Giovanni
Testori, Un bambino per
sempre. Meditazioni sul Natale, Interlinea,
2007
Quanta
verità in questi scritti di Giovanni Testori dedicati al Natale!
Quanta passione per l’uomo e quanta ansia di salvezza, di perdono,
di riconciliazione con la vita e il suo senso!
Il
dramma della nascita, che ha caratterizzato soprattutto l’opera di
Testori negli anni Settanta (si veda, insieme ad altre opere, la Trilogia degli Scarozzanti, comprendente L'Ambleto, 1972; Macbetto, 1974; Edipus, 1977), fino alla svolta di
Conversazione con la morte
(1978), qui si dissolve davanti al mistero dell’Incarnazione, «il
punto in cui Dio ha deciso d’incarnarsi, d’assumere per amore di
noi, sue creature, la nostra stessa carne, il nostro stesso sangue,
il nostro stesso volto, le nostre stesse braccia, i nostri stessi
limiti e, dunque, la nostra stessa vita e la nostra stessa morte».
Proprio per questo allora il Natale si può considerare «la nascita
assoluta», perché nella sua assolutezza, «riflette ed assume,
illumina e redime, benedice e consacra tutte le nascite di prima e
tutte le nascite di poi»; esso è un evento che «è
stato, è e sarà per sempre».
L’avvento cristiano è dunque un
segno che si fa carne, che viene nel mondo, che è qui, anche se
«abita fuori dalle forme» della nostra società, forme che sono
testimonianza di una «continua, impudica offesa», cioè insulto di
«vanità e sfarzo totalmente disumani alla miseria, al dolore, alla
sofferenza, alla fame o anche solo alla quotidiana fatica»: è un
«luttuoso brillio» che nulla ha a che vedere con l’essenza vera del
Natale, con «l’umile, misteriosa immensità della nascita di
Cristo».
Perché la
capanna di Betlemme – sottolinea Testori – è proprio «l’immagine
più intima, più profonda e più vera della nostra casa. La casa
che fuori di lì, non sapremo mai più cosa sia». Ecco, questo
concetto di casa rivela un’origine e un’appartenenza, che per Testori – come
afferma Fulvio Panzeri nella bella prefazione al volume – diviene una «teologia della memoria, in cui la nostalgia del ritorno si fa
presenza» e la nascita ritrova la sua luce più autentica.
Che cosa
c’è davvero in quella capanna, in quella casa che tutti dovremmo sentire nostra? Oltre alla povertà e alla
semplicità, c’è innanzitutto il sì pronunciato da Maria, la sua totale
adesione al piano divino, la sua innocenza e la sua purezza, la sua
dolcezza e la sua forza; c’è san Giuseppe, fedele e laborioso,
obbediente custode della famiglia; e naturalmente al centro c’è
Gesù, bambino in fasce, il Dio incarnato, venuto al mondo per tutti
noi, per la nostra salvezza. Scrive Testori:« Storia e metastoria si
collegano proprio e solo lì, nella capanna di Betlemme; proprio e
solo là, “in praesepio”». E poi attorno ci sono i pastori, «i
più umili e indifesi», che trovano e conoscono per primi Gesù,
così come noi dovremmo trovarlo nel nostro cuore, per riconoscerci
figli del Padre e di conseguenza fratelli reali di tutti, non solo
nominalmente. Le figure dei pastori non sono da sottovalutare, non
rappresentano un contorno dell’evento, non sono una presenza
decorativa, ma sono uomini chiamati a partecipare, a essere lì,
riconoscenti e meravigliati, con i segni della fatica del proprio
lavoro, con le loro povere vesti e la loro umiltà. I pastori ci
indicano un cammino, che in fondo ci riporta al nostro e «che ci fa,
ogni giorno, bambini e, insieme, adulti; trepidi e, insieme, fermi e
convinti; del tremore, della fermezza e della convinzione che ci
vengono seguendo, per quel che possiamo e per come possiamo, il
tragitto che dal presepio porta alla Croce, da Betlemme al Golgota».
È importante, allora, sottolineare che per Testori, nel Natale c’è
anche la morte, unita però all’azione redentrice di Cristo. C’è
la presenza di un’ombra, quella della crocefissione e del sangue
d’un assassinio, ma «l’amore del Dio incarnato, l’amore del
Cristo, piccolo e tremante, di Betlemme sono infinitamente più
grandi di quell’ombra e di quell’assassinio. Così dentro la
paglia in cui Maria lo depone, v’è già la morte di suo Figlio, ma
v’è già anche la sua resurrezione».
Testori
afferma l’importanza e il mistero del cristianesimo, nel quale,
nonostante il dolore e la morte «(o, anzi, proprio attraverso di
loro) tutto vi risulta nascita.
Nascita è anche il dopo-morte d’ognuno di noi. […] Ecco perché
il cristianesimo è essenzialmente e totalmente speranza. Nascere, e
rinascere, significa iscriversi dentro il tragitto infinito della
speranza».
Altrettanto importanti sono le riflessioni sul perdono, che rimandano all'inno manzoniano Il Natale e in particolare ai versi: «Qual mai tra i nati all'odio, / quale era mai persona / che al Santo inaccessibile / potesse dir: perdona?». Il Dio inaccessibile non è più tale, non si avvicina solo all'uomo, ma addirittura s'incarna, elargendo il perdono, così che il «Figliol del fallo primo», per dirla ancora con Manzoni, non è più abbandonato in una condizione senza speranza, perché è nato il Pargolo salvatore. Ecco allora che «il perdono “elargito” è richiesta di perdono da “elargire” da parte nostra agli esuli “figli di Eva” che eravamo prima del Natale e che torniamo ad essere tutte le volte in cui manchiamo a tale richiesta». Natale, dunque, è anche perdono e riconciliazione.
Rileggere
oggi queste meditazioni di Testori non può che fare bene. Esse non sono solo una testimonianza di fede, di vita e di speranza, ma
un’occasione per ritornare a quella capanna e a quella luce, per
riscoprire, in tempi difficili come i nostri, il valore autentico del
Natale, incarnato in quel Bambino che è nato a Betlemme e che c’è ancora, perché venuto a
noi per sempre.
Mauro
Germani
