martedì 7 ottobre 2025

Franco Riva - La domanda di Caino. Male, Perdono, Fraternità


Franco Riva, La domanda di Caino. Male, Perdono, Fraternità, Castelvecchi, 2016

Al centro di questo libro di Franco Riva, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, vi è la strana domanda di Caino: «Sono forse io il custode di mio fratello?», che troviamo nell’Antico Testamento. Come interpretarla? È solo un tentativo di fuga, un modo di non rispondere alla domanda di Dio: «Dov’è Abele, tuo fratello?», oppure implica altro? È opportuno, inoltre, aggiungere che, prima della domanda suddetta, Caino afferma di non sapere dov’è suo fratello. Che cosa egli davvero non sa?

Insieme a questi interrogativi, Franco Riva mette in luce il concetto di responsabilità, che è insito nella parola custode utilizzata da Caino. La stranezza delle parole di Caino consiste nel fatto che esse dicono di una responsabilità al contrario, tenendo insieme «tutto e il contrario di tutto: vita e morte, sapere e non sapere, fratelli e nemici, fratelli e responsabili, uomo e uomo, uomo e Dio, male e bene, violenza e vendetta, colpa grave e giustizia, imperdonabile e perdono». 

Sta di fatto che la domanda di Caino, secondo Riva, «non è più dimenticata perché risuona per la prima volta la parola delle parole, la responsabilità per altri. Non è più dimenticata perché proibisce di parlare di “umanità” (di “fraternità”) al di fuori di un farsi responsabili». Si tratta di una responsabilità che è legata all’umano, nel senso che è antecedente all’umanità, in quanto il «non so» di Caino ci rivela che non si può sapere nulla di umano prima di essere responsabili. Ed è proprio la riflessione su questo punto che induce l’autore a trattare, in modo molto radicale e al tempo stesso per nulla dogmatico, tre temi cruciali della nostra esistenza, tre nodi difficili da districare, segnati come sono da ossimori, ambiguità e contraddizioni: il male, il perdono, la fraternità, che a ben vedere, convivono enigmaticamente nella domanda di Caino. 

Nel suo percorso, Franco Riva si avvale di numerosi riferimenti sia letterari (Cervantes, Dostoevskij), sia filosofici (Arendt, Buber, Derrida, Jankélevitch, Jonas, Kierkegaard, Lévinas, Marcel, Ricoeur, Schmitt), mediante una scrittura attenta e incisiva, ma soprattutto evidenziando la complessità di tali problematiche, che invece sovente sono vittime di banalità e semplificazioni.

A proposito del male, Riva ritiene che occorre affermare la sua realtà («Bisogna smetterla di dire che il male non esiste»). Il male c’è, si può e si vuole. Non è qualcosa di astratto, né un incidente o un’eccezione all’interno della storia dell’uomo e del mondo. Quando si tenta di spiegarlo e di giustificarlo, «viene ridotto a un’idea di tecnica», qualcosa di non funzionante nella macchina del mondo, «qualcosa di riparabile, di aggiustabile». Il male invece è qui, è nel volto ferito di chi soffre, «mio o degli altri. Degli altri soprattutto». Anche le grandi elaborazioni teoriche rischiano di oscurare la realtà del male. Se da un lato c’è «una filosofia rassegnata del pessimismo», dall’altro c’è «una filosofia bonaria dell’ottimismo che lavora soltanto, chissà se per motivi esortativi o rassicuranti, sullo sbiancamento della notte del male». Ma il male non si riduce, si incontra, e di fronte a esso «non tiene né il pessimismo né l’ottimismo». Nel faccia a faccia con il male allora c’è posto per la pietas nei confronti del volto ferito, c’è la condivisione e c’è la compassione. Pensare il male in modo autentico significa sottrarlo al «ripiegamento intimistico» e pronunciare non solo l’aggettivo mio, ma anche nostro. Afferma Riva:« Le teorie e le teodicee servono anche, mentre spiegano e giustificano, a distrarre da questo male che è nostro». E aggiunge: «Male nostro, male irriducibilmente sociale e politico: nostro come la “speranza”. Male suscitato non così lontano da dove siamo noi. Male mai giustificato». Ecco allora che il discorso relativo al male è attraversato dalla responsabilità, che vuol dire comunione, nel senso di uscire dal proprio centro, nella consapevolezza che il male nel suo paradosso «annuncia una morte mentre ricorda la vita» e «dice la vita mentre testimonia una morte». Questo carattere aporetico del pensiero sul male non deve pertanto significare una rinuncia, perché «il fatto di non comprendere il male invita al contrario a ripartire con maggior forza e vigore con un pensare diverso. L’aporia infatti non è un punto d’arresto, un pantano, ma una conquista». Ciò che Franco Riva sottolinea è che il male «non può/non deve ritrovarsi a essere pienamente giustificato», se vogliamo che esso non abbia l’ultima parola.

Per quanto riguarda il secondo tema, cioè quello del perdono, viene affermato che «la lotta del perdono è una battaglia per la libertà», perché è la lotta per la speranza quando sembra vincere la disperazione. Kierkegaard in La malattia mortale sostiene che la disperazione della remissione dei peccati deriva dalla coscienza di chi si trova nell’angoscia per il bisogno di perdono, ma rifiuta lo scandalo del perdono. Del resto, se da un lato è importante la coscienza del male, dall’altro è anche vero che «il perdono è difficile perché sta – se sta – nella ferita, nel faccia a faccia di una vittima e di un colpevole». Non solo. Riva afferma che «si perdona solo ciò che è imperdonabile» e che «quando il perdono è possibile diventa impossibile e quando sembra impossibile si fa possibile». Non è un gioco di parole. Se il perdono è facile o scontato, non è più perdono, in quanto «un perdono leggero è complice del male». Questo perché perdonare non significa giustificare il male e la colpa: ciò che è stato fatto resta e deve restare. Il perdono non giustifica nulla e ha il coraggio di porsi di fronte al male. Non è un semplice dono. Mentre il dono rientra in qualche modo nella logica dello scambio, del corrispondere, il perdono sancisce «un’asimmetria insormontabile». Interessante è anche quanto viene scritto sul modo linguistico del perdono, in cui «avanzano parole incommensurabili come sono quelle della confessione e dell’assoluzione. […] La parola del perdono è radicalmente diversa perché non compete a tutti nello stesso modo. Un conto è confessare, un altro assolvere. Un conto chiedere perdono, un altro concederlo». Questa sproporzione tra le parole include anche il silenzio, che si riferisce al male commesso: esso in realtà è molto più forte delle parole pronunciate troppo in fretta, a volte ipocritamente, come scusanti. «Il perdono è la libertà nuda» afferma Riva, non ha logiche di convenienza e scaturisce dal farsi prossimo, in quanto – come sostiene Lévinas – «farsi responsabili dell’altro è l’unica condizione per cui nel mondo ci può essere pietà, compassione, perdono e prossimità». E alla fine del capitolo viene citata la storia esemplare di Delitto e castigo di Dostoevskij.

