A ben pensarci, ogni filosofia rivela in modo più o meno esplicito una precisa concezione dell’uomo. Quella di Blaise Pascal (1623-1662), relativa alla sfera etica e religiosa (egli fu anche importante matematico e fisico nella prima parte della sua breve vita), risulta assai originale se posta in relazione non solo con il XVII secolo – il suo – , ma anche con quanto elaborato dalla Scolastica dei secoli precedenti (si pensi, per esempio, ad Anselmo d’Aosta e alle sue pur mirabili prove a posteriori e a priori dell’esistenza di Dio, o alla monumentale e prodigiosa opera di Tommaso d’Aquino, per il quale il pensiero aristotelico si compone in una sintesi equilibrata tra ragione e rivelazione, ed enuncia le celebri cinque prove dell’esistenza divina). Pascal non ritiene infatti che la sola ragione possa dare un contributo decisivo in un campo che la trascende, in quanto le nostre capacità razionali risultano in questo senso limitate e incompiute. A tal proposito, si può citare la seguente affermazione: «L’ultimo passo della ragione sta nel riconoscere che vi è un’infinità di cose che la sorpassano. Incomprensibile che Dio sia, e incomprensibile che non sia».
Ciò potrebbe far pensare a un atteggiamento di distanza dalla fede, ma non è così, anzi. Pascal – che fu vicino a partire dal 1654 all’ambiente di Port-Royal e al giansenismo, in opposizione al lassismo dei gesuiti e alla loro “casistica” predisposta per la coscienza, come risulta dalle Lettere provinciali del 1657 – aveva ben presente la duplicità della natura umana: «Che cos’è l’uomo nella natura? Un nulla in confronto all’infinito, un tutto al confronto del nulla, un qualcosa di mezzo fra nulla e tutto». Ecco, dunque, per Pascal la condizione dell’uomo in bilico, esposta continuamente al rischio esistenziale e alle derive del libertinismo allora di moda, che esprimeva una mentalità laica (e talvolta ipocrita), nella quale il razionalismo cartesiano era unito a motivi scettici.
In questo contesto, è proprio la rivelazione cristiana ad assumere, per il filosofo francese, un ruolo fondamentale, ma in una forma insolita: l’intento apologetico di fondo non è mai separato da una continua osservazione critica rivolta all’uomo, di cui egli mette in rilievo al contempo la miseria e la grandezza. Non c’è in Pascal alcuna dimostrazione di Dio, quanto piuttosto la convinzione della necessità della fede cristiana e della grazia (in accordo, pertanto, con Sant’Agostino), come uniche possibili risposte all’enigma dell’uomo e alla sua natura corrotta dal peccato originale: «Il peccato originale è follia davanti agli uomini, ma viene dato per tale. Voi dunque non dovete rimproverarmi il difetto di razionalità in questa dottrina, poiché io la presento come irrazionale. Ma questa follia è più saggia di tutta la saggezza degli uomini, sapientius est hominibus. Infatti, senza di essa, cosa può dirsi della natura umana? Tutto il suo stato dipende da questo punto impercettibile. E come avrebbe potuto l’uomo rendersene conto con la sua ragione, dal momento che è una cosa contro la sua ragione, e che la sua ragione, ben lungi dal ritrovarla per le sue vie, se ne ritrae quando vien presentata?».
Del resto è noto come egli avesse in progetto una Apologia del cristianesimo, che però non venne compiuta a causa della sua salute precaria, e i cui frammenti vennero poi riordinati e pubblicati nel 1669 dai suoi amici di Port-Royal con il titolo Pensieri – la sua opera più celebre. È poi interessante sottolineare l’importanza del ritrovamento, dopo la sua morte, del cosiddetto Memoriale, un testo autografo, datato 23 novembre 1654, cucito nel suo vestito (e che portava pertanto sempre con sé): una testimonianza di una vera e propria esperienza mistica, da lui descritta come Fuoco, nella quale contrappone al Dio dei filosofi la figura di Gesù, verso cui egli dichiara la propria sottomissione. Da aggiungere inoltre che Pascal scriverà, probabilmente verso il 1650, anche un Compendio della vita di Gesù Cristo, libro scoperto e pubblicato solo verso la metà dell'Ottocento, che consiste nella narrazione della vita esemplare di Gesù sulla base di una lettura puntuale e rigorosa dei quattro Vangeli, accompagnata da brevi considerazioni dottrinali.
