tutto è grazia», quindi tutto è un dono, poiché ciò che ci viene dato è per la nostra salvezza.
Bernanos arriva così al termine dell’appassionato e travagliato dialogo tra il soprannaturale e il mondo: le ultime parole del curato non solo danno un senso a ciò che è l’esperienza terrena, ma preludono anche al dopo, a quell’altra vita e a quell’altro cielo verso cui l’intera opera dello scrittore francese tende.
Mauro Germani