Al centro di questo libro di Franco Riva, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, vi è la strana domanda di Caino:« Sono forse io il custode di mio fratello?», che troviamo nell’Antico Testamento. Come interpretarla? È solo un tentativo di fuga, un modo di non rispondere alla domanda di Dio: «Dov’è Abele, tuo fratello?», oppure implica altro? È opportuno, inoltre, aggiungere che, prima della domanda suddetta, Caino afferma di non sapere dov’è suo fratello. Che cosa egli davvero non sa?
Insieme a questi interrogativi, Franco Riva mette in luce il concetto di responsabilità, che è insito nella parola custode utilizzata da Caino. La stranezza delle parole di Caino consiste nel fatto che esse dicono di una responsabilità al contrario, tenendo insieme «tutto e il contrario di tutto: vita e morte, sapere e non sapere, fratelli e nemici, fratelli e responsabili, uomo e uomo, uomo e Dio, male e bene, violenza e vendetta, colpa grave e giustizia, imperdonabile e perdono».
Sta di fatto che la domanda di Caino, secondo Riva, «non è più dimenticata perché risuona per la prima volta la parola delle parole, la responsabilità per altri. Non è più dimenticata perché proibisce di parlare di “umanità” (di “fraternità”) al di fuori di un farsi responsabili». Si tratta di una responsabilità che è legata all’umano, nel senso che è antecedente all’umanità, in quanto il «non so» di Caino ci rivela che non si può sapere nulla di umano prima di essere responsabili. Ed è proprio la riflessione su questo punto che induce l’autore a trattare, in modo molto radicale e al tempo stesso per nulla dogmatico, tre temi cruciali della nostra esistenza, tre nodi difficili da districare, segnati come sono da ossimori, ambiguità e contraddizioni: il male, il perdono, la fraternità, che a ben vedere, convivono enigmaticamente nella domanda di Caino.
Nel suo percorso, Franco Riva si avvale di numerosi riferimenti sia letterari (Cervantes, Dostoevskij), sia filosofici (Arendt, Buber, Derrida, Jankélevitch, Jonas, Kierkegaard, Lévinas, Marcel, Ricoeur, Schmitt), mediante una scrittura attenta e incisiva, ma soprattutto evidenziando la complessità di tali problematiche, che invece sovente sono vittime di banalità e semplificazioni.
A proposito del male, Riva ritiene che occorre affermare la sua realtà («Bisogna smetterla di dire che il male non esiste»). Il male c’è, si può e si vuole. Non è qualcosa di astratto, né un incidente o un’eccezione all’interno della storia dell’uomo e del mondo. Quando si tenta di spiegarlo e di giustificarlo, «viene ridotto a un’idea di tecnica», qualcosa di non funzionante nella macchina del mondo, «qualcosa di riparabile, di aggiustabile». Il male invece è qui, è nel volto ferito di chi soffre, «mio o degli altri. Degli altri soprattutto». Anche le grandi elaborazioni teoriche rischiano di oscurare la realtà del male. Se da un lato c’è «una filosofia rassegnata del pessimismo», dall’altro c’è «una filosofia bonaria dell’ottimismo che lavora soltanto, chissà se per motivi esortativi o rassicuranti, sullo sbiancamento della notte del male». Ma il male non si riduce, si incontra, e di fronte a esso «non tiene né il pessimismo né l’ottimismo». Nel faccia a faccia con il male allora c’è posto per la pietas nei confronti del volto ferito, c’è la condivisione e c’è la compassione. Pensare il male in modo autentico significa sottrarlo al «ripiegamento intimistico» e pronunciare non solo l’aggettivo mio, ma anche nostro. Afferma Riva:« Le teorie e le teodicee servono anche, mentre spiegano e giustificano, a distrarre da questo male che è nostro». E aggiunge:« Male nostro, male irriducibilmente sociale e politico: nostro come la “speranza”. Male suscitato non così lontano da dove siamo noi. Male mai giustificato». Ecco allora che il discorso relativo al male è attraversato dalla responsabilità, che vuol dire comunione, nel senso di uscire dal proprio centro, nella consapevolezza che il male nel suo paradosso «annuncia una morte mentre ricorda la vita» e «dice la vita mentre testimonia una morte». Questo carattere aporetico del pensiero sul male non deve pertanto significare una rinuncia, perché «il fatto di non comprendere il male invita al contrario a ripartire con maggior forza e vigore con un pensare diverso. L’aporia infatti non è un punto d’arresto, un pantano, ma una conquista». Ciò che Franco Riva sottolinea è che il male «non può/non deve ritrovarsi a essere pienamente giustificato», se vogliamo che esso non abbia l’ultima parola.
