Franco
Riva, La domanda di
Caino. Male, Perdono, Fraternità,
Castelvecchi, 2016
Al
centro di questo libro di Franco Riva, docente all’Università
Cattolica del Sacro Cuore di Milano, vi è la strana domanda di
Caino: «Sono forse io il custode di mio fratello?», che troviamo
nell’Antico Testamento. Come interpretarla? È solo un tentativo di
fuga, un modo di non rispondere alla domanda di Dio: «Dov’è
Abele, tuo fratello?», oppure implica altro? È opportuno, inoltre,
aggiungere che, prima della domanda suddetta, Caino afferma di non
sapere dov’è suo fratello. Che cosa egli davvero non sa?
Insieme
a questi interrogativi, Franco
Riva mette in luce il concetto di responsabilità, che è insito
nella parola custode
utilizzata da Caino. La
stranezza delle parole di Caino consiste
nel fatto che esse dicono di una responsabilità al contrario,
tenendo insieme «tutto
e il contrario di tutto: vita e morte, sapere e non sapere, fratelli
e nemici, fratelli e responsabili, uomo e uomo, uomo e Dio, male e
bene, violenza e vendetta, colpa grave e giustizia, imperdonabile e
perdono».
Sta di fatto che la domanda
di Caino, secondo Riva, «non
è più dimenticata perché risuona per la prima volta la parola
delle parole, la responsabilità per altri. Non è più dimenticata
perché proibisce di parlare di “umanità” (di “fraternità”)
al di fuori di un farsi responsabili». Si tratta di una
responsabilità che è legata all’umano, nel senso che è
antecedente all’umanità, in quanto il «non so» di Caino ci
rivela che non si può sapere nulla di umano prima di essere
responsabili. Ed è proprio la riflessione su questo punto che induce
l’autore a trattare, in modo molto radicale e al tempo stesso per
nulla dogmatico, tre temi cruciali della nostra esistenza, tre nodi
difficili da districare, segnati come sono da ossimori, ambiguità e
contraddizioni: il male, il perdono, la fraternità, che a ben
vedere, convivono enigmaticamente nella domanda di Caino.
Nel suo
percorso, Franco Riva si avvale di numerosi riferimenti sia letterari
(Cervantes, Dostoevskij), sia filosofici (Arendt, Buber, Derrida,
Jankélevitch, Jonas, Kierkegaard, Lévinas, Marcel, Ricoeur,
Schmitt), mediante una scrittura attenta e incisiva, ma soprattutto
evidenziando la complessità di tali problematiche, che invece
sovente sono vittime di banalità e semplificazioni.
A
proposito del male, Riva ritiene che occorre affermare la sua realtà («Bisogna
smetterla di dire che il male non esiste»).
Il male c’è, si può e si vuole. Non è qualcosa di astratto, né
un incidente o un’eccezione all’interno della storia dell’uomo
e del mondo. Quando si tenta di spiegarlo e di giustificarlo, «viene
ridotto a un’idea di tecnica», qualcosa di non funzionante nella
macchina del mondo, «qualcosa di riparabile, di aggiustabile». Il
male invece è qui, è nel volto ferito di chi soffre, «mio
o degli altri. Degli altri soprattutto».
Anche le grandi elaborazioni teoriche rischiano di oscurare la realtà
del male. Se da un lato c’è «una filosofia rassegnata del
pessimismo», dall’altro c’è «una filosofia bonaria
dell’ottimismo che lavora soltanto, chissà se per motivi
esortativi o rassicuranti, sullo sbiancamento della notte del male».
Ma il male non si riduce, si incontra, e di fronte a esso «non
tiene né il pessimismo né l’ottimismo». Nel faccia
a faccia
con il male
allora c’è posto per la pietas
nei confronti del volto ferito, c’è la condivisione e c’è la
compassione. Pensare il male in modo autentico significa sottrarlo al
«ripiegamento intimistico» e pronunciare non solo l’aggettivo
mio,
ma anche nostro.
Afferma Riva:« Le teorie e le teodicee servono anche, mentre
spiegano e giustificano, a distrarre da questo male che è nostro».