L’ultimo tema è quello della fraternità, che è strettamente connesso ai precedenti. Essere fratelli vuol dire essere responsabili? No, si può essere fratelli senza essere responsabili, come ci insegna la storia di Caino. Caino dice di non sapere, non sa dove si trova suo fratello, né sa qualcosa sulla responsabilità. La verità è però che la domanda di Caino non resta nel vuoto. Ci interpella, ci chiede cosa sia veramente la fraternità e cosa significhi essere responsabili. Inoltre è da rilevare che tale domanda non è impersonale, non parla di un noi generico, ma dice io. L’uso di questo pronome è importante perché significa che a essere responsabile è un io, cioè che la responsabilità è prima di tutto personale e in tal senso dona all’io un nuovo significato. Secondo Lévinas, infatti, «la parola Io significa Eccomi, rispondente di tutto e di tutti»: sono sì unico e irripetibile, ma solo nella responsabilità per l’altro.

Franco Riva scrive che «nel mito biblico la fraternità sorge insieme alla responsabilità e sprofonda in una domanda che resta aperta. Non perché non abbia risposta, ma perché tenere aperta la domanda è la sua vera risposta», facendo però attenzione che «la morte non sia più forte, non sia in nome della stessa fraternità», come spesso è accaduto e accade.

Per concludere, la lettura di questo libro, che contiene innumerevoli spunti e interrogativi oltre a quelli qui indicati, è assai raccomandabile in un mondo in bilico come il nostro, in cui il prossimo è spesso considerato un nemico da abbattere e la parola responsabilità sembra scomparsa. 

Mauro Germani

venerdì 19 settembre 2025

Corrado Bagnoli - L'ultimo ring

 

Corrado Bagnoli, L’ultimo ring, Edizioni Ares, 2024

Narrare l’epica del quotidiano, la tenacia del fare, la volontà di credere nella vita, di non sciuparla, di starci dentro nonostante le fatiche e le difficoltà, grazie al proprio lavoro, all’onestà e alla caparbietà di gesti e sguardi veri, di sentimenti autentici, netti. Tutto questo (e altro) è presente nel romanzo di Corrado Bagnoli L’ultimo ring – tratto dal poema, dello stesso autore, Fuori i secondi (La Vita Felice, 2005) e necessariamente ampliato con altri personaggi – nel quale è protagonista Augusto, promettente pugile nella Brianza degli anni Cinquanta, con un’infanzia povera alle spalle e nel cuore il desiderio di lottare costantemente per il proprio futuro.

Egli sperimenta che la vita non è come sul ring, dove «ci sali soltanto quando sei pronto e ti sei preparato e lo sai cosa ti aspetta. Sai che puoi vincere o perdere. Ma non ci sono magie. I colpi bassi e segreti sono vietati». Nell’esistenza di ogni giorno, invece, non ci sono pause, non c’è un gong, non c’è un arbitro che ti separa dagli avversari, ma un fuori i secondi continuo, in cui devi essere pronto con le tue mosse, le tue scelte. Il rito del pugilato porta a confrontarsi con lo strano e misterioso rito della vita, come un ring dentro un altro ring, dove un’etica è necessaria, insieme al rispetto delle regole («Dentro un ring o fuori non c’è niente di male a cadere. È sbagliato rimanere a terra» afferma una delle quattro citazioni di Muhammad Alì poste all’inizio di ogni capitolo). 

E Augusto questa lezione la impara a poco a poco, crescendo, tra le bravate di quando era ragazzo e i «colpi bassi» dell’esistenza: il padre, «uomo mite e sbagliato», spesso assente, il collegio «dei poveri e dei matti», i lutti improvvisi (la morte del padre, il suicidio dell’amico Eugenio, la scomparsa per un incidente del fratello Edoardo), ma oltre a ciò anche la gioia delle esperienze positive (le vittorie sul ring, le amicizie). Egli a volte appare spavaldo, persino esagerato nelle sue manifestazioni, ma la sua è una fame di vita che rivela sempre un cuore buono, com’è il suo sguardo. Fondamentale sarà l’amore per Maria, dagli «occhi neri, bui come la notte delle sue colline», che egli sposerà e da cui avrà tre figli, in uno dei quali, Enrico, possiamo riconoscere l’autore.

Una storia, la loro, fatta di sogni e di sacrifici (Augusto da giovane alternerà il pugilato con il duro e terribile lavoro al macello, poi insieme alla moglie aprirà un negozio di salumi), un’unione forte, capace di infondere a entrambi il coraggio di rialzarsi dopo ogni caduta o imprevisto, di ricominciare, di mettersi alla prova, di trasformare le inevitabili avversità in nuove speranze, in tappe da raggiungere. Così Augusto imparerà l’importanza della fedeltà non solo verso i propri sentimenti, ma soprattutto nei confronti degli altri, in quanto nella vita non si può solo prendere, ma occorre anche «un dare, un custodire e un restituire».

In lui possiamo cogliere, nel corso della vicenda, un’interezza che colpisce, che non è rigidità o egoismo, ma al contrario un’apertura responsabile nei confronti dell’esistenza, la volontà di assumersi ogni volta il rischio delle scelte da compiere, con coraggio e determinazione, senza barare. Con la consapevolezza che la vita eccede sempre, e stupisce nel bene e nel male, ribalta le nostre aspettative e ne crea altre, in un movimento continuo che sorprende, al di là delle apparenze, nel quale uno sbaglio o una sconfitta si possono anche rivelare l’opposto, cioè il punto da cui ripartire, e diventare una rinascita in grado di affrontare nuove prove. Ed è proprio questo che egli, insieme a Maria, riesce ad apprendere: è la formazione di un alunno che a poco a poco, con gli anni, diviene maestro, ma un maestro silenzioso, ormai con i capelli bianchi, di poche parole e di gesti concreti per i suoi figli, debole e forte al tempo stesso, ora «che la guardia l’abbassa, che le braccia le allarga e abbraccia la vita. Tutta quella che viene. Ogni volta che viene».

