lunedì 28 luglio 2025

Léon Bloy - Il disperato

Léon Bloy, Il disperato, Edizioni Paoline, I ed. 1959, II ed. riveduta e integrata 1977

Romanzo autobiografico e, al contempo, anomalo, multiforme, furioso e visionario, Il disperato (1887) di Léon Bloy (1846-1917) contiene i grandi e complessi temi che caratterizzano l’opera dello scrittore francese: il simbolismo della storia e delle lacrime (appreso dall’abbé Tardif de Moidrey), lo scontro con il mondo in nome di una fede lacerante, la decadenza religiosa della propria epoca, gli assalti del male e la vocazione al martirio, l’ansia escatologica, la povertà come segno e mistero cristico, la disperazione come grido e ricerca di santità. Il cristianesimo di Bloy è una sfida alla modernità, alla vita comoda e all’ipocrisia: è intriso di sangue e di sacrificio, è eroico nella sua sfida al male e alle tenebre, sempre sull’orlo della solitudine e dell’estremo abbandono, ma aspira tenacemente alla verità promessa, alla redenzione eterna. È un cristianesimo senza pace, perché la pace per Bloy non può essere di questo mondo, ed è inoltre intransigente, perché le Sacre Scritture non lo sono. Tuttavia, in mezzo alle invettive, agli eccessi, alle deformazioni della cronaca e della storia, è rinvenibile, nelle pagine dello scrittore, una spiritualità dolce, un misticismo che trapassa l’orrore della putredine, del peccato e del male. Perché lo sguardo di Bloy è comunque sempre oltre, pur segnato dalla sofferenza e dal dolore. Anzi, la tribolazione risulta necessaria per la via celeste, è propria di chi diviene ultimo tra gli ultimi, come Cristo, che è il vero agonizzante e il vero povero, colui che continua a morire sulla croce per noi. 

Il protagonista del romanzo (presente anche nel secondo romanzo di Bloy La donna povera, in un ruolo non di primo piano, ma pur sempre alter ego dell'autore) è un personaggio oppresso dall’angoscia («Era uno di quegli esseri miracolosamente fatti per la sventura»), uno scrittore solitario in lotta con il mondo e con l’ambiente letterario che lo circonda, un’anima infelice, divisa tra amore e disperazione, assetata di assoluto, che sa essere feroce nei confronti di una società che disprezza profondamente. Assediato da un passato tumultuoso, trafitto da una conversione radicale, che lo spinge a un’espiazione continua, egli non può che essere un dilaniato, un duellante dello spirito, un combattente folle, un incompreso dai più. La sua esistenza è sempre sull’orlo dell’abisso, esposta a un destino avverso, ai margini di una società crudele e chiusa in sé stessa, dominata dal denaro, dalla falsità e dall’arrivismo. Il nome che porta, Caino Marchenoir, è il segno inequivocabile della propria disperazione («Marchenoir era nato disperato») e di una duplicità inquietante: Caino gli viene attribuito per sfida dal padre – piccolo borghese massonico, «adoratore di Rousseau e di Beniamino Franklin», che sarà sempre fortemente contrario all’inclinazione letteraria del figlio – , mentre la madre, spaventata, si affretta a farlo battezzare come Giuseppe-Maria; il nome malefico di Caino resterà nel registro dello stato civile e gli rimarrà pertanto addosso per tutta l'esistenza. Vivendo nella perpetua povertà, ma chiamato costantemente dal proprio martirologio e convinto che il Caso non esiste («la parola Caso era per lui un’intollerabile bestemmia, che si meravigliava di trovar sempre sulle bocche dei sedicenti cristiani»), s’imbatte in creature bisognose d’altro, cioè d’amore, donne perdute che misteriosamente si sentono attratte da lui e dalle quali anch’egli è attratto, nell’offerta di sé e del bene che nonostante tutto continua a gridare nel suo cuore. 

Tra queste occupa un posto di straordinario rilievo Veronica Cheminot, ex prostituta (che si riferisce chiaramente ad Anne-Marie Roulé con cui Bloy vivrà per qualche anno, prima di sposarsi con Jeanne Molbeck) del quartiere latino, conosciuta col nome espressivo di Ventosa, «splendida plebea che dieci anni almeno di prostituzione su venticinque non avevano potuto sciupare» e che «era stata vista vendersi in tutte le pescherie della lussuria, pendere a tutti gli uncini della grande tripperia del libertinaggio». Eppure questo «rifiuto di ragazza, seminata e raccolta nella spazzatura […] si era trasformata d’un tratto, per la miracolosa occasione del più profano amore, in un giglio dai petali di diamante e dal pistillo d’oro, brunito dalle più splendide lacrime che mai siano state versate». Ecco allora che Veronica diviene, sotto gli occhi di Marchenoir, un’altra persona, non solo pentita della miseria del suo passato, ma incarnazione di una spiritualità sconvolgente e di una purezza e di una semplicità assolute. La convivenza tra loro sarà sempre casta, anche se Marchenoir sarà tormentato dalle tentazioni della carne. Per questo, per umiliarsi sempre più e per espiare quanto accaduto nella sua vita precedente, Veronica sceglierà l’atto estremo, la folle mutilazione. Mentre Marchenoir si trova in ritiro alla Grande Certosa (di cui Bloy tesse un’accorata apologia, narrandone con passione la storia), la donna compie il «fatto orrendo», decidendo di sfigurarsi: si sbarazza prima dei propri capelli, poi si fa cavare tutti i denti, senza un anestetico efficace, da «un piccolo giudeo bisognoso, che viveva di venti mestieri più o meno sospetti» e che «per due franchi avrebbe pulito con la lingua un tavolo dell’obitorio». 

Pagine terribili sono dedicate all’esecuzione dell’atroce intervento, durante il quale Veronica prova un dolore tremendo e perde i sensi «Quando la mascella superiore fu completamente sguarnita, il carnefice dovette fermarsi. La sventurata aveva perduto conoscenza e si contorceva tra spasimi. Dovette rianimarla, ristagnare il sangue che sgorgava a fiotti, arrestare l’emorragia, calmare i nervi, cose tutte familiari a quell’onnisciente della bassa chirurgia». È questo un momento centrale del romanzo, che prosegue alternando la nuova tragica prova a cui Marchenoir è sottoposto a riflessioni sulla «Chiesa incarcerata», sull’arrendevolezza dei cattolici e sulla masnada di giornalisti e letterati parassiti del tempo, fino all’«ultima catastrofe»: la follia di Veronica e l’incidente di cui Marchenoir rimane vittima. Il destino di quest’ultimo si compirà nella solitudine assoluta, senza nemmeno il conforto dei sacramenti tanto desiderati. 

La sorte avversa, la passione, il dolore, l’angoscia del protagonista si configurano come le tappe di un calvario che non smette però di guardare all’assoluto, di sentire nell’anima qualcosa di ardente, una luce dentro la disperazione. Leggere questo romanzo sui generis, all’interno del quale non troviamo solo la narrazione di una vicenda, ma anche la riflessione storica, morale e teologica, secondo la veemenza e la visionarietà tipiche di Lèon Bloy, è in realtà un’avventura dello spirito, un impatto esistenziale da cui comunque (e per fortuna) non si esce immuni.

Mauro Germani

A proposito di Léon Bloy, su questo blog: 

Storie sgradevoli

La donna povera

Leon Bloy - Pensieri