E aggiunge: «Male nostro, male irriducibilmente sociale e politico:
nostro come la “speranza”. Male suscitato non così lontano da
dove siamo noi. Male mai giustificato». Ecco allora che il discorso
relativo al male è attraversato dalla responsabilità, che vuol dire
comunione, nel senso di uscire dal proprio centro, nella
consapevolezza che il male nel suo paradosso «annuncia una morte
mentre ricorda la vita» e «dice la vita mentre testimonia una
morte». Questo carattere aporetico del pensiero sul male non deve
pertanto significare una rinuncia, perché «il fatto di non
comprendere il male invita al contrario a ripartire con maggior forza
e vigore con un pensare diverso. L’aporia infatti non è un punto
d’arresto, un pantano, ma una conquista». Ciò che Franco Riva
sottolinea è che il male «non può/non deve ritrovarsi a essere
pienamente giustificato», se vogliamo che esso non abbia l’ultima
parola.
Per
quanto riguarda il secondo tema, cioè quello del perdono, viene
affermato che «la lotta del perdono è una battaglia per la
libertà», perché è la lotta per la speranza quando sembra vincere
la disperazione. Kierkegaard in La
malattia mortale sostiene
che la disperazione della remissione dei peccati deriva dalla
coscienza di chi si trova nell’angoscia per il bisogno di perdono,
ma rifiuta lo scandalo del perdono. Del resto, se da un lato è
importante la coscienza del male, dall’altro è anche vero che «il
perdono è difficile perché sta – se sta – nella ferita, nel
faccia a faccia di una vittima e di un colpevole». Non solo. Riva
afferma che «si perdona solo ciò che è imperdonabile» e che
«quando il perdono è possibile diventa impossibile e quando sembra
impossibile si fa possibile». Non è un gioco di parole. Se il perdono è facile o scontato,
non è più perdono, in quanto «un perdono leggero è complice del
male». Questo perché perdonare non significa giustificare il male e
la colpa: ciò che è stato fatto resta e deve restare. Il perdono
non giustifica nulla e ha il coraggio di porsi di fronte al male. Non è un semplice dono. Mentre il dono rientra in qualche modo nella logica dello scambio,
del corrispondere, il perdono sancisce «un’asimmetria
insormontabile». Interessante è anche quanto viene scritto sul modo
linguistico del perdono, in cui «avanzano parole incommensurabili
come sono quelle della confessione e dell’assoluzione. […] La
parola del perdono è radicalmente diversa perché non compete a
tutti nello stesso modo. Un conto è confessare, un altro assolvere.
Un conto chiedere perdono, un altro concederlo». Questa sproporzione
tra le parole include anche il silenzio, che si riferisce al male
commesso: esso in realtà è molto più forte delle parole
pronunciate troppo in fretta, a volte ipocritamente, come scusanti.
«Il perdono è la libertà nuda» afferma Riva, non ha logiche di
convenienza e scaturisce dal farsi prossimo, in quanto – come
sostiene Lévinas – «farsi responsabili dell’altro è l’unica
condizione per cui nel mondo ci può essere pietà, compassione,
perdono e prossimità». E alla fine del capitolo viene citata la storia esemplare di Delitto
e castigo
di Dostoevskij.
L’ultimo
tema è quello della fraternità, che è strettamente connesso ai
precedenti. Essere fratelli vuol dire essere responsabili? No, si può
essere fratelli senza essere responsabili, come ci insegna la storia
di Caino. Caino dice di non sapere, non sa dove si trova suo
fratello, né sa qualcosa sulla responsabilità. La verità è però
che la domanda di Caino non resta nel vuoto. Ci interpella, ci chiede
cosa sia veramente la fraternità e cosa significhi essere
responsabili. Inoltre è da rilevare che tale domanda non è
impersonale, non parla di un noi generico, ma dice io.
L’uso di questo pronome è importante perché
significa che a essere responsabile è un io, cioè che la
responsabilità è prima di tutto personale e in tal senso dona
all’io un nuovo significato. Secondo Lévinas, infatti, «la
parola Io
significa Eccomi,
rispondente di tutto e di tutti»:
sono sì unico e irripetibile, ma solo nella responsabilità per
l’altro.
Franco Riva scrive che «nel mito biblico la fraternità
sorge insieme alla responsabilità e sprofonda in una domanda che
resta aperta. Non perché non abbia risposta, ma perché tenere
aperta la domanda è la sua vera risposta», facendo però attenzione
che «la morte non sia più forte, non sia in nome della stessa
fraternità», come spesso è accaduto e accade.
Per concludere, la lettura di questo libro, che contiene innumerevoli spunti e interrogativi oltre a quelli qui indicati, è assai raccomandabile in un mondo in bilico come il nostro, in cui il prossimo è spesso considerato un nemico da abbattere e la parola responsabilità sembra scomparsa.
Mauro
Germani