Sono queste le parole di chi narra e s’interroga sulla lezione di Augusto e di Maria, una lezione da custodire e da tramandare. L’autore, infatti, interviene a un certo punto del romanzo, con brevi corsivi di grande intensità, per esprimere i propri sentimenti e le proprie riflessioni nei confronti della storia dei suoi genitori, con l’intento di carpirne il segreto. Non un personaggio, dunque, ma la persona narrante, che chiama le parole e nelle parole cerca la vita propria e altrui: un’operazione schietta e sincera, che non è e non vuole essere un colpo di scena, ma che scaturisce dalla volontà di attribuire una responsabilità alla scrittura: «I giorni a venire sono lenti, guardati da lontano. Ancora più lenti vissuti minuto per minuto. Eppure, dentro questo apparente non accadere, accadono le cose. Nella ripetizione dei gesti, nell’impalpabile crescere dei figli, nella fatica e nel silenzio ogni giorno uguali e diversi. Così accadono le cose ad Augusto. Agli uomini tutti. A Maria. A Enrico: a me che racconto». Ecco, dunque, che l’epica celebrata in questo romanzo di formazione è quella della lotta quotidiana di ogni essere umano, che è simile agli altri, ma al contempo unico e irripetibile nella singolarità della sua persona, del suo carattere e delle sue convinzioni.

Corrado Bagnoli narra la vicenda in modo asciutto e incisivo, lontano da compiacimenti letterari di sorta, ma al contempo con una prosa intrisa di poesia, attenta alla verità delle cose, cioè ai particolari che rivelano un’anima, una forma del sentire, un esserci dei personaggi, mediante periodi brevi, scanditi da un ritmo incalzante assai efficace. Per questo i fatti qui narrati non sono solo la cronaca degli eventi, ma qualcosa di più grande, qualcosa che chiama una verità che li racchiude e li oltrepassa. Perché la scrittura di Bagnoli non è uno dei tanti, inutili esercizi di stile, a cui oggi spesso assistiamo, ma un modo di incarnare la realtà, di dare alla parola la concretezza dell’esistenza.

Mauro Germani




giovedì 11 settembre 2025

Georges Bernanos - Diario di un curato di campagna

 

Georges Bernanos, Diario di un curato di campagna, traduzione di Adriano Grande, Mondadori, I ed. 1946

C’è sempre qualcosa che eccede nei romanzi di Georges Bernanos, qualcosa che travalica, che supera la pagina scritta, la stessa storia narrata. Qualcosa che brucia, che infiamma l’anima. Qualcosa che è qui, tra le nostre mani, ma che, al tempo stesso, non è solo di questo mondo. Qualcosa di soprannaturale. 

Leggendo il Diario di un curato di campagna (1936), la sua opera più celebre («il più bel libro della letteratura francese della generazione dopo Gide», scrisse Guido Piovene), tutto questo si percepisce fin dalle prime righe. Perché il diario del giovane curato è la testimonianza di un’anima segnata, di un essere che intende vivere profondamente la propria fede e la propria missione, ma che al contempo deve subire l’indifferenza o l’ostilità della gente di Ambricourt, le menzogne, l’assuefazione al peccato, la fuga da Dio. 

Egli appare subito come un uomo destinato a una sorta di martirio spirituale e fisico, che si compie in mezzo alle tenebre. La sua è una lotta non solo contro il male, ma anche contro sé stesso, perché convinto della propria inadeguatezza o inettitudine davanti alla realtà che deve affrontare e che sovente gli procura angoscia. Come essere un autentico ministro di Dio, un vero servo del Signore? Come comprendere ciò che gli capita e ciò che si agita in lui? La decisione di affidarsi alla scrittura – invero non senza poche perplessità e con diversi ripensamenti, cancellature e pagine strappate – deriva proprio da questo: dall’urgenza di capire quanto gli accade per meglio assolvere all’arduo compito di cui è responsabile davanti a Dio. Proprio per questo, il suo non è un diario semplicemente composto dalla cronaca degli eventi, ma una miniera di annotazioni, di riflessioni, di moti dello spirito davvero straordinari. Non si può non riflettere attentamente su alcuni pensieri improvvisi, vere e proprie illuminazioni, oppure verità scomode e amare confessioni. Quanti mali, di misura ed entità diverse, vede attorno a sé il giovane curato d’Ambricourt! 

Vale la pena sottolineare quanto egli scrive a proposito della noia presente nelle parrocchie, che definisce «una disperazione abortita, una forma torpida della disperazione che certamente è come la fermentazione di un cristianesimo decomposto». O quanto afferma riguardo alla lussuria: «Come mai non ci si accorge, più spesso, che la maschera del piacere, spoglia di ogni ipocrisia, è proprio quella dell’angoscia?». Ed è interessante notare che proprio su questo punto – che al giorno d’oggi molti troveranno inopportuno, anacronistico e persino ridicolo, o scandaloso – egli insiste:« La lussuria mi fa paura. L’impurità dei fanciulli, soprattutto… La conosco. Oh! Non la prendo già sul tragico! Penso al contrario che dobbiamo sopportarla con molta pazienza, poiché la più piccola imprudenza può avere, in questa materia, conseguenze spaventose. […] Ma ciò non m’impedisce di detestare quest’universale cospirazione, questo partito preso di non vedere ciò che, tuttavia, buca gli occhi; questo sorriso sciocco e accorto degli adulti di fronte a certe miserie che vengono credute senza importanza. […] Ho anche conosciuto troppo presto la tristezza, per non sentirmi rivoltato dalla bestialità e dall’ingiustizia di tutti verso la tristezza dei piccoli, così misteriosa. L’esperienza, ahimè, ci dimostra che esistono disperazioni infantili: e il demone dell’angoscia è, essenzialmente, credo, un demone impuro». Particolarmente rilevante dal punto di vista teologico, è quanto poi egli afferma rispetto al peccato:« Tutti i peccati si rassomigliano, non c’è che un solo peccato. Non vi parlo un linguaggio oscuro! Queste verità sono alla portata del cristiano più umile, purché voglia raccoglierle da noi. Il mondo del peccato sta di fronte al mondo della grazia come l’immagine riflessa d’un paesaggio, al margine di un’acqua nera e profonda. C’è una comunione dei santi, e c’è anche una comunione dei peccatori». 

Il giovane curato d’Ambricourt – proveniente da una famiglia povera e contadina, colpita da varie disgrazie – si porta addosso un’infanzia solitaria e una giovinezza mai pienamente vissuta, tuttavia, pur nel tormento che spesso lo possiede (sua è la convinzione d’esser «prigioniero della Santa Agonia»), riesce a conservare una sorta di spirito di fanciullo, qualcosa difficile da definire, un particolare atteggiamento dello sguardo e del cuore, una forma d’innocenza disarmata, che si scontra con il mondo e che si trova sempre esposta al rischio dell’incomprensione e del fraintendimento: è lo stato di povertà unito al sentimento dell’infanzia. Scrive, infatti: «Per quanto io mi giudichi severamente, non ho mai dubitato di avere lo spirito di povertà. Quello dell’infanzia gli somiglia. Entrambi, senza dubbio, formano una sola cosa». 

