Alexander Lernet-Holenia, Lo stendardo, Adelphi 2014
Ad una lettura
superficiale, questo romanzo di Alexander Lernet-Holenia (1897-1976),
pubblicato nel 1934, potrebbe sembrare una storia avventurosa e romantica ambientata in un contesto storico ben preciso,
quello della prima guerra mondiale. In realtà il libro è una narrazione che
viene scossa da improvvisi lampi metafisici e da un incombente senso di fine e
di disfatta. La componente avventurosa si rivela puramente esteriore, perché sottende
altro: non solo il disfacimento dell’impero
asburgico, ormai prossimo alla rovina, tra le varie etnie di soldati lungo il
fronte balcanico, ma anche la vicenda del protagonista, l’alfiere Menis, che si
trova a vivere un’esperienza destinata a segnarlo per sempre. Egli scoprirà segretamente
le proprie passioni e al tempo stesso il filo nascosto che lega la vita alla morte.
In questo romanzo del tramonto,
infatti, i morti – con le loro figure, le loro uniformi e le loro voci –
irrompono improvvisamente, in brevi ma significativi passaggi, che sono memoria
e premonizione insieme: «la folla di coloro che erano venuti pur non potendo
più venire, l’esercito invisibile dei caduti e dei dispersi, un esercito
glorioso, rutilante di uniformi e sfavillante di decorazioni. […] Perché il
vero esercito non è fatto dei vivi, bensì dei morti».
È interessante notare come ciò che capita al protagonista sia in conflitto con ciò che sta preparando la Storia: la fine di un impero con i suoi ideali e la sua antica gloria. Menis è costretto a partecipare incredulo alla catastrofe imminente. Proprio nel momento in cui tutto precipita e l’esercito è allo sbando, tra ammutinamenti, rivolte e stragi, egli sente ancor di più dentro di sé l’attaccamento alla patria, come una chiamata a cui non può non rispondere. Ed è lo stendardo a rivelargli questa fedeltà e questa obbedienza. All’inizio gli appare come «uno straccio stinto che mandava qualche luccichio di ricami metallici ormai opachi», ma poi ne resta impressionato, quando apprende che avrà più di centocinquant’anni e rappresenta «la gloria insanguinata» di tutti coloro che avevano perduto tutto per difenderlo. Così, guardando la mano di chi lo porta, immagina «di vedere anche tutte le altre mani, calzate di spettrali guanti bianchi alla moschettiera, […] quelle dei morenti che se lo erano lasciato sfuggire e quelle che si erano protese per afferrarlo al volo, tutto un groviglio di mani che avevano tenuto alta una sola cosa: l’onore».
Nel corso della narrazione la
passione per lo stendardo si rivelerà per Menis ancora più forte rispetto a
quella per Resa, bellissima donna per la quale non esisterà a compiere audaci
imprese. Dopo avere avuto l’onore di diventare egli stesso alfiere dello stendardo e dopo la sconfitta dell’impero,
egli si renderà conto di avere vissuto, più che per la donna amata, per quell’antico
e glorioso drappo con l’aquila bicipite. Non solo. Capirà che una guerra, anche
se finisce, non finisce mai del tutto per chi l’ha combattuta, e che molte cose
che gli erano accadute gli restavano in fondo oscure, tanto da pensare: «E
perché mai, in momenti così eccezionali, l’invisibile non potrebbe essersi
insinuato davvero, e con maggiore evidenza del solito, dentro il visibile,
governandolo, e governando tutti noi che assistevamo alla fine dell’Impero?».
Tutto in questo romanzo avviene in un’atmosfera sospesa, come se fosse eccezionale, come se da un momento all’altro dovesse esserci una rivelazione. L’apparizione dello stendardo, gli incontri tra Menis e Resa, le cavalcate notturne, le battaglie, le fughe, la solitudine dopo la sconfitta, ci appaiono come momenti di un sogno enigmatico, di qualcosa di misterioso che avviene lungo un confine incerto. A ben vedere, anche gli altri personaggi recano in sé aspetti oscuri: basti pensare alla figura profetica di Hackenberg, a quella sfuggente di Charbinsky, o a quella tormentata di Anschütz, per citarne alcuni. Lernet-Holenia ci fa sentire ogni volta – con tocchi sapienti – l’ importanza del mistero in noi e attorno a noi.
A proposito del vecchio Hackenberg, egli scrive che aveva avuto «il compito di rendere visibile
il nesso tra gli avvenimenti, mentre nell’ambito dell’invisibile il Reale si
compiva». Le stesse parole potremmo usarle anche noi per lo scrittore
austriaco.
Mauro Germani