Da
sempre l’opera di Kafka (1883-1924) ci interpella e ci inquieta. Le vicende di
Gregor Samsa (La metamorfosi), di
Georg Bendemann (Il verdetto o La condanna), di Karl Rossmann (Il disperso o America), di Josef K. (Il
processo), dell’agrimensore K. (Il castello)
e dei protagonisti senza nome di racconti come Nella colonia penale, Un
digiunatore, La tana ed altri
ancora, agitano la nostra anima. Qual è il loro mistero? Che cosa ci
trasmettono? Il senso di smarrimento o di sgomento che proviamo non diminuisce
poi davanti all’uomo Kafka, alla sua vita enigmatica, anzi sembra addirittura
accrescere. Chi era veramente? Pietro Citati lo presenta come un essere «in
fuga dall’esistenza», col suo «passo veloce, lievemente curvo, il capo un po’
inclinato, ondeggiando come se folate di vento lo trascinassero ora da una
parte ora dall’altra della strada», tanto che sembrava irreale, «soltanto una silhouette ritagliata nella carta velina
gialla […], soltanto un’ombra che non faceva rumore, che nessuno vedeva». Certo
è che quest’uomo assente e solitario, che scriveva nella notte fino alle prime
luci del mattino, posseduto da un demone invincibile e feroce, ci ha lasciato
romanzi e racconti oggetto delle più svariate interpretazioni, come un universo
oscuro e al tempo stesso vicino, in cui ciascuno può trovare una parte di sé e
del mondo. Ciò, naturalmente, non deve essere considerato un limite, ma – al
contrario – un valore aggiunto, tipico delle opere dei grandi scrittori, nelle
quali è possibile ravvisare una polivalenza di significati, tutti – almeno in
parte – pertinenti.
Maurice
Blanchot ha sottolineato come ogni tema in Kafka ha «la possibilità misteriosa
di apparire ora in senso negativo, ora in senso positivo»: il mondo che si
manifesta nelle pagine dello scrittore «è un mondo di speranza e condannato, un
universo chiuso per sempre e infinito, l’universo dell’ingiustizia e della
colpa», e cita le parole dello stesso Kafka a proposito della conoscenza
religiosa:« La conoscenza è al tempo stesso gradino che porta alla vita eterna
e ostacolo eretto davanti a questa vita». Questa ambiguità fu certamente motivo
di lacerazione interiore per lo scrittore. Basti pensare al rapporto che ebbe
non solo con Felice Bauer, con Milena Jesenskà, con Dora Diamant, ma anche con
la scrittura. Se da un lato cercava la propria salvezza nel matrimonio, nella
sua particolare sacralità celebrata
dall’Ebraismo, dall’altro ne aveva orrore, constatando un’estraneità alla vita
che lo portava inesorabilmente alla letteratura, di cui non poteva fare a meno.
«Dio non
vuole che io scriva, io invece, io devo» confessò all’amico Oskar Pollack. Da
queste parole, scritte a soli vent’anni, sembra emergere già quel senso di
esclusione e di colpa che non abbandonò mai Kafka, e – come afferma Marino
Freschi – una concezione della letteratura «vissuta come un duplice sacrilegio,
come peccato luciferino di superbia, come una colpa che schiaccia l’individuo
che avverte in sé, perfino attraverso l’istinto e le pulsioni originarie, il
richiamo della Legge. Paradossalmente l’ascetismo, richiesto dall’arte, è la
trasgressione del comandamento divino». E non stupisce, a questo punto, la
volontà di Kafka, espressa all’amico Max Brod, di distruggere gran parte di ciò
che aveva scritto.
Certamente
nell’opera dello scrittore praghese il tema della grazia e della salvezza non è
secondario, ed appare indissolubilmente legato al peccato e alla colpa. Secondo
Hans-Jachim Shoeps, negli scritti di Kafka è presente «una teologia apostatica
che non ammette la salvezza, ma la va ricercando disperatamente». Invece Albert
Camus, paradossalmente afferma che proprio dal riconoscimento dell’assurdità
dell’esistenza può nascere «un po’ più di sicurezza sulla realtà soprannaturale.