Innocenza e tormento convivono dunque, in modo misterioso, nel giovane curato, che non si risparmia nella sua opera, nonostante la salute precaria, e non cerca mai scappatoie e compromessi. Chi lo incontra, è costretto a riconoscere – anche respingendola – la sua diversità. Il curato di Torcy, uomo senza dubbio di fede (si leggano le sue stupende parole dedicate alla Vergine Maria: «Lo sguardo della Vergine è il solo sguardo veramente infantile, il solo vero sguardo di bambino che si sia mai levato sulla nostra vergogna e sulla nostra disgrazia»), vigoroso e concreto, comprende la strana fragilità e, al tempo stesso, l’inconsueto rigore del giovane curato, ma gli consiglia d’essere meno preoccupato nei confronti del male, perché il peccato non deve fare paura alla Chiesa. Un altro sacerdote, il decano di Blangermont, dalla mentalità borghese, lo considera in modo sospetto, e gli dice soprattutto che deve curare più scrupolosamente l’amministrazione della parrocchia («i santi sono stati troppo sovente una prova per la Chiesa, prima di divenirne una gloria»). Altri personaggi mettono alla prova il giovane curato: il dottor Delbende, privo di fede, la bambina Séraphita Domouchel, ambigua e maliziosa, ma soprattutto il conte e la contessa castellani di Ambricourt, la loro figlia Chantal e la governante di lei, Mademoiselle Louise. Il giovane curato dovrà conoscere la relazione del conte con Louise, il disgusto provato da Chantal, la freddezza della contessa che, dietro l’apparente tranquillità e rispettabilità, prova un sentimento di ribellione verso Dio, non ama ormai più nessuno e vive solo nel ricordo di un figlio morto in tenera età. L’ostilità di tutti costoro gli si porrà davanti in modo inesorabile. E tuttavia il giovane curato non fuggirà dal proprio compito. Non solo. Qualcosa di misterioso è in lui. Le parole che pronuncia sembrano dettate da un Altro: è proprio come se lo Spirito del Padre parlasse in lui, secondo la promessa fatta da Gesù agli apostoli. 

Si veda, al riguardo, uno dei momenti più alti del romanzo: il lungo, estenuante colloquio con la contessa, una vera e propria sfida contro la menzogna e l’odio. E qui colpisce una potente affermazione del curato: «Non c’è un regno dei viventi e un regno dei morti, non c’è che il regno di Dio e noi, viventi o morti, vi stiamo dentro». Essa produrrà, insieme ad altre parole, un effetto miracoloso: la contessa finalmente troverà la pace e si convertirà. La tensione drammatica del romanzo, però, non finisce e continua a crescere ulteriormente, a causa della morte improvvisa della contessa e della malattia incurabile del giovane curato: un cancro allo stomaco. La via crucis del protagonista si concluderà nella casa di un ex compagno di seminario, ormai spretato, a cui egli chiederà l’assoluzione. Poco prima della morte, il curato mormorerà, in conformità con Santa Teresa di Liseux, che «tutto è grazia», quindi tutto è un dono, poiché ciò che ci viene dato è per la nostra salvezza. 

Bernanos arriva così al termine dell’appassionato e travagliato dialogo tra il soprannaturale e il mondo: le ultime parole del curato non solo danno un senso a ciò che è l’esperienza terrena, ma preludono anche al dopo, a quell’altra vita e a quell’altro cielo verso cui l’intera opera dello scrittore francese tende.

Mauro Germani







martedì 2 settembre 2025

L'uomo secondo Pascal


A ben pensarci, ogni filosofia rivela in modo più o meno esplicito una precisa concezione dell’uomo. Quella di Blaise Pascal (1623-1662), relativa alla sfera etica e religiosa (egli fu anche importante matematico e fisico nella prima parte della sua breve vita), risulta assai originale se posta in relazione non solo con il XVII secolo – il suo – , ma anche con quanto elaborato dalla Scolastica dei secoli precedenti (si pensi, per esempio, ad Anselmo d’Aosta e alle sue pur mirabili prove a posteriori e a priori dell’esistenza di Dio, o alla monumentale e prodigiosa opera di Tommaso d’Aquino, nella quale il pensiero aristotelico si compone in una sintesi equilibrata tra ragione e rivelazione, enunciando altresì le celebri cinque prove dell’esistenza divina). Pascal non ritiene infatti che la sola ragione possa dare un contributo decisivo in un campo che la trascende, in quanto le nostre capacità razionali risultano in questo senso limitate e incompiute. A tal proposito, si può citare la seguente affermazione: «L’ultimo passo della ragione sta nel riconoscere che vi è un’infinità di cose che la sorpassano. Incomprensibile che Dio sia, e incomprensibile che non sia». 

Ciò potrebbe far pensare a un atteggiamento di distanza dalla fede, ma non è così, anzi. Pascal – che fu vicino a partire dal 1654 all’ambiente di Port-Royal e al giansenismo, in opposizione al lassismo dei gesuiti e alla loro “casistica” predisposta per la coscienza, come risulta dalle Lettere provinciali del 1657 – aveva ben presente la duplicità della natura umana: «Che cos’è l’uomo nella natura? Un nulla in confronto all’infinito, un tutto al confronto del nulla, un qualcosa di mezzo fra nulla e tutto». Ecco, dunque, per Pascal la condizione dell’uomo in bilico, esposta continuamente al rischio esistenziale e alle derive del libertinismo allora di moda, che esprimeva una mentalità laica (e talvolta ipocrita), nella quale il razionalismo cartesiano era unito a motivi scettici.

In questo contesto, è proprio la rivelazione cristiana ad assumere, per il filosofo francese, un ruolo fondamentale, ma in una forma insolita: l’intento apologetico di fondo non è mai separato da una continua osservazione critica rivolta all’uomo, di cui egli mette in rilievo al contempo la miseria e la grandezza. Non c’è in Pascal alcuna dimostrazione di Dio, quanto piuttosto la convinzione della necessità della fede cristiana e della grazia (in accordo, pertanto, con Sant’Agostino), come uniche possibili risposte all’enigma dell’uomo e alla sua natura corrotta dal peccato originale: «Il peccato originale è follia davanti agli uomini, ma viene dato per tale. Voi dunque non dovete rimproverarmi il difetto di razionalità in questa dottrina, poiché io la presento come irrazionale. Ma questa follia è più saggia di tutta la saggezza degli uomini, sapientius est hominibus. Infatti, senza di essa, cosa può dirsi della natura umana? Tutto il suo stato dipende da questo punto impercettibile. E come avrebbe potuto l’uomo rendersene conto con la sua ragione, dal momento che è una cosa contro la sua ragione, e che la sua ragione, ben lungi dal ritrovarla per le sue vie, se ne ritrae quando vien presentata?». 

