All’interno del pensiero cristiano è possibile individuare diversi presupposti teorici della cosiddetta via mistica. Se è vero che quest’ultima non può che sfuggire, nella sua essenza e nel suo manifestarsi, alle categorie filosofiche, in quanto le supera in una dimensione altra, che è al di là della ragione umana, è altrettanto inconfutabile che alcuni pensatori cristiani hanno elaborato le premesse concettuali di un approccio mistico al divino, cioè di un’ascesi contemplativa che, nei fatti, trascende poi ogni tipo di speculazione.
Per comprendere questo processo teorico, destinato a riconoscere alla fine il proprio stesso annullamento nell’esperienza ineffabile della mistica, bisogna risalire al neoplatonismo, il quale – com’è noto – ebbe un influsso non tanto secondario sulla Patristica ed oltre. Interessante è considerare, ad esempio, come il pensiero di Plotino (203-269 d.C.) – nato, tra l’altro, con l’intento di contrastare il cristianesimo – venga poi in qualche modo riassorbito dallo stesso pensiero cristiano, dopo la fine della filosofia greca, segnata dalla chiusura dell’Accademia ateniese nel 529 d.C., della quale Proclo (410-485) fu l’ultimo grande esponente.
L’Uno di Plotino – che a sua volta rimanda alla tesi platonica dell’unità ideale come principio unico della realtà – è da intendersi infatti come unità assoluta e indefinibile, tanto che «a parlare con precisione, non si deve dire di lui né questo né quello». Per Plotino, l’Uno non è l’essere e non è nemmeno il pensiero, perché antecedente a tutto: è piuttosto la causa, e non può essere colto mediante la ragione, ma solo in modo estatico, cioè attraverso un allontanamento della ragione da sé. Questa concezione ineffabile dell’Uno verrà in parte ripresa e rielaborata da Dionigi Pseudo-Areopagita, autore cristiano vissuto verso la fine del V secolo, che nella sua Theologia mystica ribadisce l’infinità trascendenza e superiorità di Dio: a Dio, che è causa, «più convengono forse le negazioni che le affermazioni», perché Egli è in tutto e al contempo separato da tutto. Dionigi riprende poi in termini cristiani la concezione degli intermediari tra Dio e il mondo, cioè gli esseri angelici che costituiscono una complessa gerarchia. Anche in Agostino (354-430) possiamo trovare alcuni elementi neoplatonici, da lui rielaborati in modo nuovo ed originale: si pensi alla sua concezione del tempo come distensio animae, che rimanda in parte a Plotino, o a quanto scrive nel De vita beata (386) e nei Soliloquia (387), dove l’anima, per arrivare alla comprensione di Dio e della verità, deve liberarsi dal mondo della sensibilità, cioè oltrepassare i limiti della corporeità.
È interessante notare come, molto tempo dopo, in Meister Eckhart (1260-1327), frate domenicano, e in Nicola Cusano (1401-1464), nominato cardinale nel 1448, vi siano riflessioni che rinviano al pensiero di Dionigi. Meister Eckhart afferma l’assoluta trascendenza di Dio rispetto all’essere e conseguentemente la nullità dell’uomo, il quale però può elevarsi grazie all’anima e a ciò che in essa «è increato ed increabile». Il suo è stato definito un misticismo speculativo, che utilizza la dialettica neoplatonica, ma al contempo si unisce ad un misticismo religioso, che mira all’unione con Dio. Dal canto suo, Nicola Cusano sostiene, nel De docta ignorantia (1440), che la verità di Dio non può essere espressa attraverso i concetti e che la si può avvicinare mediante la negazione di tutti i nostri modi di conoscenza. Dio può essere definito come coincidenza degli opposti, in quanto ciò che è finito ha il suo fondamento nell’assoluto: il mondo non è Dio, ma la sua esplicazione, mentre in Dio tutto è co-implicato. Particolarmente efficaci risultano le metafore del re ignoto e del volto di Dio, che troviamo nell’opera Idiota (1450): la prima indica che Dio è entità assoluta, sommo esemplare, ma inconoscibile in sé; la seconda rimanda all’espressione biblica secondo cui il volto di Dio non lo possiamo vedere direttamente.
Nonostante queste relazioni tra pensiero greco e cristianesimo, è importante sottolineare – all’interno della tensione fra «Atene e Gerusalemme», per dirla con il filosofo russo Lev Ŝestov (1866-1938) – la svolta fondamentale e rivoluzionaria operata dal messaggio cristiano, che introduce un radicale cambiamento rispetto a quanto espresso dalla cultura greca per quanto concerne la concezione della storia, della divinità, dell’uomo, del dolore e del male, inserendoli in una prospettiva di salvezza: si pensi, ad esempio, nella dottrina cristiana, alla cesura tra i tempi, che spezza la continuità circolare, o alla fede in un Dio creatore, trascendente e libero, che si fa uomo e muore in croce per la salvezza di ogni essere umano. Il cristianesimo non è una filosofia, ma è chiaro che la sua provocazione non ha smesso e non smette di suscitare problemi e dibattiti nell’ambito del pensiero. C’è in esso qualcosa di inesauribile che inquieta e al tempo stesso attrae.
Come già menzionato all’inizio di questo intervento, le riflessioni dei filosofi a cui abbiamo accennato non si esauriscono in se stesse, perché in realtà rimandano a ciò che va oltre le loro medesime formulazioni. La speculazione incontra qui un limite, qualcosa per cui il pensiero e la parola sembrano arretrare per lasciare spazio ad altro ed accogliere ciò che non è più dicibile ma che può essere esperienza. È quanto hanno vissuto nella propria carne tutti i veri mistici, ai quali oggi pochissimi fanno riferimento.
Mauro Germani