Giovanni
Nuscis, Il grande tempo è ora, Arcipelago Itaca, 2021
Nelle Tesi di filosofia della storia (1940), Walter
Benjamin indica nel tempo-ora il momento in cui si spezza il
continuum storico, cioè quell’attimo propizio per riaccendere in qualche modo
il passato, dando vita con un salto dialettico a ciò che era stato lasciato ai
margini. Si tratta di una riappropriazione che è discontinuità rivoluzionaria,
perché in grado di redimere il passato nell’apertura verso il futuro. Il tempo-ora è
il punto zero da cui ripartire, la scommessa di una possibile liberazione degli
umiliati e degli offesi, grazie ad una scelta irriducibile che si configura
come nuova rimemorazione delle epoche passate.
È quanto si può percepire – sin dal titolo – da questa corposa raccolta
poetica di Giovanni Nuscis, che comprende testi scritti dal 2011 al 2018, nella
quale viene auspicata, come per Benjamin, la potenzialità messianica dell’adesso,
la sua illuminazione, che riscatta il passato in vista di una possibilità etica
di salvezza o comunque di risanamento, di nuove prospettive di civiltà. Nei testi di Nuscis si può cogliere, in modo più o meno esplicito, un’urgenza etica in grado di scongiurare l’adattamento passivo al corso
degli eventi. Le ferite della delusione e
dell’abbandono, della solitudine e dello sconforto, spesso derivanti dal nostro
egoismo e dalle ingiustizie presenti nella società, non sono da
considerarsi irreparabili perché lasciano comunque
intravedere una sospensione, una possibilità, un non ancora, che
potrebbe manifestarsi: ciò che non è stato, infatti, non è detto che non potrà
mai essere. Ecco, dunque, il desiderio di uno scatto, che è
anche uno scarto, l’esigenza di una rottura, di un cambiamento
radicale, affinché il tempo – filo conduttore che unisce i vari componimenti –
non si chiuda definitivamente in sé stesso, ma diventi occasione e
slancio per un salto di qualità. E a ben vedere, il tempo non è da concepire
come un’entità astratta, perché coinvolge la nostra esistenza: ci chiama, ci
sollecita, ci scuote, in una duplice dimensione, individuale e
collettiva.
C’è nella poesia di Nuscis, una visione antropologica ben precisa che nella
successione dei testi si mette a fuoco in modo sempre più nitido. Accanto alla
necessità di fare la storia e di vincere la tristezza di una
quotidiana rassegnazione, vi è pure la consapevolezza dell’umana fragilità, che
significa soprattutto sapere di non essere padroni assoluti della nostra vita,
perché in fondo nulla ci appartiene, ma siamo noi ad appartenere a ciò che ci
costituisce, ovvero alla nostra antica origine, alla stessa natura,
all’universo ed al suo mistero: si vedano i versi di Non appartiene la
terra o di Roccia madre, nonché la poesia Sapere
che ci sei, rivolta alla «madre di tutte le madri», e caratterizzata da un
afflato di tenerezza filiale, che trova il suo compimento in un amorevole
abbraccio «oltre la fine», «nel salto/di vita in vita».
Proprio da questa coscienza antropologica nasce l’esigenza di un
particolare modus vivendi, di un dovere etico, di un’integrità e di
una responsabilità a cui non ci si può sottrarre: un’attenzione, una vigilanza
continua nei confronti dell’arroganza del potere e dei suoi soprusi, che è non
solo ferma condanna di ogni forma di ingiustizia («la giustizia è un
sole/in un cielo infestato di nubi», dicono i versi iniziali di Attese), ma anche continua
domanda interiore, volontà di discernimento, spinta ad agire salvaguardando
sempre la dignità. Ed è questo lo sguardo di Nuscis sul mondo e su se stesso.
Uno sguardo che spazia, senza forzature, dai ricordi personali (tra gli altri,
la fanciullezza a Posatura e poi la vita in Sardegna, gli amici lontani ma pur
sempre «uniti nel vuoto», il funerale della zia suora nella cattedrale di
Oristano), riflessioni spesso amare sul presente («l’ennesima croce di gelo/nel
buco nero della storia»), alla speranza verso un futuro diverso, tutto da
costruire, in quanto «Ogni ora/ha un seme nascosto» e «Qualcosa a volte
preme/per uscire, liberandoci»). Uno sguardo, ancora, che è ricerca di senso e
di valori, oltre le barriere del tempo («Ciò che esplose/arde ancora») ed oltre
le nostre solitudini, le nostre ansie, le nostre mancanze, i nostri vuoti (si
legga, al riguardo Il giorno da non dimenticare, di sapore
kafkiano), perché la svolta decisiva si trova al di là dei confini angusti
dell’io: «Milioni di voci in una sola/vinceranno la tua inerzia», come
decretano i versi di Qualcosa di buono.
Il suo è un dettato che, pur non rinunciando, quando occorre, alla denuncia
e all’indignazione, conserva una misura, un controllo formale, una limpidezza
oggi piuttosto rari. Il rischio del contingente e del transitorio di tanta
poesia civile è qui scongiurato, in quanto la dimensione sociale è sempre
associata a quella propriamente esistenziale, ai dubbi, alle inquietudini, alle
interrogazioni circa il nostro essere-nel-mondo. Come sottolinea
giustamente Antonio Fiori nella postfazione, quella di Nuscis è una poesia che
«ha un fuoco etico di lunga durata, capace di vedere le strade già percorse
come le strade da intraprendere, tanto nella vita sociale che nella vita
d’ognuno». E da questa capacità scaturisce la voce del tempo-ora, che
è insieme ammonimento ed esortazione, denuncia e speranza.
Mauro Germani