Se il cammino della vita sfocia in Dio, vi è dunque una via d’uscita; e la
perseveranza, l’ostinatezza con cui gli eroi di Kafka ripetono i loro itinerari
sono una singolare garanzia del potere esaltante di questa certezza». Camus
prende a prestito qui il pensiero di Kierkegaard, autore studiato e molto amato
da Kafka: «Si deve colpire a morte la speranza terrestre, e solo allora ci si
salva con la speranza vera»: si può così comprendere che «bisogna aver scritto Il processo per porre mano al Castello». A proposito, poi,
dell’approccio di Kafka con la realtà, Ladislao Mittner osserva che lo
scrittore «non possedendo ancora, non
potendo mai possedere l’aldiqua ne fa un aldilà, una realtà trascendente. […]
Tutte le cose di questo mondo sono per Kafka cose dell’altro mondo».
Altra
ancora è l’interpretazione di Gilles Deleuze e Félix Guattari. Essi esaminano
il linguaggio di Kafka, che si rivela rivoluzionario,
in quanto minore, perché lo scrittore
fa della propria lingua un uso particolare, distanziato, marginale, a blocchi
di scrittura, all’interno di una macchina linguistica di concatenamenti
inconsueti. A differenza di Max Brod e di altri interpreti, Deleuze e Guattari
scartano ogni ipotesi teologica o mistica, e finiscono per difendere le
interpretazioni realistiche e sociali di Kafka. E a questo proposito occorre
citare, ad esempio, la posizione di Eduard Goldstücker, che fornisce una
lettura marxista di America (o Il disperso), ritenendo che «Kafka abbia
voluto simboleggiare nella persona del fochista la classe operaia com’egli la
vedeva». Non dobbiamo dimenticare, poi, le numerose letture psicoanalitiche
degli scritti di Kafka, anche se è doveroso sottolineare il disinteresse e la
sfiducia che lo scrittore nutriva nei confronti di ogni teoria psicologica e di
ogni pratica psicoterapeutica. Al contempo, però, occorre aggiungere come
Theodor W. Adorno abbia messo in luce l’affinità tra alcuni temi freudiani e
kafkiani, quali l’idea delle strutture gerarchiche, il conflitto edipico e
l’utilizzo della componente onirica come reale. Inoltre è opportuno citare
anche Walter Benjamin, le cui considerazioni mirano a individuare nei testi
dello scrittore il dramma della perdita della Tradizione nell’epoca moderna.
Sono
interpretazioni interessanti, che testimoniano le molteplici sfaccettature che
si possono cogliere nell’opera kafkiana, ma francamente alcune paiono particolarmente
riduttive, se non talvolta addirittura azzardate. Non si può, infatti,
escludere completamente in Kafka la tensione verso l’Altro, che risulta essere
costante, anche se percepita in modo contraddittorio, ora come condanna ora
come possibile salvezza. Sappiamo che lo scrittore aveva pensato anche ad una
diversa conclusione del Processo,
nella quale K. avrebbe ricevuto il dono della grazia divina. Così, come annota
Pietro Citati, «i suoi grandi romanzi rivelano ancora una volta di essere campi
di forza viventi, disposti ad accogliere ogni soluzione intellettuale». L’ambiguità
ed il paradosso contraddistinguono l’intera opera, ma non si possono eludere i
temi fondanti entro cui si muovono, e questi sono indubbiamente quelli della
colpa, dell’imperscrutabilità del divino, del rapporto misterioso tra l’essere
umano e la Legge, e della speranza
ostinata. Tra l’altro, al rapporto con la Legge non sfuggono nemmeno gli
animali, assai presenti negli scritti kafkiani (La metamorfosi, Una relazione
accademica, Le indagini di un cane,
Piccola favola, La tana): essi nel loro mondo
dentro il mondo, nel loro abisso
segreto, condividono angosce per molti aspetti non dissimili a quelle umane,
anzi a volte le esprimono con più forza.
È importante
evidenziare, inoltre, come nell’opera di Kafka il divino non è riconoscibile,
mentre visibili sono i segni di chi porta il peso della colpa, come Joseph K.
nel Processo. Che egli è colpevole,
tutti in qualche modo lo avvertono, ma il divino perlopiù sfugge, si confonde
nei bassifondi, diviene buio, e solo
straordinariamente, per pochi istanti, appare come luce (si veda, ad esempio,
il bellissimo racconto emblematico della parabola Davanti alla Legge, che il sacerdote narra e commenta nel duomo). L’omissione
del nome di Dio, il suo vuoto, non ci autorizza a negarne l’esistenza, ma solo
ad ammettere la sua impronunciabilità, il suo essere aldilà della parola umana
e quindi riconoscere la sua potenza.
