Sono il fratello di XX è una raccolta di venti racconti brevi e brevissimi, che trasmettono al lettore un profondo senso di spaesamento e di vertigine, non solo per le inquietanti vicende narrate, ma anche per la particolare forza espressiva della scrittura.
Quest’ultima
appare continuamente spezzata, come se fosse sottoposta a scosse telluriche incessanti, in grado di
provocare nella narrazione sottili slittamenti di senso, che divengono poi veri
e propri squarci abissali. I racconti della Jaeggy sembrano infatti reggersi sulla forza del vuoto dilagante,
simili a strane costruzioni edificate sulla solidità del nulla, prive di
fondamenta eppure straordinariamente stabili nella loro struttura. E del resto
l’assenza, la vocazione al dissolvimento, il desiderio di sparire, di non
esserci, sono temi che ritornano ossessivi nei racconti. Si pensi al
protagonista del racconto che dà il titolo al volume, ossessionato
dall’enigmatica sorella da cui si sente spiato, o dalla tragica ineluttabilità
che attende Caspar nel racconto L’ultimo
della stirpe.
I
personaggi vivono situazioni estreme, come condannati ad un’altra dimensione,
un’altra realtà che per loro si spalanca dietro la superficie della vita
familiare e quotidiana. Essi sono abitati dall’abisso del loro essere, da ciò
che imprevedibilmente li travolge senza apparente motivo e li destina a comportamenti
assoluti, fin da bambini o adolescenti (come nei racconti La voliera e La scelta perfetta,
nei quali il rapporto madre-figlio è segnato dalla follia) e soprattutto al di là di ogni logico principio di non contraddizione,
perché quello che li agita è una forza irriducibile e antica, che non può
essere spiegata razionalmente. Come si afferma nel risvolto di copertina, sono
mossi da “quello scarto laterale, apparentemente fuori contesto, che è un
segreto ancora insondato del comportamento” ed incarnano una frattura tra loro
e la realtà che li circonda.
In
coerenza con le storie raccontate, ogni
parola della Jaeggy è assoluta e contemporaneamente altra, in quanto inserita
in una crescente tensione semantica creata dal periodare interrotto e subito
ripreso, come in un singhiozzo senza requie. A rendere ancora più efficace la
narrazione, vi è poi il particolare uso dei tempi verbali, alternati spesso tra
passato e presente, non solo per sovvertire la scansione tradizionale della
temporalità, ma anche per eternare momenti decisivi, fissare fotogrammi di
azioni e parole, rendere costante e perenne l’abisso, perché ciò che è stato
una volta c’è ancora, è in corso di svolgimento, è sempre qui.
Accanto
a questa continua tensione verso il vuoto, è possibile
inoltre cogliere l’attrazione esercitata dall’inanimato, il mondo a parte delle
cose, che nella loro presenza muta ed enigmatica incontrano la solitudine e la
follia di alcuni personaggi. Il tema ricorrente della rinuncia si unisce così
al desiderio della non esistenza e si confronta con la “prigione dipinta”, in
cui appaiono le figure presenti nei ritratti, ma la fissità dell’immagine, che
chiama da un mondo altro, può dire solo l’impossibilità perché in questo
altrove la fine non è permessa: “Non c’era alcun luogo chiamato fine”, si
afferma infatti nel racconto Il
gentiluomo e il ramarro.
Fleur
Jaeggy scrive da sempre dentro luoghi
che diventano non-luoghi, contaminati da realtà assolute, le quali chiamano verso un destino innominabile. La sua parola ci appare lucente e dura come un cristallo, ma nel
profondo conserva l’oscurità da cui nasce. A lei si può attribuire ciò che nel
racconto Negde viene riferito a Iosif
Brodskij: “Ora scrive nel buio. Gli bastano il foglio e l’inchiostro per tutta
la lunghezza della tenebra. Ogni luogo è per lui una città mentale chiamata
Negde, che in russo significa ‘da nessuna parte’”.
Mauro Germani