Mi sono
già occupato, in passato, del capolavoro di Dino Buzzati (16 ottobre 1906 – 28
gennaio 1972) Il deserto dei Tartari
– uno dei più grandi romanzi del Novecento italiano, pubblicato nel 1940 – nel
volume da me curato L’attesa e l’ignoto.
L’opera multiforme di Dino Buzzati (L’arcolaio, 2012). Ora, però, vorrei
soffermarmi a riflettere soprattutto sul finale del libro, quando Giovanni
Drogo, il protagonista, ormai «consunto dalla malattia e dagli anni», attende
la morte, solo, in una piccola locanda, lontano dalla Fortezza in cui aveva
sognato per lungo tempo la gloria.
È
l’ultimo atto per il maggiore Drogo, l’ultimo momento a lui concesso dopo
un’intera esistenza trascorsa nell’attesa dei Tartari, i mitici nemici
provenienti dal deserto del nord – quel deserto spiato giorno e notte, con
trepidazione e speranza, quel territorio di confine vuoto e indefinito, che
sembra sospeso tra visibile e invisibile, perché in esso lo sguardo si
confonde sempre, si perde alla ricerca incessante di un segno, di un barlume o
di un’ombra, di un piccolo movimento all’orizzonte. A causa della malattia,
Drogo è stato costretto a partire, a lasciare la Fortezza proprio quando i
Tartari sembrano finalmente arrivare. L’evento atteso e sognato da una vita –
quello che ha dominato ogni pensiero di Drogo, in quanto l’unico capace di
attribuire un senso al trascorrere degli anni – si manifesta proprio nel
momento del congedo, allorché è ormai troppo tardi. E nel XXX capitolo del
romanzo, quello conclusivo, il commiato diviene davvero speciale, è struggente,
non è un semplice andarsene, è qualcosa di più, qualcosa che richiede un
particolare moto dell’anima, un coraggio ulteriore. La sera è stupenda, dalla
finestra della camera entra aria profumata, e Drogo – confinato in quella
sperduta locanda, ormai solo al mondo – pensa alla «felicità per gli uomini
anche di media fortuna», e immagina la città nel crepuscolo, le giovani coppie
nei viali lungo il fiume, gli accordi di pianoforte provenire dalle finestre
accese, e poi il suo pensiero va al luogo della sua vita, alle lanterne della
Fortezza Bastiani che oscillano al vento, alla «notte insonne e meravigliosa
prima della battaglia». Egli si sente escluso per sempre, lontano da tutto e da
tutti, e per un attimo il pianto gli sale alla gola. Finalmente capisce che
deve fare i conti con la morte. Qualcosa di decisivo ora incombe su di lui. La vera battaglia
sta per cominciare, non si svolgerà nel deserto attorno alla Fortezza, ma
lì, in quella camera spoglia avvolta dalle ombre, dalla quale egli comprende
che «non si sarebbe più mosso». Ecco allora la consapevolezza che per lui sta
per giungere «la sua grande occasione, la definitiva battaglia che poteva
pagare l’intera vita». È l’ultima carta che resta da giocare a Drogo, l’ultima
occasione possibile per mostrare la propria dignità, anche se il combattimento
finale gli si rivela più duro di quello che un tempo aveva sperato, tanto che «vecchi
uomini di guerra preferirebbero non provare» quella sua solitudine così
estrema. Drogo esorta sé stesso ad andare incontro alla morte da soldato, e non
importa se nessuno lo chiamerà eroe o ne canterà le lodi, anzi, proprio per
questo egli dovrà dimostrare di varcare «con piede fermo il limite dell’ombra,
diritto come a una parata» e perfino sorridere, se ci riuscirà. Così, la morte
improvvisamente perde «l’agghiacciante volto, mutandosi in cosa semplice e
conforme a natura», e il tempo passato appare a Drogo di poca importanza: «quell’affannarsi
sugli spalti della Fortezza, quel perlustrare la desolata pianura del nord, le
sue pene per la carriera, quegli anni lunghi di attesa», tutto diventa per lui
quasi insignificante davanti alla «nera soglia» che lo attende.
Che cosa
sta accadendo a Drogo? Quale nuova e misteriosa consapevolezza si sta impadronendo
della sua anima? In brevi righe, Buzzati descrive la situazione. Sono pochi
particolari essenziali, ma molto intensi: l’oscurità nella camera si fa più
densa ed è difficile distinguere persino il biancore del letto; tra breve forse
dovrebbe levarsi la luna e Drogo non sa se riuscirà a vederla; la porta
«palpita con uno scricchiolio leggero» forse causato dal vento, un semplice
risucchio d’aria come può capitare in certe notti di primavera, oppure è «lei
che è entrata, con passo silenzioso». Ed
ecco la conclusione: «Facendosi forza, Giovanni raddrizza un po’ il busto, si
assesta con una mano il colletto dell’uniforme, dà ancora uno sguardo fuori
della finestra, una brevissima occhiata, per l’ultima sua porzione di stelle.
Poi, nel buio, benché nessuno lo veda, sorride».
È bene
sottolineare che Drogo non muore maledicendo, con la rabbia in corpo. Non
impreca contro il destino o altro. E nemmeno il suo atteggiamento pare essere
di spenta rassegnazione. In lui non c’è rancore, né accettazione passiva. A noi
lettori colpisce, alla fine, il suo sorriso. Come interpretarlo? Che cosa ci
rivela (o nasconde)? Quale muto segreto si porta con sé? È forse l’atto estremo
di una sfida solitaria e impossibile, inevitabilmente perduta, di fronte al
nulla, oppure qualcosa di più, l’apertura a un mistero che chiama, l’offerta
della propria esistenza ad una verità superiore?
Nel mio
saggio Il segreto e la morte nei romanzi
di Dino Buzzati, pubblicato nel volume citato all’inizio di questo
intervento, affermo che «Giovanni Drogo s’abbandona ad una sorta di nulla glorioso». È evidente come questa
espressione sia un ossimoro, che – a ben riflettere – contiene in sé le domande
sopraesposte, alle quali non intende dare una risposta precisa, ma mantenere
vive tutte le opzioni ad esse relative: il nulla (la morte) come annichilamento
totale, e il nulla (la morte) come passaggio verso un altrove che libera e
salva. Perché Drogo sorride? Vuole affermare semplicemente la nobiltà della
sconfitta, oppure comprende di andare incontro a una realtà più alta,
indicibile? Buzzati, giustamente, non aggiunge nient’altro. E credo proprio che
l’ambiguità di questo finale conferisca al romanzo un valore aggiunto. Tutta la
storia sarebbe stata più povera senza l’enigmatico sorriso di Giovanni Drogo.
Mauro
Germani
A proposito di Dino Buzzati, su questo blog: La lingua di Dino Buzzati