Qual è,
allora, la colpa segreta di Joseph K.? Troppo facile rispondere che è l’esistenza stessa, oppure il
peccato originale, anche perché, a ben vedere, non tutti i personaggi appaiono
colpevoli. Per Felix Weltsch, «la colpa consiste nel non aver sentito alcuna
colpa», mentre Pietro Citati parla di «una colpa senza nome» che all’inizio
opprime inconsciamente il protagonista e solo successivamente sembra accettare.
Risulta evidente che le due affermazioni sono solo apparentemente
contraddittorie. La colpa è indefinibile,
ma c’è, e Kafka l’avvertiva dentro di sé. Era per lui quella di scrivere?
Oppure quella di non riuscire ad aderire ai valori della comunità
ebraico-praghese? O, più in generale, di non appartenere completamente alla
vita, di sentirsi fuori dalla Legge? O tutte queste cose insieme?
C’è un’incompiutezza nell’opera di Kafka e
nella sua esistenza, che ne diviene proprio la cifra colpevole e segreta. Ciò che è incompiuto domina su tutto. Il
frammento si dà ovunque: i principali
racconti sono frammenti, Il disperso (o
America) ed Il castello s’interrompono, non hanno una conclusione. Anche la
vita di Kafka pare sospesa, in una sorta di dolorosa incertezza, in bilico tra
affermazione e negazione, tra realtà e paradosso, tranne forse nell’ultimo
periodo dal 1923 al 1924, quando incontra Dora Diamant e decide di vivere con
lei.
Il
desiderio di una meta presente negli
scritti di Kafka è bene messo in luce da Mimmo Stolfi nella prefazione al
volume La meta e la via. Racconti scelti (Biblioteca Universale
Rizzoli, 2000), intitolata eloquentemente Kafka,
uno straniero in cammino. Per comprendere la tensione verso un traguardo,
un punto d’arrivo costantemente ricercato, occorre fare riferimento
all’affermazione di Kafka secondo cui «c’è una meta, ma non una via: ciò che
chiamiamo via è il nostro esitare». Ecco dunque l’esitazione, il peregrinare nel mondo, e l’angoscia di sentire
dentro di sé la chiamata di una meta, la quale però sembra irraggiungibile. Ed
il cammino è impervio, faticoso, infinito, dominato da un’attesa incessante, da una sofferenza continua. Eppure in quest’ultima
Kafka ravvisa una necessità, come troviamo scritto nel suo diario: «Talvolta
provo un sentimento di quasi lacerante infelicità e nello stesso tempo la
convinzione che questa è necessaria come è necessaria una meta acquisita
attraverso ogni strattone della sventura». Pare proprio che da qui scaturisca
la fondamentale differenza tra il male nel mondo e la sofferenza, la quale si
rivela come espiazione e dunque possibile vittoria sul male. C’è in Kafka una
religiosità del dolore che sfugge ad ogni logica terrena, la tensione verso un
riscatto ed una salvezza, la cui conquista però si sottrae continuamente, o
comunque alberga oltre i limiti dell’accessibilità. L’incompiutezza segna dunque una sospensione, che non può che
esplicarsi nella colpa e nell’attesa.
Mauro
Germani
Testi critici consultati
T. W.
Adorno, Appunti su Kafka, in Prismen. Kulturlkritik un Gesellshaft,
Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1969, trad. di Alberto Frioli, Enrico De
Angelis, Giacomo Manzoni, Enrico Filippini, Note
per la letteratura, Einaudi, Torino 2012.
W.
Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo
anniversario della sua morte, in Angelus
Novus, Einaudi, Torino 1962.
M.
Blanchot, Da Kafka a Kafka,
Feltrinelli, Milano 1983.
A.
Camus, La speranza e l’assurdo nell’opera
di Kafka, in Il mito di Sisifo,
Bompiani, Milano 1964.
P.
Citati, Kafka, Rizzoli, Milano 1987.
G.
Deleuze – Félix Guattari, Kafka. Per una
letteratura minore, Feltrinelli, Milano 1975.
M.
Freschi, Storia della letteratura tedesca,
Newton Compton, Roma 1995.
E.
Goldstücker, Il fochista. Tentativo di
interpretazione, Acta Universitatis Carolinae, Praga 1964 (trad. E. Pocar).
L.
Mittner, Kafka senza kafkismi, in La letteratura tedesca del Novecento,
Einaudi, Torino 1960.
H-J.
Schoeps, Motivi teologici nell’opera di
Kafka, in “Neue Rundschau” LXII, 1951 (trad. E. Pocar).
F.
Weltsch, Il metarealismo di Franz Kafka, in “Die literarische Welt”
n. 23, Berlino 4-6-1926 (trad. E. Pocar).