Salvatore Satta, La veranda, Ilisso, 2002
La veranda è il primo romanzo di Salvatore Satta (1902-1975), scritto tra il 1927 ed il 1928, ma pubblicato solo nel 1981 da Adelphi, dopo la fortuna critica che venne riservata a Il giorno del giudizio (Adelphi, 1979).
Da molti considerato l’equivalente
italiano della Montagna incantata (1924)
di Thomas Mann, il libro (che venne presentato nella sezione inediti al Premio
Viareggio, senza incontrare il favore della giuria, nonostante l’apprezzamento
di Marino Moretti, che si prodigò inutilmente per premiarlo) è ambientato in un
sanatorio isolato tra le montagne alpine, dove si trova l’io narrante, un
giovane avvocato, improvvisamente colpito dalla tisi. È in questo universo
chiuso, dominato dall’incubo della malattia, in un’atmosfera sospesa tra
speranza e attesa della fine, tra ricerca inutile dell’oblio ed angoscia
insopprimibile, che Satta consegna al lettore personaggi-emblema di una
separazione: quella dal tempo e dal mondo dei sani, circoscritta in un luogo allontanato, nel quale ogni
sentimento diviene più acuto, ogni pensiero contemporaneamente più fragile e
più potente, in una strana mescolanza di realtà ed allucinazione. Se la prima
parte del romanzo è più corale, in quanto presenta in brevi capitoli le voci
dei malati che si alternano nella veranda durante le ore di sdraio, come
fossero di fantasmi che assediano il protagonista con le loro ossessioni, la
seconda parte risulta più intima e rivela la condizione esistenziale del
protagonista. È infatti proprio qui che egli, nella sua solitudine, cerca di
comprendere meglio sé stesso, confortato dalla presenza di suor Paola, angelo
di purezza in quella comunità dolente e talvolta degradata (uno dei ricoverati arriverà a suicidarsi, sopraffatto dalla solitudine e dalla cattiveria gratuita dei compagni). Così, a poco a
poco, in lui si fa risentire con forza il richiamo della vita, rappresentato
dal sentimento d’amore platonico che prova verso «la bionda signora del n. 12»,
a cui affida il suo sogno di riscatto, mediante sguardi, attese, speranze, in
una dimensione spirituale che sa di assoluto e sembra trascendere la realtà
contingente: «Il mio cuore batte su queste tranquille rovine. Odo dal profondo
il palpito ignoto, e su per le vene, le fibre, un fluire incessante, come di
linfa da lontane radici. Sono la pianta immortale del mio morto giardino». In
questa situazione, al tempo stesso rarefatta e vitale, il protagonista pensa al
mondo da cui è separato in modo nuovo, con una strana dolcezza, e può
accostarsi con l’immaginazione ai lumi che si accendono «nelle case degli
uomini, sulle mense raccolte».
Piuttosto significativo si rivela
l’incontro con Melanzana, personaggio che vive da anni nel sanatorio come un
sopravvissuto dimenticato dal destino ed attratto irrimediabilmente dal nulla e
dalla fine: «Tutto ciò che ha sapore di morte va acquistando un’attrazione
sempre più invincibile nel mio cuore. Quando so che qualcuno sta per andarsene,
io mi fermo lì accanto delle notti, fino a che posso non chiudere gli occhi». Non
a caso, contro di lui, ad un certo punto, si scaglia il protagonista, forse
intuendo inconsciamente che quell’uomo rappresenta in fondo la sua anima oscura:
«Come egli non capiva che nel mondo tutto soggiace a una legge, ignota quanto
si vuole, misteriosa quanto si vuole, ma indubitabile, la legge per la quale
nessun essere è stato ed è mai vanamente creato, per la quale ciascuno,
consapevole o inconsapevole, serve ad un fine, e rientra per questo nell’ordine
universo delle cose?». E quest’anima oscura fu certamente anche di Salvatore
Satta, se pensiamo al suo pessimismo nei confronti degli uomini e della storia
(«L’umanità è il demonio che Dio non riesce a distruggere», ebbe modo di
scrivere), unito però ad una religiosità che Remo Bodei ha definito «severa ed
arcaica, spesso più vicina a quella dell’Antico Testamento che non a quella del
Nuovo», e dominata dall’attesa del giudizio finale, perché «forse la vera e
sola storia è il giorno del giudizio».
Il rapporto misterioso tra la vita e la
morte è al centro di tutto il romanzo e spesso viene vissuto in maniera
contraddittoria. È interessante notare come la vita assuma connotazioni diverse
proprio in funzione della morte. Quando la signora del n. 12, dopo un
pneumotorace, viene considerata prossima alla fine, il protagonista dapprima si
dispera, poi non vuole più che ella non muoia, perché «la morte è pace,
liberazione, infinito». Il protagonista
sente che la propria vita potrà avere senso e giustificazione grazie alla
lontananza di lei, al suo riflesso sulla terra. L’imprevista sopravvivenza
della donna, insieme all’incontro che ci sarà per la prima volta tra i due,
rivelerà allora nelle parole pronunciate da lei l’assurdità dei sogni passati.
Così, guarito ormai dalla tisi, il protagonista dovrà affrontare una nuova
realtà dopo il congedo dal sanatorio: ad attenderlo, dopo due anni, la città di
Milano, sulle cui case «s’è distesa una patina bigia, un misto di polvere, di
fumo, di umido». I suoi nervi sembrano disabituati a reggere il contatto con il
mondo e con gli uomini, tanto che si chiede se non ci sia più qualcosa nella
vita che vibri davvero con la sua anima. Che ne sarà di lui, dopo l’incontro
casuale con un amico?
Salvatore Satta non dà indicazioni, ma
consegna al lettore lo strano e malinconico stupore del protagonista, che
cammina solitario nella notte sotto la pioggia: «Sono solo, sono sveglio, sono
vivo». E un’automobile che passa con furia lo inzacchera tutto di
fango.
Mauro Germani