«Gli esseri non possono accordarsi che nella verità, ma questa è inseparabile dal riconoscimento del grande mistero da cui siamo circondati e in cui abbiamo il nostro essere»: così Gabriel Marcel (1889-1973), in Dal rifiuto all’invocazione (1939), pone al centro del suo pensiero la dimensione del mistero in rapporto all’essere. Per il filosofo francese, però, la questione ontologica non deve considerarsi in modo astratto, bensì concreto, in quanto legata all’esistenza, come afferma già nel Giornale metafisico del 1927, cioè rivolta necessariamente alla descrizione esistenziale, in polemica pertanto con l’idealismo hegeliano, che comporta la riduzione del ruolo dell’esistenza, e con lo scetticismo, che invece dubita dell’esistenza stessa.
Nella riflessione di Marcel è presente una distinzione importante tra problema e mistero. Mentre il primo si riferisce a quanto è oggettivabile e misurabile, in una separazione fredda e distaccata tra soggetto e oggetto, il secondo è qualcosa che coinvolge, che è tutt’uno con l’esperienza concreta e interiore dell’uomo. Secondo Marcel, quello dell’essere non si può ritenere un semplice problema, intorno al quale sviluppare un’indagine esteriore in cui soggetto e oggetto appartengono a piani diversi. L’essere, in realtà, comprende, non esclude, chiama a sé, e lo fa nella concretezza vissuta da ciascuno di noi. Ed è interessante, a questo proposito, sottolineare quanto Marcel afferma riguardo al corpo, superando il dualismo di Cartesio: io non solo ho il mio corpo, ma al tempo stesso sono il mio corpo, poiché la mia esistenza non si basa esclusivamente sull’avere, ma è in relazione stretta con l’essere.
Tra l’altro, proprio quando l’avere, in ogni campo, domina sull’essere, risulta inevitabile un pericolo per l’uomo, perché ogni individuo viene degradato, non è più considerato persona da rispettare nella propria umana dignità, ma qualcosa che in qualche modo rientra nella logica del possesso, dell’utilità: si tratta, cioè, di un «esso», di una prevalente impersonalità che infrange la relazione originaria Io-Tu, la quale va riconosciuta invece come parte integrante del mistero dell’essere: l'essere è un Tu che chiama, che mi interpella e mi fonda.
Queste riflessioni non sono di poca importanza, perché la considerazione dell’essere come mistero implica, per Marcel (di religione ebraica, ma convertito al cattolicesimo nel 1929), un’apertura verso la trascendenza. Il mistero rinvia a una dimensione ulteriore e superiore, che non può esaurirsi con l’uso della ragione, né con lo studio accademico della filosofia. Prima di tutto il filosofo non è un semplice professore di filosofia, poi deve riconoscere di far parte anch’egli della condizione umana, non è esente da ciò che l'esistenza comporta e deve tenerne conto. Ecco dunque l’importanza della responsabilità del pensiero e del compito storico del filosofo, in un mondo sempre più complesso e a cui si è tentati spesso di rispondere, per reazione, con grande superficialità. Occorre che il filosofo mantenga la consapevolezza che ciò che tratta va oltre il suo stesso pensiero, perché si agita in lui qualcosa di più grande. Parlare di mistero dell’essere, significa da un lato scongiurare il pericolo della superficialità, e dall’altro perseguire un continuo discernimento, una ricerca aliena dal possesso, dall’autocompiacimento, dall’affermazione di sé, ma rivolta al bene comune e alla considerazione dell’Altro, inteso nella sua intima sacralità. Perché l’unico atteggiamento autentico davanti al mistero che è in noi e attorno a noi non è, per Marcel, quello dell’analisi operata dalla ragione, che tende a disconoscerlo, o cerca di schematizzarlo per comprenderlo e risolverlo come un problema, ma il riconoscimento di un Tu, di un legame originario dal quale l’io non può prescindere, pena lo smarrimento, o addirittura il proprio annullamento. Ecco allora che l’amore e la fedeltà assumono un valore decisivo perché sono da sempre in relazione con il fondamento originario dell’essere, con il suo mistero. Amore e fedeltà non hanno nulla a che fare con l’avere, con il possesso, ma sorgono dalla fonte dell'essere, da quella gratuità che è propria della vita nel suo senso più autentico.
E a proposito della minaccia dell’avere che toglie spazio all’essere, non si può trascurare quanto Gabriel Marcel scrisse in riferimento alla tecnica. Essa presenta indubbiamente aspetti positivi, ma rischia anche di imprigionare l’uomo quando quest’ultimo non riesce più a controllarla, affidandole un potere eccessivo. In questo caso, è possibile assistere a un fenomeno molto pericoloso, cioè a una svalutazione dell’essere umano e a una negazione della trascendenza. Il monito di Marcel risuona oggi più che mai attuale. Attribuire alla tecnica la risoluzione di ogni cosa (come purtroppo oggi sovente accade) significa polverizzare il soggetto, svuotarne le potenzialità propriamente umane e praticare una terribile desacralizzazione della vita. Nella sua opera Il sacro nell'età della tecnica (1964) già drammaticamente scriveva: «La vita è considerata sempre più qualcosa che non presenta alcun valore intrinseco e che si può sopprimere pressappoco come si gira un interruttore».
Dov’è più allora il mistero? Dov’è più l’umiltà dell’uomo davanti a ciò che è sacro e lo trascende? Non c’è forse in questa possibile scomparsa una profonda disperazione, una malattia dell’io e del possesso, una cecità di fronte al bene e alla verità, che pure sono dentro di noi, ma restano offuscati al nostro sguardo?
Gabriel Marcel ci dice che occorre recuperarlo, questo bene, e riconoscerlo – prima che sia troppo tardi – come fondamento del nostro essere, nel suo mistero e nella sua speranza: «Solo esseri totalmente liberi dalla pastoie del possesso in tutte le sue forme sono in grado di conoscere la divina levità della vita nella speranza».
Mauro Germani






