martedì 13 dicembre 2011

Truffaut: il regista che amava le donne

23/11/2011
CINEMA E PENSIERO
a cura di
ANGELO CONFORTI




François Truffaut: il regista che amava le donne
 
 Una delle più grandi rivoluzioni nella storia del cinema è rappresentata dalla nouvelle vague francese che rinnovò completamente temi, linguaggio, tecnica, ambientazione, stili di regia e di recitazione. Secondo alcuni critici e storici della settima arte c’è un cinema prima di Godard e un cinema dopo Godard, autore-simbolo delle radicali innovazioni introdotte da questa fondamentale corrente artistica.
Ma non si può dimenticare che il soggetto del primo “rivoluzionario” film di Godard, Fino all’ultimo respiro (À bout de souffle, 1960), è opera di François Truffaut (1932-1984) e che il vero atto di nascita della nouvelle vague, nel 1959, è costituito proprio dal suo film I quattrocento colpi (Les quatre cents coups), la vicenda in gran parte autobiografica di un bambino difficile che la madre fa chiudere in riformatorio. Nasce così la figura di Antoine Doinel, vero e proprio alter ego del regista parigino che ne farà il protagonista di altre quattro storie cinematografiche (una delle quali è un episodio di un film collettivo).
Jean-Pierre Léaud ne è l’interprete e l’attore diventa una delle maschere predilette da Truffaut, che con lui stabilisce un rapporto di complicità e di identificazione.
Uno dei film-chiave, spesso sottovalutato ma fondamentale da riscoprire, per capire la poetica complessa e sfaccettata di questo grande autore, è senza dubbio Baci rubati (Baisérs volés, 1968). La nouvelle vague, come movimento, è a una svolta significativa e ognuno dei suoi esponenti prenderà la propria strada. Mentre Parigi brucia, Truffaut sceglie il percorso più inatteso ma più personale, raccontando la difficile maturazione del suo Antoine Doinel, congedato dall’esercito per inettitudine e alla ricerca di stabilità nel lavoro e nei sentimenti, soprattutto di quel fondamentale affetto femminile che gli è mancato nell’infanzia ribelle e incompresa e che non ha trovato nell’adolescenza inquieta (episodio Antoine e Colette, 1964). Lo stile di Truffaut è raffinato ed elegante e la recitazione dell’inetto Léaud/Doinel è molto efficace. È un personagggio che inciampa nelle cose, che ne combina di tutti i colori, che cambia diversi lavori senza realizzare nulla di buono. È una specie di Fantozzi, ma con tutta l’eleganza francese e la gamma di sfumature emotive, tipica del cinema di Truffaut, qui mescolata alla lieve ironia che attraversa tutta la vicenda: il senso del tempo che fugge, la malinconia, la spensieratezza del vivere giovanile, il fascino femminile e la nostalgia degli amori perduti (di cui parla la splendida canzone d’apertura e chiusura, Que reste-t-il de nos amour? di Charles Trenet).
L’universo femminile, soprattutto, è il costante punto di riferimento di quel Doinel che è lo stesso Truffaut, regista che ha amato le donne come pochi altri, rappresentandole nelle più diverse forme: capaci di amare fino alla follia come Adele H.(1975); o di nutrire un odio assoluto e vendicativo come La sposa in nero (La mariée était en noir, 1967; con una straordinaria Jeanne Moreau); accecate dalla gelosia fino ad uccidere il marito, come la moglie tradita de La calda amante (La peau douce - stupendo titolo originale, 1964), dotate di un fascino irresistibile e perverso, come la protagonista de La mia droga si chiama Julie (La sirène du Mississipi - altro bellissimo titolo, film del1969, con una meravigliosa Catherine Deneuve) e, per non continuare all’infinito (ma, certo, si potrebbe proseguire ancora a lungo), la trasgressiva e scandalosa Jeanne Moreau di Jules et Jim (1962) che ama due uomini e divide la vita con loro.
Quasi il simmetrico rovescio di quest’opera fortemente innovativa nei temi e nel linguaggio, Truffaut l’ha tratto di nuovo da un romanzo di Henri-Pierre Roché e l’ha girato nel 1971, con Jean-Pierre Léaud nella parte di un parigino del primo Novecento che si innamora di due sorelle inglesi (Le due inglesi, Les deux anglaises et le continent). Un capolavoro, riscoperto tardi da una critica miope, ancora un film controcorrente negli anni della rivoluzione sessuale e della contestazione, di certo la più intensa e profonda delle sue opere, in cui la proustiana ricerca del tempo perduto, la nostalgia degli amori adolescenziali, il fremito dell’intimità profonda con un altro essere, la malinconia della separazione, il senso della caducità dei rapporti umani, sono tutti elementi che si fondono in una perfetta sintesi, in cui la dolcezza del lirismo romantico e la sincerità esplicita delle situazioni e dei dialoghi si incontrano senza contraddirsi. L’altissima qualità estetica del film è costituita da molti fattori stilistici e formali, tra cui val la pena di ricordare l’eccelsa direzione della fotografia da parte del grande Néstor Almendros.
Misteriose ed enigmatiche, forti e fragili allo stesso tempo, adorabili e irraggiungibili e poi perdute per sempre, Ann e Muriel, le due sorelle, sono anch’esse due ritratti femminili degni di una galleria ricchissima che ci ha lasciato questo regista innamorato delle donne proprio come l’altro suo alter ego, il protagonista de L’uomo che amava le donne (L’homme qui aimait les femmes, 1977).
Angelo Conforti