Che cosa ci sta dicendo il nichilismo del nostro tempo? È questa la domanda che si trova al centro dell’ultimo libro di Costantino Esposito, professore ordinario di Storia della filosofia e di Storia della metafisica all’Università di Bari “Aldo Moro”. Una domanda che non è puramente teorica, ma che coinvolge inevitabilmente la nostra esistenza, con tutte le fragilità e le angosce attinenti, accentuate, tra l’altro, dall’epoca attuale, ancora segnata dagli effetti inquietanti della pandemia. La questione del nichilismo, infatti – lungi da essere un problema sorpassato o semplicemente risolto dalla nostra civiltà occidentale con la perdita definitiva di valori e di ideali, insieme allo smarrimento di un senso ultimo di noi stessi e della realtà – sembra proporsi oggi in una forma inedita, che sollecita nuovi interrogativi e apre nuovi scenari.
Ecco allora che Costantino
Esposito ci offre la cronaca – suddivisa in diciotto capitoli – di un fenomeno
analizzato e discusso secondo varie angolature, che intercettano non solo il
pensiero filosofico, ma anche la religione, la letteratura, il cinema e le
fiction televisive. Ciò che viene messo in luce dall’autore è che il nichilismo
ha sì determinato nel corso della sua affermazione nel tempo una perdita, cioè uno svuotamento dell’esperienza
di ciascuno – tanto che la promessa di divenire artefici del proprio destino si
è trasformata nella terribile sensazione di essere «signori del vuoto» – ma ha provocato anche «l’emergere di un bisogno, il rendersi visibile di un desiderio del
senso come desiderio di “essere”, come la fioritura impossibile da una terra secca e pietrosa».
In altre parole, il fenomeno del nichilismo, nel momento della sua massima
espansione, pare offrire paradossalmente un’opportunità per un rinnovato
approccio al senso e alla verità, anche se in modo più crudo e impegnativo
rispetto al passato. Di che cosa sono spia i barlumi nel buio che scorgiamo o
vogliamo scorgere dentro di noi? Non sono forse «una sorta di chiamata dell’io
a sé stesso», di cui però l’io non può essere il padrone, come già affermava
Sant’Agostino? Per meglio esplicitare questa contraddizione del nichilismo,
Esposito riporta le parole emblematiche di Michel Houellebecq, tratte dal suo
romanzo Serotonina, in cui il
protagonista cerca l’annientamento di sé: «Io ero entrato in una notte senza fine, eppure persisteva,
nella parte più profonda di me persisteva qualcosa, molto meno di una speranza,
diciamo un’incertezza». A ben vedere – secondo Esposito – proprio questa incertezza, al culmine della perdita del
sé, si manifesta come un segno reale «di un senso oggettivo conficcato nella
nostra carne, nella carne stessa del mondo», e svela altresì che «se noi
abbiamo perduto il senso, è il Senso stesso, in carne ed ossa, a cercare di noi».
Tra i
vari temi trattati nel volume, risultano particolarmente significativi quelli
relativi alla vocazione della carne,
al pensiero del nulla e al volto tecnico
del nichilismo. In merito al primo, Esposito delinea un percorso che, dalla fedeltà
alla terra di Nietzsche, secondo cui i valori spirituali non sono
nient’altro che maschere, passa attraverso la forza cieca della volontà di
Schopenhauer, della quale siamo tutti vittime, per arrivare alla concezione
dell’Es di Georg Groddek, ripresa poi da
Freud: «l’uomo è vissuto dall’Es». Questa forza impersonale viene oggi
reinterpretata – in una corrente di pensiero che da Foucault arriva fino a
Giorgio Agamben – «come un dispositivo politico che dall’esterno giunge a
informare e conformare di sé l’interno della vita e della morte dei corpi
umani»: si tratta di un dominio (capitalistico) che intende «disinnescare la
nuda potenza dei corpi». È evidente che qui è implicita una riduzione dello
spirituale nell’elaborazione culturale del corporeo. Ma la questione del corpo
non è anche altro? Non implica forse anche la sua chiamata, il suo grido, la
ricerca di sé stesso, il suo sentirsi carne?
Non è forse proprio la carne la nostra vocazione spirituale, il nostro corpo vissuto, che ci chiama, e chiama a
noi stessi il mondo? Piuttosto efficace risulta il confronto proposto da
Esposito tra «le carni esposte e urlanti di Bacon» e la «perfetta compostezza
degli “incarnati” di Raffaello»: l’accostamento dei dipinti ci può rivelare un
mistero che li unisce, perché in essi vibra «la stessa “ombra” – quella che
rende il corpo una carne e che fa della carne la percezione sofferta dello
spirito. In cui il dolore e la gloria ridiventano amici tra loro». E a questo
punto occorre aggiungere che in una concezione cristiana il nichilismo può
essere considerato la dimenticanza che il verbo si è fatto carne. Al riguardo,
Costantino Esposto cita quanto scrive Julián Carrón nel suo libro Il brillìo degli occhi. Che cosa ci strappa
dal nulla? (Editrice Nuovo Mondo, 2020):«Che cosa può vincere il
nichilismo in noi? Solo l’essere calamitati da una presenza, da una carne, che
porta con sé, in sé, qualcosa che corrisponde a tutta la nostra attesa. [..]
Può strapparci dal nulla solo “quella” carne che è in grado di colmare l’
“abisso della vita”, il “desiderio folle” di compimento che è in noi».
Proprio per quanto concerne il nulla,
Costantino Esposito ne sottolinea l’ambiguità,
in quanto esso «può aprire il varco a riconoscere l’abissale gratuità
dell’essere», ma può anche chiuderlo «per farci arrendere all’assurdità
dell’esistenza nostra e del mondo». Ed è inaspettatamente Virginia Woolf a
rivelare nel suo scritto autobiografico Moments
of Being una vibrazione positiva del problema del nulla, quando scrive che
la realtà le appare come «un bene avvolto in una sorta di ovatta senza
contorni», ma che in certi momenti particolari può avvenire uno squarcio
improvviso, come una rivelazione che fa intuire che dietro l’ovatta vi sia un
disegno misterioso, di cui tutti noi facciamo parte.
Rispetto al rapporto tra nichilismo e tecnica, Esposito – dopo avere evidenziato quanto affermato da Heidegger in proposito, cioè la dimensione del pensiero calcolante inscritto nella metafisica occidentale, che impone il nostro stare al mondo come un destino – s’interroga sull’io odierno coinvolto nella rete, ravvisando in esso «una specie di nostalgia», non rivolta al passato, ma «nostalgia di un presente, di qualcosa che pure è ora e qui: la nostalgia di sé». Si tratta di un desiderio di essere che nasce da una mancanza, in quanto «l’io “manca” sempre in qualche modo sé stesso e manca a sé stesso». La tecnica produce, dunque, una nostalgia di fondo che occorre recuperare, perché «il nichilismo, realizzato compiutamente nella tecnica, è a sua volta abitato da un ospite ancor più inquietante del primo, quell’ospite che noi stessi sempre siamo».
In
conclusione, si può affermare che la nostra esperienza nel mondo sembra oggi
passare attraverso il nichilismo, ma non concludersi in esso, in quanto si caratterizza
come un problema, una questione
aperta, e non già come una condizione immutabile e condivisa da tutti.
Mauro
Germani