Del resto è noto come egli avesse in progetto una Apologia del cristianesimo, che però non venne compiuta a causa della sua salute precaria, e i cui frammenti vennero poi riordinati e pubblicati nel 1669 dai suoi amici di Port-Royal con il titolo Pensieri – la sua opera più celebre. È poi interessante sottolineare l’importanza del ritrovamento, dopo la sua morte, del cosiddetto Memoriale, un testo autografo, datato 23 novembre 1654, cucito nel suo vestito (e che portava pertanto sempre con sé): una testimonianza di una vera e propria esperienza mistica, da lui descritta come Fuoco, nella quale contrappone al Dio dei filosofi la figura di Gesù, verso cui egli dichiara la propria sottomissione. Da aggiungere inoltre che Pascal scrisse, probabilmente verso il 1650, anche un Compendio della vita di Gesù Cristo, libro scoperto e pubblicato solo verso la metà dell'Ottocento, che consiste nella narrazione della vita esemplare di Gesù sulla base di una lettura puntuale e rigorosa dei quattro Vangeli, accompagnata da brevi considerazioni dottrinali. 

Se la natura umana è fragile e contraddittoria, sedotta dal divertissement, cioè dalla distrazione esistenziale e dalla ricerca del piacere (secondo una concezione che troviamo, secoli dopo, in Aut-Aut di Kierkegaard, a proposito del cosiddetto stadio estetico, rappresentato dal mito di Don Giovanni), non c’è altra via di salvezza per Pascal che nella religione cristiana, unica risposta al desiderio d’infinito dell’uomo e che ci viene rivelata dalle Sacre Scritture, dalle varie profezie e dai miracoli. Il divertissement nasconde in realtà qualcosa di tragico, una profonda lacerazione e disperazione, un vuoto, una noia, una paura della morte, che vengono illusoriamente colmati dalle incessanti attività umane, compresa la guerra e il gioco: è tutto ciò che distoglie l’uomo dal pensare alla propria condizione: «Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno preso partito, per rendersi felici, di non pensarvi». E ancora: «La sola cosa che ci consola dalle nostre miserie è il divertimento, e tuttavia è la più grande delle nostre miserie. Perché è proprio quello che ci impedisce principalmente di pensare a noi e che ci porta inavvertitamente alla perdizione». 

È indubbio, pertanto, che questo atteggiamento di fuga da sé stessi, non può costituire un’alternativa autentica, degna dell’uomo, al suo malessere interiore, in quanto in tal modo viene sospesa la ricerca della verità, la quale comporta fatica e sofferenza, ma è proprio il cercare gemendo, cioè il cercare con umiltà, a partire dal riconoscimento della propria miseria, che – secondo Pascal – conduce alla fede. Essa non può essere conquistata da prove e dimostrazioni, che possono risultare valide solo per chi già la possiede, eppure occorre avere la consapevolezza che all’uomo spetta la decisione: non è possibile rimanere neutrali, sottrarsi alla scelta, restare indifferenti, fare finta che il problema religioso non esiste. L’impotenza a credere deriva per Pascal dal prevalere di passioni e di comportamenti non idonei, da qualcosa che in fondo blocca l’uomo, lo restringe unicamente a sé, lo chiude e lo condanna a una sconfitta del cuore, termine quest'ultimo che indica la facoltà di cogliere i princìpi indimostrabili. 

La famosa e controversa scommessa per il Dio dei cristiani di Pascal si inserisce allora in questo contesto, cioè relativo al non credere, e non riguarda pertanto la vita del filosofo, il suo intimo sentire. Si tratta di un’esortazione pratica e razionale, basata sulla convenienza del credere che, a dire il vero, può sconcertare e sollevare non poche perplessità, in quanto Pascal propone una scelta basata sul calcolo, e cioè opportunistica, non autentica, in contrasto con il giansenismo e con il primato della grazia in cui egli credeva. Tuttavia essa può rientrare nella paradossalità della fede, la quale è oltre la ragione, ma permette altresì la possibilità di scommettere per essa in modo sensato; una sensatezza, comunque, fondata su contenuti che eccedono la ragione: «La nostra religione è saggia e folle. Saggia perché è la più dotta, la più fondata in miracoli, profezie, ecc. Folle, perché non è questo che fa sì che si appartenga ad essa». 

Al di là delle critiche che la teoria della scommessa ha suscitato in alcuni, l’opera di Pascal è da considerarsi di straordinaria importanza, sia per la speculazione filosofica incentrata sulla condizione umana – come, in modo diverso, possiamo trovare in Montaigne –, sia per la scrittura che risulta assai efficace e privilegia il frammento e l’aforisma. Inoltre occorre aggiungere che molte riflessioni, come quelle relative al divertissement, appaiono ancora estremamente attuali nella loro drammaticità.

Mauro Germani



martedì 26 agosto 2025

La lezione di Sant'Agostino


La lettura oggi di Sant’Agostino (354-430) non può che essere per noi una lezione benefica. Le sue riflessioni intorno al dubbio e alla verità, al male e alla grazia, hanno ancora la capacità di scuotere la nostra intelligenza e la nostra anima, in un periodo storico come quello attuale, in cui tutto sembra vacillare e il pensiero del futuro fa paura. 

Sappiamo come in Sant’Agostino la ricerca della verità sia sempre stata fondamentale e non priva di tormento, come attestano le Confessioni (400), opera in cui la componente biografica assume per la prima volta grande valore in ambito filosofico. Qui non solo pensiero e vita sono strettamente legati, ma evidenziano in modo netto il problema dell’interiorità dell’uomo, della sua inquietudine e al contempo il suo desiderio di appartenenza, di superamento della solitudine e del conflitto tra luce e tenebre. C’è in Sant’Agostino una costante e pervicace aspirazione alla verità, una parola questa che oggi suscita perplessità, o addirittura sfiducia, o senso di inutilità, di ricerca vana. Che cos’è propriamente la verità? Esiste realmente? E dov’è? Certo è che se facciamo riferimento a quanto accade nel mondo, vale a dire alla complessità degli eventi, comprese le guerre in corso, e delle relazioni tra chi detiene il potere, non si può non provare un senso di smarrimento e di impotenza. 

