Cristiano Spila, Simulacri, Calibano Editore, 2020
I quattro racconti che compongono questa raccolta di Cristiano Spila nascono dal confronto tra i simulacri e l’esistenza, tra le forme immutabili e cristallizzate del tempo ed il flusso enigmatico del divenire. In atmosfere sospese ed insieme cangianti, scosse dal pensiero che diventa visione e viceversa, l’autore coglie negli eventi narrati gli agguati imprevedibili del destino, come da una soglia oscura, quasi a spiarli, a sorprenderli nel loro manifestarsi. Tutto allora sembra oscillare tra l’essere e l’apparire: l’esistenza si sdoppia nel suo riflesso e quest’ultimo, a sua volta, la segna e la chiama.
Il primo
racconto scaturisce da un sogno premonitore di rovina e di acqua putrescente,
che visita Iciarco, discepolo di Talete, il quale sarà poi destinato a
scoprire, in una Mileto «stordita e stanca, e umida di greve sonnolenza», la
morte inaspettata del maestro. Egli sentirà dentro di sé di essere «condannato
senza appello a non sapere più nulla». E davanti a lui ci saranno solo il
corpo privo di vita di Talete, col suo «viso tumido e inerte», ed il volto
gelido ed impassibile della statua di Afrodite, immobile nella luce, quella
statua che già aveva sognato la notte prima grondante d’acqua, senza testa e
con le estremità delle braccia monche. Forse – potremmo azzardare – Iciarco, al
cospetto dell’imprevedibilità dell’esistenza e della consapevolezza della
morte, nonché di quella luminosità altra del
simulacro, intuisce improvvisamente ciò che Eraclito avrebbe poi introdotto per
la prima volta, rispetto alla speculazione ionica precedente: l’importanza
della ricerca interiore, rivelatrice
di profondità infinite («Tu non troverai i confini dell’anima, per quanto vada
innanzi, tanto profonda è la sua ragione»), e che mostra la paradossale
coincidenza tra ciò che è lontano e ciò che è intimo.
Nel racconto successivo, Il liuto, Astrolabio – il figlio della colpa di Eloisa e di
Abelardo – anela alla luce, e cerca nel
suono del liuto conforto e pace. All’interno dell’abbazia cistercense di
Hauterive si dedica alla musica, nella quale, secondo Agostino, «il ritmo e il
numero stanno in un’operazione dell’anima, che è il bene modulandi», ma essi sono anche un mezzo per evocare il
silenzio. E proprio dal silenzio dell’ultima nota pizzicata nella corda del
liuto, egli avverte una segreta presenza, una voce oracolare che gli sussurra:«
Io sono quel che tu ignori». È l’inizio di qualcosa di misterioso che lo
attende una notte, quando l’eco dei suoni del liuto provoca apparizioni – due
molossi bianchi nel buio, che prendono vita dalle statue di un tempietto – e
distruzioni nel silenzio: una frana di
capitelli, di colonne, di marmi, di sassi e di ghiaie senza alcun rumore. Prodigi o
sortilegi della musica e di un silenzio che per Astrolabio sono rovina, ma
forse anche rinascita e appropriazione di una nuova vita. «Io sono ciò che tu
hai lasciato», mormora alla fine la voce oracolare.
Nel
terzo racconto, intitolato Agonia della
neve, il protagonista è Swedenborg, che qui è sempre denominato «l’uomo che
si credeva Swedenborg», assecondando l’ignoranza
intima – come la definisce Borges in Altre
inquisizioni – per la quale nessun uomo sa chi è veramente, teoria che fu
proprio di Swedenborg e di altri autori,
come ad esempio Leon Bloy. Il testo narra di una visione notturna
che si rivela anche un trapasso, uno sconfinamento nell’oltre, in cui il vecchio Swedenborg insegue nella neve una figura
femminile («una dea, o una maga, un’obliquità») di ghiaccio e di nulla, che lo trattiene in un abbraccio mortale: è
«ancora una volta il tragico corpo a corpo con il tempo», fino ad una
sospensione che può significare il suo stesso superamento.
Bevi con me il nepente…, al termine della raccolta, descrive un vecchio De Quincey, che ormai prova un’immensa fatica a scrivere, a causa
del tremore alle mani. Anche qui un simulacro, la statua del monumento
funerario di Caius Iulius Bathyllus, uno dei liberti di Ottaviano Augusto, ha
il potere di attrarre l’attenzione e l’immaginazione del personaggio
protagonista, ormai assuefatto al laudano, oppiomane senza speranza, colpito
inesorabilmente dal trascorrere degli anni, tanto che non smette di fissare la figura
del giovane. Egli vede in quel delicato giovinetto di marmo ciò che non è più e
che tuttavia non smette di essere, perché in qualche modo lo chiama,
invitandolo a bere il nepente, il farmaco miracoloso, da quella coppa che gli
offre, come fosse il riflesso immortale di sé, quando era ancora giovane.
In conclusione, si può asserire che i temi del tempo e della morte, presenti in tutti i racconti intensi, rarefatti
e notturni di Cristiano Spila
(saggista che si è occupato, tra gli altri, di Gadda, D’Arrigo, Vigolo, Bassani,
nonché traduttore di Poe, Melville, London) si rifrangono e si contemplano in
echi possibili, in sospensioni narrative che lasciano spazio al mistero,
«mescolando tono fantastico e rievocazione letteraria», come si legge nella nota in quarta di copertina.