Per quanto riguarda il secondo tema, cioè quello del perdono, viene affermato che «la lotta del perdono è una battaglia per la libertà», perché è la lotta per la speranza quando sembra vincere la disperazione. Kierkegaard in La malattia mortale sostiene che la disperazione della remissione dei peccati deriva dalla coscienza di chi si trova nell’angoscia per il bisogno di perdono, ma rifiuta lo scandalo del perdono. Del resto, se da un lato è importante la coscienza del male, dall’altro è anche vero che «il perdono è difficile perché sta – se sta – nella ferita, nel faccia a faccia di una vittima e di un colpevole». Non solo. Riva afferma che «si perdona solo ciò che è imperdonabile» e che «quando il perdono è possibile diventa impossibile e quando sembra impossibile si fa possibile». Non è un gioco di parole. Se il perdono è facile o scontato, non è più perdono, perché «un perdono leggero è complice del male». Questo perché perdonare non significa giustificare il male e la colpa: ciò che è stato fatto resta e deve restare. Il perdono non giustifica nulla e ha il coraggio di porsi di fronte al male. Non è un semplice dono. Mentre il dono rientra in qualche modo nella logica dello scambio, del corrispondere, il perdono sancisce «un’asimmetria insormontabile». Interessante è anche quanto viene scritto sul modo linguistico del perdono, in cui «avanzano parole incommensurabili come sono quelle della confessione e dell’assoluzione. […] La parola del perdono è radicalmente diversa perché non compete a tutti nello stesso modo. Un conto è confessare, un altro assolvere. Un conto chiedere perdono, un altro concederlo». Questa sproporzione tra le parole include anche il silenzio, che si riferisce al male commesso: esso in realtà è molto più forte delle parole pronunciate troppo in fretta, a volte ipocritamente, come scusanti. «Il perdono è la libertà nuda» afferma Riva, non ha logiche di convenienza e scaturisce dal farsi prossimo, in quanto – come sostiene Lévinas – «farsi responsabili dell’altro è l’unica condizione per cui nel mondo ci può essere pietà, compassione, perdono e prossimità». E alla fine del capitolo viene citata la storia esemplare di Delitto e castigo di Dostoevskij.
L’ultimo tema è quello della fraternità, che è strettamente connesso ai precedenti. Essere fratelli vuol dire essere responsabili? No, si può essere fratelli senza essere responsabili, come ci insegna la storia di Caino. Caino dice di non sapere, non sa dove si trova suo fratello, né sa qualcosa sulla responsabilità. La verità è però che la domanda di Caino non resta nel vuoto. Ci interpella, ci chiede cosa sia veramente la fraternità e cosa significhi essere responsabili. Inoltre è da rilevare che tale domanda non è impersonale, non parla di un noi generico, ma dice io. L’uso di questo pronome è importante perché significa che a essere responsabile è un io, cioè che la responsabilità è prima di tutto personale e in tal senso dona all’io un nuovo significato. Secondo Lévinas, infatti, «la parola Io significa Eccomi, rispondente di tutto e di tutti»: sono sì unico e irripetibile, ma solo nella responsabilità per l’altro.
Franco Riva scrive che «nel mito biblico la fraternità sorge insieme alla responsabilità e sprofonda in una domanda che resta aperta. Non perché non abbia risposta, ma perché tenere aperta la domanda è la sua vera risposta», facendo però attenzione che «la morte non sia più forte, non sia in nome della stessa fraternità», come spesso è accaduto e accade.
Mauro Germani