domenica 19 dicembre 2021

Mario Pomilio - Il Natale del 1833


 Mario Pomilio, Il Natale del 1883, Rusconi, 1983

In questo romanzo di Mario Pomilio – pubblicato nel 1983 e vincitore del Premio Strega nello stesso anno – verità ed invenzione, documenti reali e fonti immaginarie si intrecciano in una narrazione di notevole intensità, che è soprattutto una meditazione sul mistero della sofferenza e del male. Il protagonista è Alessandro Manzoni, che nel Natale del 1833 subisce il lutto della prima moglie Enrichetta e si trova a vivere un dramma personale che investe anche la propria fede, tra silenzi, ripensamenti, incertezze e domande con cui deve fare necessariamente i conti. E la lirica intitolata Il Natale del 1833, scritta sull’onda del dolore e rimasta incompiuta nonostante diversi tentativi di portarla a termine, è testimonianza del suo travaglio interiore. 

Nel racconto di Pomilio fa quasi da filo conduttore il carteggio immaginario tra Giulia Beccaria e Mary Clarke, nel quale la madre dello scrittore confessa i propri pensieri ed i propri sentimenti e, al contempo, si sforza di comprendere non solo ciò che avviene nell’animo del figlio, ma anche il misterioso disegno della volontà divina, che appare davvero indecifrabile. Il dolore di lei s’incontra con quello del figlio, cerca una corrispondenza, ma spesso si deve arrendere a qualcosa di indefinito, di sfuggente, pur nella consapevolezza della sofferenza comune. Manzoni, infatti, sembra chiuso nella propria solitudine e nel tormento della propria fede. Che cosa si agita in lui, al di là dell’aspetto esteriore, sempre così misurato e composto, tanto da essere scambiato da qualcuno per freddezza e aridità? Donna Giulia afferma di avere «una fede imperfetta, un timido riflesso» rispetto a quella del figlio. Se lei, in fondo, era preparata al destino di Enrichetta – «arresa» all’idea di un Dio «troppo ineffabilmente alto per lasciarsi sommuovere dalle nostre angustie e dai nostri voti» –  Alessandro, al contrario, non poteva rassegnarsi al silenzio dell’Onnipotente, ed ella rammenta le notti insonni del figlio, rivolto ai «cieli inamovibili di Dio», al suo pregare assorto in una stanza, davanti a un vecchio quadro con una Maternità. Proprio lì, secondo lei, si consumavano uno strazio e una contesa, l’implorazione di un segno, di una risposta. Proprio lì doveva esserci il segreto di un dolore immenso al cospetto di una fede che tenacemente chiedeva di resistere nella solitudine. 

E ciò che interessa a Pomilio è indagare la prova dell’afflizione, quando sembra venire meno ogni soccorso e si manifesta una «crisi di fede entro la fede», nel momento in cui qualcosa urge dall’anima e qualcosa lo contrasta, lo ferma. In Manzoni si può percepire, infatti, un dissidio tra la poesia e la propria esistenza, tra la parola che vorrebbe gridare ed i princìpi morali e religiosi radicati in lui. Ne sono la prova i progetti (immaginari e incompiuti) di un Giobbe nei quali Manzoni si dibatte tra  fedeltà biblica e moti del proprio animo, fino ad una immedesimazione nel personaggio, chiamato a «testimoniare della bontà di Dio pur sentendosene tradito, riconoscere l’assurdo delle sue decisioni e farsi intanto prova vivente che è giusta la sua giustizia».  È «il dramma – scrive Pomilio – d’una condanna alla fede. Giobbe sta prigioniero del cerchio senza potersene staccare»: Manzoni non osa «spingersi fino ai luoghi dai quali non si può tornare» e tuttavia insegue «Dio pei suoi sentieri impraticabili, timoroso di discostarsene ma assillandolo con la sua interrogazione». 

E in questa «tempesta di sentimenti», lo scrittore in seguito sarà colpito da nuovi lutti: la morte di Giulietta, la figlia primogenita, nove mesi dopo quella di Enrichetta; la scomparsa di Cristina, da poco sposa, il 27 maggio 1941 ed infine la morte della madre. La meditazione sul tema del dolore è pertanto destinata a continuare. Pochi mesi prima della scomparsa, Donna Giulia scrive: «Cos’altro, dico, rimane alle nostre povere menti se non, ahimè, di dover scegliere tra una di queste due eresie: che o è Dio a volere il dolore dell’uomo, o il dolore dell’uomo è lo scacco di Dio?». 

Ma che cosa pensa, infine, Alessandro Manzoni? Pomilio ci consegna una risposta dello scrittore in una lettera inviata all’amico Fauriel, nella quale afferma che «la storia delle vittime è di per sé la storia di Dio», in quanto ogni volta che un innocente soffre, il Signore rinnova in lui il proprio sacrificio. Manzoni afferma di rendersi conto ora di questa verità che prima non aveva saputo esprimere compiutamente. Si tratta – sostiene – di una consolazione basata su una solidarietà di compassione e d’amore: «la croce di Dio ha voluto essere il dolore di ciascuno; e il dolore di ciascuno è la croce di Dio». 

Il romanzo di Pomilio – autore sicuramente da riscoprire (tra i suoi romanzi Il quinto evangelio del 1975 e Il cane sull’Etna del 1978) – si configura non solo come un’interrogazione circa il dolore del mondo nonostante Dio, ma anche come una testimonianza della solitudine dello scrittore alle prese con i propri conflitti interiori. Ed è importante aggiungere che si tratta di un’opera in cui la contaminazione tra storia ed invenzione non nasce da un gioco letterario, ma dalla necessità di esplorare il non detto, le zone d’ombra, le reticenze e le omissioni per penetrare quell’intimità segreta che è sempre alla base di ogni scrittura e di ogni esistenza.

Mauro Germani