sabato 19 marzo 2016

Intervista araba

Intervista a  MAURO GERMANI
a cura di Ahmed Loughlimi

Vorrei iniziare quest’intervista con il primo incontro di MAURO GERMANI con la poesia. Quando è successo il colpo di fulmine, oppure è stata una scelta? E chi ha scelto l’altro: la poesia o Germani?
Credo che sia stata la poesia a scegliere me. Mi ha chiamato fin da bambino. Mio fratello, più grande di me di undici anni, mi leggeva i suoi versi e quelli di autori classici come Pascoli. Io certo non capivo, ma ero affascinato dal mistero di quelle parole che in qualche modo restavano dentro di me nel loro suono e nel loro enigma.
Che cos’è la poesia secondo lei?
La poesia è gettata nel mondo e non ha protezioni, è indifesa. Viene dall’esistenza e cerca di dirla in uno sforzo estremo, in una tensione che i poeti conoscono bene. Non è consolatoria, né appagante. Si situa tra una sfuggente verità e il silenzio. Sfiora l’indicibile e non salva nessuno. Come dice Umberto Galimberti, la poesia ci porta nella sfera dell’indifferenziato, dell’originario, della follia che abita in noi e che rimuoviamo continuamente.
In un mondo materiale, barbaro, superficiale e pazzo come il nostro, qual è l’utilità della poesia, e quale ruolo ha oggi? Ci contiamo per  cambiare il mondo?
Sarebbe bello se la poesia potesse cambiare il mondo, ma non è così. Per cambiare il mondo dovrebbero cambiare gli uomini e la poesia non è in grado di cambiarli, se non in piccola parte. Anzi, la poesia, quella vera, spaventa.
Lei ha scritto anche narrativa e si occupa della scrittura di autori classici e contemporanei; come vede la narrativa italiana dei nostri giorni? E quali sono secondo lei gli scrittori contemporanei che rappresentano la narrativa come si deve?
A dire il vero adesso seguo poco la narrativa contemporanea. Non la trovo molto interessante. Mi sembra nel migliore dei casi che ci siano delle abilità nella costruzione delle storie, delle “furbizie tecniche”, ma niente di più. Non c’è nulla di estremo, manca la tensione dell’esistenza, non c’è “follia”, non c’è “sacro”. Esercizi di stile senza stile. Quello che manca spesso è la qualità della scrittura.
Lei ha fondato la rivista di scrittura, pensiero e poesia "Margo".Come vede la letteratura italiana contemporanea? E il racconto italiano chi lo rappresenta dopo i grandi Italo Calvino, Dino Buzzati, ecc.?
La rivista “Margo” è stata un’esperienza molto impegnativa. C’era da parte mia passione ed entusiasmo. Ero giovane e avevo più energia, ma più o meno le idee che avevo sulla scrittura sono le stesse di adesso. Ho avuto modo di conoscere più da vicino l’ambiente letterario italiano ed è stato abbastanza desolante, anche se ho conosciuto persone che stimo e di cui sono amico. Il racconto italiano oggi mi sembra morto. Non lo pubblica più nessuno, non so perché. E’ un vero peccato.
Chi sono i poeti e gli scrittori che hanno segnato Mauro Germani?
Tra i poeti italiani contemporanei soprattutto Roberto Carifi. Naturalmente ve ne sono anche altri, come ad esempio Mario Benedetti. Tra i classici Giorgio Caproni. Per quanto riguarda gli scrittori Dino Buzzati, a cui sono molto legato. E poi Kafka e Céline.
Lei ha scritto un libro sul grande Giorgio Gaber , “Il teatro del pensiero”. Ci parli un po’ di questo genio.
Gaber per me è stato fondamentale. Ne sento profondamente la mancanza. Vidi il suo primo spettacolo a 17 anni e rimasi folgorato. Mi è sembrato giusto dedicargli un libro, uno studio tematico sul suo teatro. E’ stato un grande maestro del dubbio, un artista davvero unico e profetico. Ha saputo rinnovare a modo suo l’esistenzialismo. La sua opera è ricca di riferimenti culturali: Céline, Sartre, Pasolini, Borges… Poi sulla scena sprigionava un’energia straordinaria. Alla fine di ogni spettacolo era stremato.
I suoi libri preferiti o diciamo i libri di cui ha sperato essere lei lo scrittore?
Sicuramente “Il Deserto dei Tartari” e i “Sessanta racconti” di Buzzati. Ma ce ne sono tanti altri. “Il processo” di Kafka, ad esempio.
In una o in poche parole. Il suo film o i suoi film preferiti?
Amo film molto diversi tra loro. Tra i registi prediligo Leone, Bunuel, Hitchcock. Sono molto legato in particolare a due film di Leone “Il buono, il brutto, il cattivo” e “C’era una volta il West”, che risalgono al periodo della mia adolescenza.
Il suo più grande poeta?
Come si fa a dirlo? Non mi piace definire chi è il più grande.
Che cos’è per lei l’amore?
L’amore per me è sempre segnato dalla mancanza, non è quella pienezza che sogniamo.
Il teatro?
E’ uno specchio in cui vediamo il nostro pensiero o il nostro nulla, una magia che quando è davvero tale ferisce.
Gli alberi?
Come le montagne o il mare o il cielo sembra che vogliano dirci un segreto antichissimo, qualcosa che ormai è impronunciabile.
La vita?
E’ qualcosa di incomprensibile, potente e fragile al tempo stesso. A volte spaventa.
La morte?
Ci accompagna sempre, ma lo dimentichiamo. E’ il nostro segreto.
La donna?
La donna è sempre un’altra, è sempre Altro. Può essere sogno, bellezza, dannazione o tutte queste cose insieme. E’ ciò che muta, che cambia sempre.
La bellezza?
E’ un enigma.
Il racconto?
Ogni racconto è un mondo che si apre, che ci viene incontro e che finisce. Non è mai un gioco. Ogni racconto è mortale.
La critica?
Non amo la critica accademica. Deve entrare nel testo, coglierne l’essenza, assorbirlo in un altro testo altrettanto valido, altrettanto creativo, se possibile.
La notte?
Ho sempre pensato che la notte e la mia poesia abbiano molte cose in comune.
Milano?
E’ la città in cui sono nato, la città dell’infanzia, della Bovisa, dei ricordi. Dagli anni Ottanta ha cominciato a perdere la sua identità. Mi dice sempre meno…
Gli amici?
Sono molto selettivo. Ne ho pochi.
Umberto Eco?
Un intellettuale indubbiamente, non certo un artista o uno scrittore.
Giorgio Gaber?
Lo sogno spessissimo da quando è morto. Una presenza costante per me.
Dino Buzzati?
Devo a Buzzati l’amore per la lettura, ma anche le mie prime domande sul destino dell’uomo.
Mauro Germani?
Non ho mai saputo chi sia veramente... 

Al-Sharq – 10 marzo 2016 – n. 10129