Lo
specchio attento di Silvio Raffo, scritto quando
l’autore aveva poco più di vent’anni, è un romanzo che a poco a poco trascina
il lettore in una zona indefinita, in cui apparenza e realtà, finzione e verità
diventano quasi indistinguibili. Si tratta – come ha scritto Pietro Citati – di
«un piccolo gioiello del fantastico-visionario, genere quasi ignorato dalla
narrativa italiana», dove il tema del doppio
si manifesta come l’altro che
rivendica la propria dimensione oscura e segreta, fino a sconvolgere ogni
consueto approccio al reale. Come in un abile gioco di specchi, si ha a volte
la sensazione, durante la lettura, di un vero e proprio ribaltamento in cui è il visibile, la cosiddetta realtà, a perdere consistenza e a trasformarsi
magicamente nel riflesso di qualcos’altro, cioè di una dimensione arcana ed
inquietante.
È quanto succede a Giorgino, un ragazzo
taciturno, privo di amici, dotato di una sensibilità fuori dalla norma, che
vive in simbiosi con la madre, la quale esercita su di lui un fascino
straordinario. Nel rapporto tra i due c’è qualcosa di assoluto, una sorta di
misteriosa dipendenza reciproca, di complicità spirituale, che li lega
indissolubilmente. Il giovane, che frequenta il liceo classico, ha il dono di
un’immaginazione assai fervida e sovente incontrollabile, una predisposizione
all’invenzione e al sogno, di cui non può fare a meno. Così, per vincere la
solitudine e la monotonia quotidiana, e fuggire da un mondo che gli risulta
estraneo, inizia a creare dentro di sé un personaggio che a poco a poco si
impossesserà della sua anima: Ester. Sarà proprio Ester a diventare sempre più
importante per Giorgino: egli parlerà spesso con la voce di lei, ne condividerà
gesti e sentimenti, in un processo creativo sempre più preciso, dettagliato e
autonomo, tanto che l’invenzione sembra perdere la sua dimensione fantastica e
divenire sempre più reale.
Quali sono, infatti, i confini tra
realtà e immaginazione? Silvio Raffo è molto abile nel confondere i piani,
suscitando nel lettore non solo spaesamento, ma anche curiosità e attesa per lo
sviluppo della vicenda. Chi racconta è Giorgino, che si prefigge lo scopo di fare
ordine e luce nella sua storia, perché solo così – come egli dichiara – potrà
vincere il suo male. Ma di che male si tratta? Ed è poi veramente un male?
Certo, il giovane, fin dall’inizio della storia, appare scisso dalla realtà,
come se vivesse ai bordi del nulla, tuttavia a ben vedere egli è soprattutto un
essere abitato dalla poesia o comunque da una dimensione altra che lo chiama e
lo possiede, che gli conferisce il potere
della creazione. Intorno alla figura di Ester, infatti, costruisce una
storia, con tanto di delitto, che può anche essere letta come una sorta di
romanzo nel romanzo. Non a caso, poi, Giorgino subisce il fascino irresistibile
del giardino dei poeti presso la villa della zia inglese Maud a Portofino: un
luogo magico e segreto, dove vi erano i busti di Byron, Shelley e Keats, che «si guardavano interrogativamente,
anzi guardavano il vuoto, giacché erano sistemati a triangolo». Proprio lì il
giovane ama disporsi a lato di John Keats e, «per fargli compagnia», recita i
versi del poeta; così con la sua presenza il triangolo diventa un quadrato.
Quelle figure solitarie rappresentano per lui un ideale di perfezione di cui la
realtà è priva.
La passione di Giorgino per la poesia
(e per la letteratura in genere) risulta assai importante per comprendere il
romanzo. Essa ne rivela non solo l’aspetto autobiografico (si pensi, ad
esempio, alle citazioni di Emily Dickinson, della cui opera Raffo è stimato
traduttore ed interprete), ma anche un’impronta di formazione, iniziatica
quasi, come se tutta la vicenda narrata fosse in qualche modo metafora di ciò
che in fondo è alla base di ogni atto creativo. La vita di Giorgino sembra
avere consistenza solo nel suo immaginario, nella sua appartenenza ad altro, ai
fantasmi che lo abitano. Il suo gioco iniziale ha dato corpo ad un mondo che si
è rivelato con la sua misteriosa urgenza. Non è ciò che accade ad ogni artista?
Non c’è forse uno sdoppiamento in chi scrive? I versi poetici non sono sempre dettati? E chi narra una storia non vive
forse nelle storie altrui? Poeti e scrittori conoscono bene il fascino ed il rischio
del nulla, il loro destino è legato all’assenza e al vuoto, proprio come capita
a Giorgino. Nella conclusione del romanzo, infatti, sembra che il nulla abbia
il sopravvento. Ma di quale nulla si tratta? Forse significa per il giovane
protagonista la fine dei suoi giochi d’identità, il superamento di una fase
della sua crescita, l’affrancamento dalla madre e da Ester, e la possibilità di
abbandonare un mondo per entrare in un altro. Un nulla necessario, quindi, come
per chi si affida all’atto misterioso dello scrivere e – sull’orlo di un abisso
– è pronto ad accogliere ogni volta la parola.
Mauro Germani