venerdì 24 luglio 2015

Fleur Jaeggy - Sono il fratello di XX



Fleur Jaeggy, Sono il fratello di XX, Adelphi, pp. 129, euro 15,00

Sono il fratello di XX è una raccolta di venti racconti brevi e brevissimi, che trasmettono al lettore un profondo senso di spaesamento e di vertigine, non solo per le inquietanti vicende narrate, ma anche per la particolare forza espressiva della scrittura.
Quest’ultima appare continuamente spezzata, come se fosse sottoposta  a scosse telluriche incessanti, in grado di provocare nella narrazione sottili slittamenti di senso, che divengono poi veri e propri squarci abissali. I racconti della Jaeggy sembrano infatti  reggersi sulla forza del vuoto dilagante, simili a strane costruzioni edificate sulla solidità del nulla, prive di fondamenta eppure straordinariamente stabili nella loro struttura. E del resto l’assenza, la vocazione al dissolvimento, il desiderio di sparire, di non esserci, sono temi che ritornano ossessivi nei racconti. Si pensi al protagonista del racconto che dà il titolo al volume, ossessionato dall’enigmatica sorella da cui si sente spiato, o dalla tragica ineluttabilità che attende Caspar nel racconto L’ultimo della stirpe.
I personaggi vivono situazioni estreme, come condannati ad un’altra dimensione, un’altra realtà che per loro si spalanca dietro la superficie della vita familiare e quotidiana. Essi sono abitati dall’abisso del loro essere, da ciò che imprevedibilmente li travolge senza apparente motivo e li destina a comportamenti assoluti, fin da bambini o adolescenti (come nei racconti La voliera e La scelta perfetta, nei quali il rapporto madre-figlio è segnato dalla follia) e soprattutto al di là di ogni logico principio di non contraddizione, perché quello che li agita è una forza irriducibile e antica, che non può essere spiegata razionalmente. Come si afferma nel risvolto di copertina, sono mossi da “quello scarto laterale, apparentemente fuori contesto, che è un segreto ancora insondato del comportamento” ed incarnano una frattura tra loro e la realtà che li circonda.
In coerenza con le storie  raccontate, ogni parola della Jaeggy è assoluta e contemporaneamente altra, in quanto inserita in una crescente tensione semantica creata dal periodare interrotto e subito ripreso, come in un singhiozzo senza requie. A rendere ancora più efficace la narrazione, vi è poi il particolare uso dei tempi verbali, alternati spesso tra passato e presente, non solo per sovvertire la scansione tradizionale della temporalità, ma anche per eternare momenti decisivi, fissare fotogrammi di azioni e parole, rendere costante e perenne l’abisso, perché ciò che è stato una volta c’è ancora, è in corso di svolgimento, è sempre qui.
Accanto a questa continua tensione verso il vuoto, è possibile inoltre cogliere l’attrazione esercitata dall’inanimato, il mondo a parte delle cose, che nella loro presenza muta ed enigmatica incontrano la solitudine e la follia di alcuni personaggi. Il tema ricorrente della rinuncia si unisce così al desiderio della non esistenza e si confronta con la “prigione dipinta”, in cui appaiono le figure presenti nei ritratti, ma la fissità dell’immagine, che chiama da un mondo altro, può dire solo l’impossibilità perché in questo altrove la fine non è permessa: “Non c’era alcun luogo chiamato fine”, si afferma infatti nel racconto Il gentiluomo e il ramarro.
Fleur Jaeggy  scrive da sempre dentro luoghi che diventano non-luoghi, contaminati da realtà assolute, le quali chiamano verso un  destino innominabile. La sua parola ci appare  lucente e dura come un cristallo, ma nel profondo conserva l’oscurità da cui nasce. A lei si può attribuire ciò che nel racconto Negde viene riferito a Iosif Brodskij: “Ora scrive nel buio. Gli bastano il foglio e l’inchiostro per tutta la lunghezza della tenebra. Ogni luogo è per lui una città mentale chiamata Negde, che in russo significa ‘da nessuna parte’”.
Mauro Germani