lunedì 17 giugno 2019

Luca Lanfredi - Il coraggio necessario



Luca Lanfredi, Il coraggio necessario, Lamantica Edizioni, 2019

In continuità con la raccolta precedente, Il tempo che si forma (L’arcolaio, 2015), Luca Lanfredi ci consegna una poesia sommessa, incrinata dal vuoto, e al tempo stesso segnata dall’esistenza, dove la parola appare senza enfasi alcuna, tra luce ed ombra, in momenti appena accennati, in “scatti brevi”, in movenze incerte tra passato e presente, “da una crepa di voce”. La pagina sorprende istanti e pensieri che attendono o che sono attesi, come se il loro manifestarsi fosse l’approssimarsi di qualcosa di ineluttabile o la conseguenza d’altro, un affiorare lento alla coscienza di una condizione esistenziale, di un disincanto: “la luce che ancora si frappone tra la distanza / e il guado che l’annienta”.
C’è spesso un prima e un dopo nei versi di Lanfredi: qualcosa che è accaduto una volta per sempre e che segna una sorta di confine più o meno sottile o marcato tra ciò che è lontano ed ormai sembra indicibile, in cui “ci si era solamente esercitati / a essere giovani, a dissetarsi, a / assolversi”, e ciò che si constata nel presente, perché “si entra nel tempo dei vuoti, adesso”. Un tempo prima del tempo, dunque, e un tempo vero, qui ed ora, sospeso ed esitante, dilaniato, o quasi cancellato da una fine - ma che comunque chiama: “Scorro le immagini al contrario, / iniziando da quelle più scure. / Dovrei darmi da fare, mi dici”: è lo stallo di chi non sa trovare un “vivere assoluto”, iniziare il suo giorno. O come chi cerca altrove se stesso e dice a tutti e a nessuno: “Né qui né lì”, perché la vita è cambiata, “è vita d’altra cosa”, e la propria inettitudine, la propria mancanza diventano una fuga impossibile, una fuga da fermo.
È inoltre possibile cogliere nei versi un tu ed un noi: presenze sfumate, appena accennate nelle loro scarne espressioni e nei loro semplici gesti, in un pudore che è scrittura sottratta eppure incisiva nella sua frammentarietà, ad indicare uno spazio da colmare nei tentativi della vita, negli affetti che vogliono esistere, a dispetto di un destino sradicato e nella segreta speranza di “aprire alla terra le parole”, come dice il titolo di una sezione del libro.
Lanfredi, con la sua poesia, accosta ed allontana, mette a fuoco e dissolve.
La sua è una voce che risuona da una distanza ed arriva fin dove qualcosa è successo, ma nella pronuncia si frange, declina, s’inabissa. In movimenti lenti, quasi impercettibili, i versi si aprono e si chiudono, lasciando tracce che sono, di volta in volta, rivelazioni d’esistenza, trasalimenti, ipotesi di realtà, domande o misteriose verità capovolte, come in una pellicola in cui i soggetti escono improvvisamente fuori campo, eppure qualcosa resta della loro presenza: un’ombra, una voce, un gesto. Ed è proprio attorno a ciò che resta che ruotano i versi di Luca Lanfredi: essi sono le conseguenze di una sparizione, e la parola – per il poeta, ma in fondo per tutti noi –  diventa un fantasma inafferrabile.
La sezione intitolata La città vecchia è attraversata da domande e da un’assenza percepita come distanza fra sé e sé: “Non ho mai detto di me: ho solo scritto”, in uno sdoppiamento tra vita e scrittura, o in un ritardo tra parola e tempo: “Come mai? Come mai / è sempre tanto tardi?”. La città, che “dicono” vecchia, conserva il passato ed è simile ad un linguaggio murato nel presente, ad una contraddizione insolubile di salvezza e di perdizione: “Chi vive non è mai salvo. / Chi vive non è perduto”. Questo a significare l’enigma dell’esistenza, dove il prima, il dopo e l’ancora sfumano nei versi i contorni del reale, del tempo e della stessa città, che forse è anche uno spazio letterario, al pari della poesia che “parla dei morti / come di quelli che non lo sono / più”, perché chiamati o addirittura divenuti essi stessi parola sfuggente e misteriosa.
E a questo punto – per meglio comprendere l’approccio alla poesia di Lanfredi – possono risultare illuminanti le parole di Maurice Blanchot, quando afferma che la scrittura poetica “non è data al poeta come una verità e una certezza a cui accostarsi; egli non sa se è poeta, ma non sa neanche che cosa è la poesia, e neppure se è; essa dipende da lui, dalla sua ricerca, dipendenza che tuttavia non lo rende padrone di ciò che egli cerca, ma lo rende incerto di se stesso e come inesistente”.
La riflessione di Blanchot bene si accosta al modo d’essere e al sentimento poetico di Luca Lanfredi, alla sua poesia solitaria, così lontana – per nostra fortuna – da quella spettacolarizzata e vanamente e narcisisticamente promossa sui social network da tanti, troppi autori contemporanei. Perché Lanfredi sa che la poesia ha bisogno di silenzio, di lavoro lungo e paziente: essa è misteriosa, c’è e non c’è, va chiamata ed ascoltata e non le si addicono i clamori, ed i poeti veri – poi –  che sono pochissimi,  non devono che assecondarla con la loro esistenza marginale, proprio come fantasmi d’Altro.
Così questa mancanza, questa dimensione di non appartenenza o di sostanziale ambiguità tra l’atto dello scrivere ed il poeta stesso, ha il corrispettivo in Lanfredi in una più vasta condizione esistenziale, vale a dire in quella terra di mezzo abitata dai suoi versi, nei quali chi parla, chi appare e scompare è nel tempo, è caduto nel tempo, tra un passato in parte ignoto ed un presente assediato dal nulla.
Non si sa se in questo scenario di privazione potrà succedere davvero qualcosa, magari una “vita nuova” o un’infanzia fondante, rigeneratrice. Ciò che resta, ora, è “l’essere ultimo di un durevole vuoto”, la volontà di capire ciò che manca o che svanisce allo sguardo interrogante: “Che si abbia / il coraggio necessario per vivere o morire / in quest’assenza”.

Mauro Germani
 (dall'Introduzione al volume)