Ma la verità a cui si riferisce Sant’Agostino non è legata strettamente ai fatti, non è la maschera del qui e ora: essa è oltre la prigione dello scetticismo e del sospetto, non si lascia confondere dalla polemica, dai ricatti e dalle minacce. È una verità ontologica, intima e ulteriore che, pur essendo nell’interiorità dell’uomo, non è tutto l’uomo: «Se troverai mutevole la tua natura, trascendi te stesso» – afferma Sant’Agostino in De vera religione. E in modo assai originale ribalta la concezione del dubbio universale degli scettici, perché dichiara che paradossalmente è proprio il dubbio che attesta la verità. Quest’ultimo contiene infatti la verità, o almeno una sua traccia, in quanto chi dubita pensa di possedere un criterio di giudizio, cioè una verità: «Chi capisce d’essere in dubbio, vede una cosa sicura; quindi è certo del vero. Chiunque perciò dubita se vi sia la verità, ha in sé il vero per cui non dubita; e non v’è vero, che sia vero, senza la verità» (De vera religione). In pratica, non si dubiterebbe se non si avesse già in qualche modo la verità. Ecco allora che Sant’Agostino ci dice che noi siamo in relazione con quest’ultima, non siamo gettati nell’insignificanza, né vittime di una menzogna assoluta. 

C’è un luogo della verità che ci chiama e che da sempre è in noi, pur non coincidendo completamente con noi. È qualcosa che non ha a che fare con la reminiscenza platonica, né con la ragione, ma è una luce, anzi una illuminazione che ci spinge a vedere, che guida la nostra anima e permette la condizione della verità stessa, la quale non può che essere eterna e necessaria perché è Dio. E in tutta l’opera di Sant’Agostino noi possiamo cogliere la testimonianza della sua ricerca ininterrotta di Dio, il quale rappresenta la meta desiderata e ultima, il punto d’arrivo di un percorso spirituale e intellettuale che affronta con coraggio e caparbietà, ma anche con fiducia, ogni sfida del proprio tempo e ogni tipo di problema. Celebre è la frase rivolta a Dio:« Tu ci hai fatti per Te e inquieto è il nostro cuore finché riposi in Te», che troviamo nelle Confessioni

Non dobbiamo pensare tuttavia che questo significhi, per chi crede in Dio, una forma di passività, tutt’altro. È importante sottolineare che per Sant’Agostino la verità non è mai un possesso definitivo, assoluto, che si conquista una volta per sempre. Anche chi è cristiano non deve sottrarsi alla ricerca, perché la verità ha una doppia dimensione: è dentro l’uomo, ma al tempo stesso è trascendente, e non può essere totalmente compresa, perché essa fa parte di un mistero che è in fondo inesauribile. Il pensiero di Sant’Agostino si rivela in questo senso assai importante perché da un lato ci apre alla speranza, ci permette di uscire dallo scetticismo e/o dal nichilismo, e dall’altro ci fa capire i nostri limiti e ci esorta ad abbandonare ogni delirio di onnipotenza, per ascoltare invece la voce misteriosa di quel maestro interiore che non smette di chiamarci. Spesso il suo richiamo si confonde con quello di altre voci, un frastuono che stordisce, che ottenebra la mente e il cuore. Il maestro interiore sembra non avere più forza, essere diventato quasi muto o addirittura assente, sopraffatto dall’ombra. È allora che si apre in noi si apre una ferita e la nostra interiorità è scissa, travagliata da una profonda divisione che è capace di condizionare le nostre scelte. 

La riflessione di Sant’Agostino sul male è consapevole di questa tragica lacerazione, tanto che afferma la duplicità della volontà, che egli stesso ha sperimentato. Si tratta di un contrasto tra ciò che si vorrebbe volere e la debolezza della volontà, cioè l’incapacità di volere ciò che si vorrebbe per tendere alla profondità e verità del nostro essere. E qui Sant’Agostino distingue il libero arbitrio dalla libertà, in virtù della grazia. Sono passaggi fondamentali per comprendere appieno il suo pensiero. Se il libero arbitrio è la scelta tra diverse possibilità, la libertà è qualcosa di più, è la capacità di compiere fino in fondo la scelta del bene: per fare questo, però, occorre la grazia, la quale rende davvero libero e autentico il libero arbitrio; senza la grazia gli uomini, a causa del peccato originale, sarebbero solo «massa dannata». In tal modo Sant’Agostino entra in polemica con l’eresia di Pelagio, che di fatto negava la dottrina del peccato originale e rendeva inutile la redenzione di Cristo. 

Interessante notare, poi, che per Sant’Agostino, dopo una iniziale e giovanile adesione al manicheismo, il male è, di per sé, negazione, mancanza di bene, non essere, non dipende da Dio, ma dall’uomo, il quale  ha la responsabilità morale delle proprie azioni. In particolare, chi lo pratica compie un atto che va contro sé stesso: egli – più che scegliere il male – fallisce la scelta, sceglie male, cioè non accoglie quella verità che lo chiama e lo attende, optando così per una sorta di degradazione, una realtà inferiore e pericolosa per la propria anima. Tali riflessioni sul male e sulla scelta possono essere per noi oggi più che mai feconde, vere e proprie illuminazioni che ci fanno meditare sull'importanza del discernimento nella nostra vita, onde evitare derive fatali a causa del nostro egoismo e della nostra sete di potere.

Per concludere, da queste brevi considerazioni sull'opera di Sant’Agostino (ce ne sarebbero altre da aggiungere, come quelle relative alla dimensione del tempo e al rapporto tra fede e ragione), si può comprendere come il suo pensiero sia stato innovativo (soprattutto per l’interiorità concepita come principio filosofico) e abbia anticipato temi e problematiche assai rilevanti presenti nell’esistenzialismo cristiano (si vedano, per esempio, i concetti di verità, di libertà, di scissione interiore, di angoscia e di scelta).

Mauro Germani

domenica 10 agosto 2025

Georges Bernanos - Il signor Ouine


Georges Bernanos, Il signor Ouine, Logos, 1982 (I ed. italiana Mondadori, 1949)

A proposito di questo libro l’ultimo romanzo di Georges Bernanos (1988-1948), iniziato nel 1931, concluso nel 1940 e pubblicato prima nel 1943 a Rio de Janeiro in versione incompleta e poi a Parigi nel 1946 in quella integrale – Albert Béguin scrisse che per lo scrittore «nessuna tra le sue opere ha richiesto da lui, per ritrovar la sorgente nascosta, un accanito lavoro come Il signor Ouine». Si tratta infatti di un’opera complessa, dalla forma insolita, interrotta da spazi bianchi, puntini di sospensione e cambiamenti di prospettiva, come fosse sul ciglio di un precipizio, ossia costantemente attaccata dal nulla, sospinta in una sorta di buio delirio, in una dimensione in cui tutto si sfalda, tra immagini improvvise simili a quelle dei sogni, dialoghi febbricitanti sempre in sospeso e dissolvenze in nero. Perché il villaggio di Fenouille, nell’Artois, oltre a essere inzuppato di pioggia e immerso nel fango, rivela un profondo stato di perdizione, di vuoto e di mancanza di bene, se si esclude la figura – anch’essa, però, assai tormentata – del giovane parroco (tanto che il primo titolo pensato da Bernanos fu La paroisse morte).

