PER RICORDARE GIOVANNI TESTORI (12 maggio 1923- 16 marzo 1993)
Giovanni
Testori, Conversazione con la morte,
Rizzoli 1978
Conversazione con la morte di Giovanni Testori è il teatro che si spoglia, diventa una voce, un’anima incarnata. È una confessione pubblica, un ultimo atto, un dono estremo, una «scandalosa conversione», come la definì Giovanni Raboni. È la testimonianza di una fine e di un principio, perché qualcosa di grande è accaduto e qualcosa continua ad accadere, lì, in quella penombra, in quel «triste, umido, eppure così tenero sottoscala», dove prende vita il monologo del protagonista, un vecchio autore-attore quasi cieco e prossimo alla morte.
Tutto avviene tra le rovine del teatro, perché c’è stato un crollo che ha travolto ogni scena, «l’orgoglio e la rapinosa felicità» di un tempo, il potere d’incantare il pubblico con gli artifizi di un’arte consumata. Il protagonista è ora solo; «il teatro, le sue assi, il sipario, / le quinte, le luci», tutto ciò che fu per lui, la sua fatica e la sua gloria, la sua perdizione e la sua vanità, «s’è ridotto a questi muri scrostati, / a questo gocciolare d’acqua dentro le tubature, / a questo odor di muschio e di salnitro, /« a questa nebbia…». Pare una sconfitta senza rimedio, una disperazione che non lascia scampo. Eppure, è proprio in questa nudità assoluta che trova espressione una nuova consapevolezza, una verità dimenticata, un’urgenza di una parola diversa, antica e sacra, da pronunziare con umiltà.
E non a caso Testori volle leggere lui stesso il suo monologo, a partire dalla sera del 7 novembre 1978 al Teatro Pierlombardo di Milano, e poi in più di cento teatri e chiese di tutta Italia. Una scelta che evidenzia l’importanza del vissuto biografico dell’autore, che iniziò a scrivere il testo dopo la morte della madre, Lina Paracchi, avvenuta nel luglio del 1977, e che nel testo diviene tutt’uno con la morte della madre del protagonista.
Ed eccola, allora, la morte «che è il filo ancora della vita», ma «non adesso; non qui; / di là, / oltre le porte, oltre le quinte, / oltre i muri, oltre i prati…»; la morte prima cagna e ora capretta tenera, bestia ammansita; la morte che, dopo la scomparsa di lei, la madre («anzi, mamma; / così, mamma…»), dona il coraggio di proferire parole abbandonate e dimenticate da tempo: anima, carità, pietà, Dio. Parole che chiedono d’essere accolte con semplicità e rispetto. Parole che oggi quasi si fa fatica a dire e a fare proprie. Parole non astratte, che trovano la loro verità in un’esperienza di vita. E che cos'è esperienza profonda, se non una conversione totale, nella sua irrefrenabile urgenza, nella sua umiltà e, insieme, luminosa grandezza, nella sua richiesta di perdono, nella sua fame e sete di carità?
In Conversazione con la morte il groviglio linguistico di Testori, la sua straordinaria capacità inventiva di una lingua materica, arcaica, contaminata da un impasto policromo di dialetti, latinismi, influssi francesi e spagnoli – tipico della Trilogia degli Scarozzanti – si scioglie. Qui c’è l’esigenza di una dizione diversa, alta pur nella semplicità, che richiede un altro ascolto, la totale partecipazione interiore del cosiddetto spettatore. E proprio la presenza di Testori, con la sua voce «lenta, nebbiosa, e a tratti affaticata», come si legge nella nota di Luigi Brioschi in appendice al volume, si può intendere come una negazione della recitazione stessa, aldilà di ciò che intendiamo per spettacolo, al fine di giungere a una comunicazione diversa, che cerca nella parola nuda, nella sua fragilità e nella sua misteriosa potenza, una nuova possibilità, un altro senso e un altro suono.
L’esperienza radicale della morte segna per Testori uno scarto profondo e, al tempo stesso, una continuazione, lo sviluppo di quella drammatica richiesta di senso che ha sempre contraddistinto la sua opera. La sua conversione non sarà mai pacificata, anzi, lo condurrà a prove estreme, come quelle appartenenti alla cosiddetta Branciatrilogia prima (Confiteor, In exitu, Verbò) e seconda (Sfaust, SdisOrè, Regredior) e ai Tre Lai (Cleopatras, Erodias, Mater Strangoscias). Non possono non venire in mente, al riguardo, le parole di un altro scrittore cristiano scomodo, Leon Bloy (1846-1917): «I cristiani devono essere continuamente chini sugli abissi». Questo è proprio ciò che ha fatto Testori, il quale ebbe poi modo di dichiarare: «Ogni volta che prendo a scrivere qualcosa, per me, è l’ultima e definitiva; poi mi trovo a dover continuare a vivere come un vecchio sacco smagrito, pieno solo d’orrore e di peccati, e allora si rimette in moto, senza che io lo meriti, la Carità» (in Testori, Traduzione della prima lettera ai Corinti, Longanesi, 1991).
Con Conversazione con la morte Testori sente il bisogno, anzi l’urgenza, di testimoniare, di implorare addirittura, prima che sia troppo tardi, per bocca del protagonista, la sacralità dell’esistenza, la sua dimensione che non è «cosa», né «illuminata demenza della Ragione» (ricordiamo, a questo proposito, Interrogatorio a Maria del 1979 e Factum est del 1981, che completeranno la seconda trilogia testoriana, e che accompagneranno gli articoli che scrisse per “Il Corriere della Sera” e per “Il Sabato”, raccolti poi nel volume La maestà della vita, Rizzoli, 1982). Le ultime parole del testo sono un’esortazione oggi più che mai non solo opportuna ma necessaria: «riunite la morte alla vita, / riunitele / o su voi scenderà solo e per sempre lei, / la morte fattasi oggetto, / la morte fattasi cosa…/ Riunitele, / ve lo chiedo dalla mia fine / e dal mio inizio: / riunitele».
Mauro Germani