mercoledì 11 dicembre 2024

Giovanni Nuscis - Il tepore che resta

 


Giovanni Nuscis,
Il tepore che resta, Arcipelago Itaca, 2024

Giovanni Nuscis, con questa sua nuova raccolta, prosegue con coerenza la propria poetica, caratterizzata dalla nitidezza e dall’andamento piano e al tempo stesso vibrante dei versi: una scelta stilistica sorvegliata e rigorosa, sempre sobria, senza eccedenze. Attraverso le cinque sezioni presenti nel volume, è possibile cogliere una continuità tematica con il libro precedente, Il grande tempo è ora (Arcipelago Itaca, 2021): le riflessioni sull’esistenza si alternano o si intrecciano con quelle sulla società, sull’amore e sulla poesia, con uno sguardo attento al particolare, ai dettagli apparentemente trascurabili, che però assumono nel contesto poetico in cui sono inseriti grande rilevanza, divenendo segni rivelatori, tracce illuminanti nel tempo, spie di una realtà complessa, colta nei suoi contrasti, nelle sue contraddizioni, e in tutte quelle fragilità che spesso vengono ignorate per comodità o convenienza.

Quello di Nuscis è uno sguardo essenzialmente etico, improntato a un continuo discernimento che egli non indirizza solo alla nostra società, ma anche a sé stesso, mediante un esame delle proprie percezioni e del proprio intimo sentire: un atteggiamento che rivela un’onestà di fondo, una ricerca di equilibrio interiore nonché di una spiritualità che chiede di essere salvaguardata («Oh gravità / che anche il più basso dei voli interrompi / riportandoci a terra, / noi che solo volo siamo»), nonostante i momenti di malinconia dovuti al trascorrere del tempo, alle nuove fragilità, o all’indifferenza e agli egoismi che hanno il sopravvento nel nostro vivere quotidiano. Ecco dunque l’importanza dei varchi da scorgere e da attraversare come luci nel buio: «Se non fosse per voi / sottili varchi / nei muri rimbalzanti dei giorni; / se non fosse per le lotte /commoventi e solitarie / contro anomie e ingiustizie; / se non fosse per gli sguardi inarresi / le menti indocili, la fede / che spinge a cercare tra macerie / la piccola pepita del vero / che ci illumina e commuove, / cosa sarebbe la vita?». O, ancora, la speranza di una casa che da sempre ci aspetta:«Un mondo per te s’affaccia di nuovo / e tutto, tutto ogni volta / è un bacio di Dio sulla fronte».

È interessante notare poi l’uso frequente in vari testi della seconda persona singolare, ovvero un tu indefinito e multiplo, a indicare una sorta di interrogativo specchiarsi in altri, vale a dire una consapevolezza relazionale, che significa oltrepassare i confini incerti del proprio io per cercare un riconoscimento, una effettiva comunanza di intenti e di affetti, oppure – all’opposto – una netta e decisa presa di distanza da pratiche dominanti prive del minimo rispetto etico e sociale. Ed è in quest’ultimo caso che risuona l’allarme di Nuscis, un monito per non smarrire negli attuali tempi confusi e senza pace la nostra umanità e quei valori fondamentali di giustizia, di equità sociale, di condivisione e di convivenza civile senza i quali si spalanca il baratro dentro e fuori di noi («Non sarete voi a trattarla la pace / cari morti / ma i sopravvissuti, / compresi quelli / che la guerra hanno voluto / – statue con braccia conserte / in cima a dolorose macerie»).

C’è inoltre, in questa raccolta – come già evidenziato in precedenza – una componente più decisamente personale, più intima, rinvenibile nei testi riguardanti l’amore o le poesie dedicate ai figli, ai parenti o a chi non c’è più («Ecco, queste cose tenevo a dirti, / che lego con spago d’inchiostro / perché ti giungano, e da lì / magari possa sorriderne»), mentre nella quinta sezione è la stessa scrittura poetica a essere protagonista. E ancora una volta emerge la profonda sensibilità di Giovanni Nuscis: il mettere a fuoco immagini minute ma nitide da conservare nella memoria, sguardi, fotografie, scorci di paesaggio, semplici gesti, dettagli che improvvisamente spiccano nelle brevi descrizioni, insieme alla volontà di comprendere, di preservare una sorta di segreto da custodire nel cuore («Parole semplici coltivavamo / sogni leggeri /cuori aperti a confidenze / tradite qualche volta in allegria»).

E a tutto questo è da aggiungere il mistero della poesia, tra destino («Io non ti ho scelta / mi sei arrivata / perché potessi dare un nome / un suono, un senso alle cose») e imponderabilità della lingua, sempre in bilico tra espressione e sottrazione («Il nespolo mi guarda da oltre il vetro. / Sono attraversato da un verso / che non è quello che scrivo. / Stretto è questo rigo / per contenervi il tronco e la linfa»).

A ben vedere, anche in questo libro così variegato, ma non privo di rimandi interni e di inesausta ricerca, è – come nel precedente – il tempo a essere al centro della raccolta: un tempo da ricordare e da interrogare, affinché ciò che è stato una volta e ciò che è ora non sia vano, ma in qualche modo abbia valore di testimonianza per noi stessi e per chi verrà dopo di noi: un tepore che resta.

Mauro Germani