La storia ruota attorno al delitto di un piccolo vaccaro e ad alcuni personaggi inquieti e inquietanti. Tra tutti spicca il signor Ouine, solitario professore di lingue in pensione, ammalato da tempo, di cui subisce l’ambiguo fascino il ragazzo quattordicenne Philippe, in cerca della propria identità e della propria libertà. Ouine ha una capacità disgregatrice e ammaliante insieme, incarna il vuoto esistenziale di tutti gli abitanti del villaggio, l’assenza di ogni dimensione soprannaturale. Egli è un egoista che vive nell’isolamento e contemporaneamente manifesta una strana curiosità nei confronti della vita altrui, parla bene dell’infanzia e nel medesimo tempo è la testimonianza di chi la uccide con il suo comportamento. «Come quegli esseri viventi gelatinosi in fondo al mare, io fluttuo e assorbo» afferma a un certo punto; e più oltre si chiede: «Avrò forse due anime, come alcuni animali hanno due stomaci? O due coscienze?», ma alla fine, poco prima della morte, rivela il suo vero stato d’animo:« Anch’io sono vuoto. Mi vedo ora fino in fondo, nulla ferma la mia vista, nessun ostacolo. Non c’è nulla. Nulla». A proposito di Ouine, Beguin afferma che «è una specie di prete di Satana» e che mostra «l’intelligenza di un uomo diventato vecchio, l’irrimediabile solitudine di chi non sa amare, fino a non amare nemmeno sé stesso, l’abominevole tristezza di colui che ha soffocato ogni gioia sotto la demoniaca curiosità».

In questo romanzo ogni personaggio è un posseduto, parla con una voce che sta dentro di sé come un segreto che egli stesso fa fatica a comprendere. Ne è prova il linguaggio dei dialoghi, che non è quasi mai esplicito e diretto, ma involuto e sospeso, caratterizzato da improvvise accensioni e altrettanto improvvisi silenzi, in cui si susseguono iperboli, ellissi, allusioni e reticenze. Il risultato è che gli stessi dialoghi paiono piuttosto dei monologhi, nei quali chi parla è un altro, una voce profonda che sale dagli abissi dell’anima e interferisce con la dimensione cosciente. Ciò che interessa Bernanos è proprio questo: far emergere il mistero che si cela dentro i personaggi e che rivela una lotta interiore tra forze contrapposte, ossia tra ciò che tende a disgregare e ad annientare e ciò che invece mira a costruire e a unire. In questo romanzo sembra prevalere la pars destruens, contro cui però combatte – come già evidenziato in precedenza – il giovane prete del villaggio, il quale, con parole inconsuete e forti, denuncia in chiesa il male che assedia il villaggio di Fenouille dominato dall’odio, dall’egoismo, dalla degradazione e dalla follia: «Ci sono ancora molte parrocchie nel mondo» afferma il nuovo parroco. «Ma questa è morta. È morta forse da molto tempo? Non volevo crederlo. Finché sarò qui, mi dicevo… Ahimè! Un uomo solo non fa una parrocchia». E ancora: «Un delitto è cosa che riguarda solo la giustizia e i giornalisti, non è vero? Non importa. Basta un pizzico di lievito in più per fare inacidire tutta la pasta. Il male era già in voi, ma ha cominciato come a uscire dalla terra, dai muri». 

A proposito della follia presente nel libro, è opportuno precisare che non sempre nelle opere di Bernanos è negativa, poiché può essere anche positiva, quando è mossa da un’intensa componente spirituale che l’accomuna allo spirito d’infanzia evangelico, a uno slancio che va oltre la chiusura dell’Io in sé stesso, anche se ciò comporta sempre non poche difficoltà e incomprensioni nelle relazioni umane e soprattutto in ambito sociale. Interessante in questo romanzo è inoltre il fatto che la morte del piccolo vaccaro resta un mistero insoluto, in quanto non sono svelati né il movente, né il colpevole; i sospetti, infatti, cadono su tre personaggi: Ouine, Jambe-de-laine ed Eugène, ma nulla viene chiarito, perché sono le conseguenze di quanto accaduto ad avere il sopravvento. In questo senso le aspettative “poliziesche” del lettore vengono deluse: il romanzo è ben altro, è una sorta di discesa agli inferi, un incubo con complessi risvolti esistenziali e spirituali, nel quale ancora una volta gioca un ruolo determinante il paesaggio, che in Bernanos si delinea – come ha osservato Pierrette Renard – «spirituale», in quanto non è mai un «elemento decorativo», ma carico di simboli ed espressione di ciò che è nell’intimo dei personaggi.

Il signor Ouine è un’opera non certo di facile lettura, come del resto le altre dello scrittore francese, un’opera di drammi e di domande, ma anche di una tensione spirituale che cresce di pagina in pagina. Si potrebbe pensare a un romanzo completamente privo di speranza, ma non è così. O meglio: è proprio la mancanza di quest’ultima in quasi tutti i personaggi (Ouine soprattutto) che decreta l’immenso valore di essa, ritenuto fondamentale da Bernanos. «Il mondo non ha più il tempo di sperare: la vita interiore dell’uomo moderno ha ormai un ritmo troppo rapido perché vi si formi e maturi un sentimento così ardente e così tenero» – ebbe modo di scrivere. E aggiunse: «La tradizione della speranza è tra le mani dei poveri, così come le vecchie ricamatrici di Bruges conservano il segreto di un punto che le macchine non riusciranno mai a imitare».