Se la natura umana è fragile e contraddittoria, sedotta dal divertissement, cioè dalla distrazione esistenziale e dalla ricerca del piacere (secondo una concezione che troviamo, secoli dopo, in Aut-Aut di Kierkegaard, a proposito del cosiddetto stadio estetico, rappresentato dal mito di Don Giovanni), non c’è altra via di salvezza per Pascal che nella religione cristiana, unica risposta al desiderio d’infinito dell’uomo e che ci viene rivelata dalle Sacre Scritture, dalle varie profezie e dai miracoli. Il divertissement nasconde in realtà qualcosa di tragico, una profonda lacerazione e disperazione, un vuoto, una noia, una paura della morte, che vengono illusoriamente colmati dalle incessanti attività umane, compresa la guerra e il gioco: è tutto ciò che distoglie l’uomo dal pensare alla propria condizione: «Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno preso partito, per rendersi felici, di non pensarvi». E ancora: «La sola cosa che ci consola dalle nostre miserie è il divertimento, e tuttavia è la più grande delle nostre miserie. Perché è proprio quello che ci impedisce principalmente di pensare a noi e che ci porta inavvertitamente alla perdizione».
È indubbio, pertanto, che questo atteggiamento di fuga da sé stessi, non può costituire un’alternativa autentica, degna dell’uomo, al suo malessere interiore, in quanto in tal modo viene sospesa la ricerca della verità, la quale comporta fatica e sofferenza, ma è proprio il cercare gemendo, cioè il cercare con umiltà, a partire dal riconoscimento della propria miseria, che – secondo Pascal – conduce alla fede. Essa non può essere conquistata da prove e dimostrazioni, che possono risultare valide solo per chi già la possiede, eppure occorre avere la consapevolezza che all’uomo spetta la decisione: non è possibile rimanere neutrali, sottrarsi alla scelta, restare indifferenti, fare finta che il problema religioso non esiste. L’impotenza a credere deriva per Pascal dal prevalere di passioni e di comportamenti non idonei, da qualcosa che in fondo blocca l’uomo, lo restringe unicamente a sé, lo chiude e lo condanna a una sconfitta del cuore, termine quest'ultimo che indica la facoltà di cogliere i princìpi indimostrabili.
La famosa e controversa scommessa per il Dio dei cristiani di Pascal si inserisce allora in questo contesto, cioè relativo al non credere, e non riguarda pertanto la vita del filosofo, il suo intimo sentire. Si tratta di un’esortazione pratica e razionale, basata sulla convenienza del credere che, a dire il vero, può sconcertare e sollevare non poche perplessità, in quanto Pascal propone una scelta basata sul calcolo, e cioè opportunistica, non autentica, in contrasto con il giansenismo e con il primato della grazia in cui egli credeva. Tuttavia essa può rientrare nella paradossalità della fede, la quale è oltre la ragione, ma permette altresì la possibilità di scommettere per essa in modo sensato; una sensatezza, comunque, fondata su contenuti che eccedono la ragione: «La nostra religione è saggia e folle. Saggia perché è la più dotta, la più fondata in miracoli, profezie, ecc. Folle, perché non è questo che fa sì che si appartenga ad essa».
Al di là delle critiche che la teoria della scommessa ha suscitato in alcuni, l’opera di Pascal è da considerarsi di straordinaria importanza, sia per la speculazione filosofica incentrata sulla condizione umana – come, in modo diverso, possiamo trovare in Montaigne –, sia per la scrittura che risulta assai efficace e privilegia il frammento e l’aforisma. Inoltre occorre aggiungere che molte riflessioni, come quelle relative al divertissement, appaiono ancora estremamente attuali nella loro drammaticità.
Mauro Germani