domenica 3 ottobre 2021

Giovanni Testori - Interrogatorio a Maria

Giovanni Testori, Interrogatorio a Maria, Biblioteca Universale Rizzoli, 1979

Che emozione rileggere, dopo tanti anni, Interrogatorio a Maria di Giovanni Testori! In questo testo, pubblicato nel 1979, si fa nostra una voce che è domanda e poi preghiera, una voce che trema, che è antica e sempre nuova, qui e ora. Essa trova espressione nel teatro-oratorio, nel teatro-altare, nel teatro che è accoglienza e ascolto, «luogo d’una comunione» – per usare le parole dello stesso Testori – , spazio d’incontro in cui l’esistenza si rivela, si confessa e si comprende nell’offrirsi alla propria origine, alla propria ragione e sostanza.

Così, «in una sera che «brucia ed arde,/nell’ombra che troppo rapida/discende/e a morire si prepara/», in una sera che porta con sé «il dubbio, la certezza,/ il dolore, la pena, /la fatica»– come sono in fondo tutte le sere degli uomini – la figura dolce di Maria viene invocata dal Coro. E tra la folla che attende la sacra apparizione, Ella risponde alla chiamata e si fa presenza, si muove, sale verso la scena disadorna, «non giovane, non sposa; / vestita già degli anni, /di strazi e di dolori ricoperta», pronta ad accogliere tutti, perché di tutti è madre. Il dialogo di Maria con i membri del Coro ha al centro il mistero dell’Incarnazione: solo accettandolo interamente si può per Testori dare un senso alla nascita, alla vita ed alla morte. Qui il grido drammatico e disperato di tante sue opere si tramuta in domanda trepidante ed attesa, abbandono fiducioso e preghiera. E la figura di Maria, nella sua materna dolcezza, nel suo grembo d’amore e di sangue, è il sì incarnato, è l’obbedienza all’Essere increato, che a sua volta si dona nel Figlio: «Mio Figlio è un infinito stormo, /un furibondo volo, /un vento./ Soffia spinto dall’essere/ la sua stessa ragione,/ il suo stesso movimento/e feconda di sé la misera nostra creta/di cenere e sgomento».  E quel grembo, che è stato di Lui, proprio per questo è anche di tutti: «[…] fu l’assommarsi in me/ d’ogni altra madre che avesse detto sì/e accettato avesse ogni figlio deciso/da mio Figlio/ […] No, non le madri solamente,/ma le vite,/tutte le vite apparse,/le vite in quell’attimo apparenti,/quelle che appariranno dopo/e quelle che ancora appariranno nel futuro;/tutte le gioie,/tutte le speranze, tutti i dolori,/tutte le pene e le fatiche;/tutte le vite intere dei suoi figli/negli intero loro movimenti,/furono ugualmente necessarie/perché il Figlio alfine si facesse».

Ecco il qui e l’oltre di Testori: la carne di Maria ferita, perché vi entra il Corpo di tutti i corpi, schiantata a terra dall’amore, «piena di carne, sì,/ma altra;/la Sua e nostra;/la carne dentro ogni tempo», quella carne ripiena di «Spirito eterno,/eterno fiato» che diventa «sangue, vene,/grumo di muscoli, ossa,/feto».  Come ebbe modo di sottolineare Geno Pampaloni, «quello di Maria è qui un acconsentimento drammatico, lacerante e carnale, ove non c’è più traccia dei colori aerei e trasparenti del Beato Angelico, ma che ha il senso di una tremenda, seppur dolcissima, assunzione di responsabilità del dolore, della gloria, della storia, della Croce». Maria già sente, già vede «le spine, i chiodi,/i legni della croce» e  nel teatro spoglio nel quale è stata invocata ricorda e rivive il sacrificio del Figlio, i suoi «fiori d’agonia,/nostra carità, nostro martirio,/nostra strada, nostra speranza sola,/nostra via». Perché Egli non ha mai smesso di morire ed ancora «muore in ogni vita/che prima che nasca voi spegnete,/muore in ogni vita cui nata/di vivere non permettete», muore in tutte le ingiustizie e in tutti i tradimenti, «invade queste assi/col Suo cadavere lucido e straziato,/occupa l’altare,/scende dentro la piazza,/per le strade si perde e si ritrova,/entra nelle case,/nelle capanne chiuse del lavoro,/dorme con voi, con voi s’alza,/soffre, fatica, suda, pensa,/ansima, respira./Vi guarda». È questo il suo amore, questa la sua vicinanza, questo il suo essere con noi.

L’appello a Cristo da parte di Maria (e di Testori) risulta centrale. Egli, infatti, nonostante il dolore, «è dolce nel Suo immenso sacrificio» e di tutti, uno per uno «è arso dalla sete». Viene definito  «Amore dell’Essere Santissimo e increato», «Parola fatta carne», «Carne fattasi qui martirio», «Martirio fattosi in noi ludibrio», «Tempo d’eternità», «Eterno in nullità», «Scienza nella bontà», «Luce in carità», «Sapienza senza potenza», «Potenza senza violenza», «Dolcezza senza languore», «Folgore senza furore». La Sua promessa sarà mantenuta quando verrà a riprendersi la nostra cenere e «nel Suo grembo/che è vita fuori della vita/tutti ci riporterà,/là dove già fummo», così che «anche nel chiudersi cieco della storia» potrà esserci luce e certezza.

Ecco, dopo le parole di Maria tutto appare diverso. L’invocazione iniziale è stata esaudita. La sera adesso ha una dolcezza nuova e «di rose dolci bagna i tetti delle case», perché «è la sera di Dio/com’è di Dio ogni alba,/ogni mattina». In Lui anche la notte che sta per sopraggiungere diventerà rifugio dai dolori. Maria, con la Sua presenza, ha cambiato il cuore di tutti.

Sergio Pautasso nella nota in appendice al testo, scrive giustamente che qui troviamo «una lingua semplice e limpida che, quasi, pare toccata dalla grazia» e che la poesia di Testori «arriva alle vette della comunicazione individuale e globale attraverso la forma più semplice e più popolare che da secoli si conosca: la preghiera». Non si pensi, però, che con la trilogia di cui fa parte Interrogatorio a Maria ed iniziata con Conversazione con la morte (1978), per terminare poi con Factum est (1981) – scompaia nell’opera di Testori la componente drammatica: essa sarà sempre presente, anche in forma estrema (si pensi a In exitu, oppure a Gli angeli dello sterminio), in quanto strettamente legata alle contraddizioni dell’esistenza, alle passioni che sconvolgono l’animo umano e all’abisso del male nel mondo. Ed occorre aggiungere che anche la fede ritrovata di Testori non sarà mai astratta né puramente spirituale, ma segnata profondamente dalla carne e dunque sofferta. In un’intervista pubblicata nel volume Traduzione della prima lettera ai Corinti (Longanesi, 1991), egli confessa: «Ogni volta che prendo a scrivere qualcosa, per me, è l’ultima e definitiva; poi mi trovo a dover continuare a vivere come un vecchio sacco smagrito, pieno solo d’orrore e di peccati, e allora si rimette in moto, senza che io lo meriti, la Carità; ella (Lui) sa benissimo che quanto da questo nuovo momento uscirà sarà solo un’altra ingiuria… […] Da sempre devo, ogni volta, ricominciare: è la mia dannazione…».

Mauro Germani