Mauro Germani

A proposito di Georges Bernanos, su questo blog:

Sotto il sole di Satana

Citazioni dalle opere di Georges Bernanos



lunedì 28 luglio 2025

Léon Bloy - Il disperato

Léon Bloy, Il disperato, Edizioni Paoline, I ed. 1959, II ed. riveduta e integrata 1977

Romanzo autobiografico e, al contempo, anomalo, multiforme, furioso e visionario, Il disperato (1887) di Léon Bloy (1846-1917) contiene i grandi e complessi temi che caratterizzano l’opera dello scrittore francese: il simbolismo della storia e delle lacrime (appreso dall’abbé Tardif de Moidrey), lo scontro con il mondo in nome di una fede lacerante, la decadenza religiosa della propria epoca, gli assalti del male e la vocazione al martirio, l’ansia escatologica, la povertà come segno e mistero cristico, la disperazione come grido e ricerca di santità. Il cristianesimo di Bloy è una sfida alla modernità, alla vita comoda e all’ipocrisia: è intriso di sangue e di sacrificio, è eroico nella sua sfida al male e alle tenebre, sempre sull’orlo della solitudine e dell’estremo abbandono, ma aspira tenacemente alla verità promessa, alla redenzione eterna. È un cristianesimo senza pace, perché la pace per Bloy non può essere di questo mondo, ed è inoltre intransigente, perché le Sacre Scritture non lo sono. Tuttavia, in mezzo alle invettive, agli eccessi, alle deformazioni della cronaca e della storia, è rinvenibile, nelle pagine dello scrittore, una spiritualità dolce, un misticismo che trapassa l’orrore della putredine, del peccato e del male. Perché lo sguardo di Bloy è comunque sempre oltre, pur segnato dalla sofferenza e dal dolore. Anzi, la tribolazione risulta necessaria per la via celeste, è propria di chi diviene ultimo tra gli ultimi, come Cristo, che è il vero agonizzante e il vero povero, colui che continua a morire sulla croce per noi. 

Il protagonista (presente anche nel secondo romanzo di Bloy La donna povera, in un ruolo non di primo piano, ma pur sempre alter ego dell'autore) è un personaggio oppresso dall’angoscia («Era uno di quegli esseri miracolosamente fatti per la sventura»), uno scrittore solitario in lotta con il mondo e con l’ambiente letterario che lo circonda, un’anima infelice, divisa tra amore e disperazione, assetata di assoluto, che sa essere feroce nei confronti di una società che disprezza profondamente. Assediato da un passato tumultuoso, trafitto da una conversione radicale, che lo spinge a un’espiazione continua, egli non può che essere un dilaniato, un duellante dello spirito, un combattente folle, un incompreso dai più. La sua esistenza è sempre sull’orlo dell’abisso, esposta a un destino avverso, ai margini di una società crudele e chiusa in sé stessa, dominata dal denaro, dalla falsità e dall’arrivismo. Il nome che porta, Caino Marchenoir, è il segno inequivocabile della propria disperazione («Marchenoir era nato disperato») e di una duplicità inquietante: Caino gli viene attribuito per sfida dal padre – piccolo borghese massonico, «adoratore di Rousseau e di Beniamino Franklin», che sarà sempre fortemente contrario all’inclinazione letteraria del figlio – , mentre la madre, spaventata, si affretta a farlo battezzare come Giuseppe-Maria; il nome malefico di Caino resterà nel registro dello stato civile e gli rimarrà pertanto addosso per tutta l'esistenza. Vivendo nella perpetua povertà, ma chiamato costantemente dal proprio martirologio e convinto che il Caso non esiste («la parola Caso era per lui un’intollerabile bestemmia, che si meravigliava di trovar sempre sulle bocche dei sedicenti cristiani»), s’imbatte in creature bisognose d’altro, cioè d’amore, donne perdute che misteriosamente si sentono attratte da lui e dalle quali anch’egli è attratto, nell’offerta di sé e del bene che nonostante tutto continua a gridare nel suo cuore. 

Tra queste occupa un posto di straordinario rilievo Veronica Cheminot, ex prostituta (che si riferisce chiaramente ad Anne-Marie Roulé con cui Bloy vivrà per qualche anno, prima di sposarsi con Jeanne Molbeck) del quartiere latino, conosciuta col nome espressivo di Ventosa, «splendida plebea che dieci anni almeno di prostituzione su venticinque non avevano potuto sciupare» e che «era stata vista vendersi in tutte le pescherie della lussuria, pendere a tutti gli uncini della grande tripperia del libertinaggio». Eppure questo «rifiuto di ragazza, seminata e raccolta nella spazzatura […] si era trasformata d’un tratto, per la miracolosa occasione del più profano amore, in un giglio dai petali di diamante e dal pistillo d’oro, brunito dalle più splendide lacrime che mai siano state versate». Ecco allora che Veronica diviene, sotto gli occhi di Marchenoir, un’altra persona, non solo pentita della miseria del suo passato, ma incarnazione di una spiritualità sconvolgente e di una purezza e di una semplicità assolute. La convivenza tra loro sarà sempre casta, anche se Marchenoir sarà tormentato dalle tentazioni della carne. Per questo, per umiliarsi sempre più e per espiare quanto accaduto nella sua vita precedente, Veronica sceglierà l’atto estremo, la folle mutilazione. Mentre Marchenoir si trova in ritiro alla Grande Certosa (di cui Bloy tesse un’accorata apologia, narrandone con passione la storia), la donna compie il «fatto orrendo», decidendo di sfigurarsi: si sbarazza prima dei propri capelli, poi si fa cavare tutti i denti, senza un anestetico efficace, da «un piccolo giudeo bisognoso, che viveva di venti mestieri più o meno sospetti» e che «per due franchi avrebbe pulito con la lingua un tavolo dell’obitorio». 

Pagine terribili sono dedicate all’esecuzione dell’atroce intervento, durante il quale Veronica prova un dolore tremendo e perde i sensi «Quando la mascella superiore fu completamente sguarnita, il carnefice dovette fermarsi. La sventurata aveva perduto conoscenza e si contorceva tra spasimi. Dovette rianimarla, ristagnare il sangue che sgorgava a fiotti, arrestare l’emorragia, calmare i nervi, cose tutte familiari a quell’onnisciente della bassa chirurgia». È questo un momento centrale del romanzo, che prosegue alternando la nuova tragica prova a cui Marchenoir è sottoposto a riflessioni sulla «Chiesa incarcerata», sull’arrendevolezza dei cattolici e sulla masnada di giornalisti e letterati parassiti del tempo, fino all’«ultima catastrofe»: la follia di Veronica e l’incidente di cui Marchenoir rimane vittima. Il destino di quest’ultimo si compirà nella solitudine assoluta, senza nemmeno il conforto dei sacramenti tanto desiderati. 

La sorte avversa, la passione, il dolore, l’angoscia del protagonista si configurano come le tappe di un calvario che non smette però di guardare all’assoluto, di sentire nell’anima qualcosa di ardente, una luce dentro la disperazione. Leggere questo romanzo sui generis, all’interno del quale non troviamo solo la narrazione di una vicenda, ma anche la riflessione storica, morale e teologica, secondo la veemenza e la visionarietà tipiche di Lèon Bloy, è in realtà un’avventura dello spirito, un impatto esistenziale da cui comunque (e per fortuna) non si esce immuni.

Mauro Germani

A proposito di Léon Bloy, su questo blog: 

Storie sgradevoli

La donna povera

Leon Bloy - Pensieri