Filippo Ravizza, Pănzele orizontului – Le vele dell’orizzonte, Cosmopoli, 2023
Leggendo Pânzele orizontului (Le vele dell’orizzonte) di Filippo Ravizza, che contiene quindici poesie tradotte in rumeno, con testo originale a fronte, selezionate da otto raccolte pubblicate dal 1987 al 2020, si ha la netta conferma della coerenza di un’opera poetica sviluppatasi nel corso di oltre un trentennio, vale a dire di un tenore della parola sempre alto, il quale si esplica nella dimensione fluida e avvolgente dei versi. È questa, infatti, la peculiarità che ha sempre contraddistinto, in modo assai originale, questa poesia di movimenti, di spezzature e di riprese repentine, di soprassalti improvvisi e di insistenti iterazioni, nell’elaborazione di una sonorità che conferisce alla parola un ritmo incalzante, emotivo e insieme materico.
C’è nei testi un impeto, una forza che rispecchia un’urgenza, un’oltranza dell’essere nel suo interrogarsi all’interno di una realtà concreta e mutevole, fragile e travagliata, dove il margine tra storia personale e/o collettiva appare al tempo stesso vibrante e assediato dal nulla, minacciato da un dissolvimento incombente. Così la coscienza del tempo – tema fondamentale in Ravizza, presente in tutte le raccolte, nelle sue diverse articolazioni, che spaziano dal contingente al filosofico e alla intuizione più propriamente poetica – getta inevitabilmente la propria ombra sul mondo che lo sguardo e la parola cercano di aprire in squarci come lampi, in ricordi fulminanti, in immagini rivelatrici di un futuro che sa già di passato, in slanci che nascondono tremori.
Già nella prima pubblicazione (Le porte, 1987), il titolo emblematico indica lo spazio nel tempo, ovvero quei transiti, quegli attraversamenti di città, di paesaggi, di ponti, di fiumi, che saranno gli elementi caratterizzanti il viaggio umano e poetico di Ravizza. Un viaggio che è apertura ontologica ed esistenziale («riconosciti al di/là, sopra i /cancelli, mentre/fuori piove e/si acclama lucido,/il biancore»), dove spesso la vista diviene progressivamente visione e la visione pensiero, meditazione sul mistero e la precarietà dell’essere, dei segni e dei sogni della storia, tra echi talvolta campaniani (le già citate iterazioni, ma anche la forza delle immagini come impatti frontali in grado di rivelare altro) e riflessioni che rimandano a Leopardi (la «ricordanza acerba» dopo le speranze vane della giovinezza, e l’«apparir del vero»), o al montaliano «terrore di ubriaco».
Ricorrono poi sovente, nei testi presenti in questa piccola ma preziosa antologia bilingue, figure di bambini («Fermi nel canto/passavano i bambini/queste fili sottili/una forza come scaglie di fuoco/nel fondo del parco»), che con la spontanea vitalità che li contraddistingue suscitano, agli occhi del poeta, un misto di meraviglia e di malinconia: la loro naturale vivacità nel mondo si unisce all’amara consapevolezza della perdita nella corsa inarrestabile del tempo («e intanto scende, scende il sipario/anni che volate via lungo gli/scivoli, correndo alle altalene,/anni voi come attimi passate,/come onde bianche...anni/bambini che scappate»). Ecco allora che infanzia trascorsa, gioventù illusa o smarrita («in tutte le città Europa passano/di sera incerti poca luce negli occhi/i tuoi ragazzi, attori dei percorsi/trascinati di vetrina in vetrina») e sopraggiunta maturità («Così dicevo a me di me così/cantavo la perdita di me/con me chino sulla carta,/in mano la matita come una/vita giocata con la spada e/la nera ombra della mina») vengono assalite da un vortice che sconvolge l’esistenza, e al quale la parola della poesia cerca tenacemente di resistere, nonostante tutto.
E proprio dentro questa resistenza – che si sa in fondo vana ma in qualche modo necessaria – è possibile cogliere in Ravizza una pietas che emerge quasi con pudore, un senso di appartenenza e di memoria relativo agli affetti, alle esperienze condivise, alle speranze e alle fragilità segnate dagli anni, una tenerezza sommessa pervasa da un senso di smarrimento, di addio («In questo abito chiamato tempo/tornare come da bambino sul/triciclo ripensare la via dal nome/imperatore i grissini amato/padre amata madre/ora finiti per sempre nel nulla»). Una pietas verso il proprio sé e gli altri, senza illusioni, che rivela però un amore profondo per la vita, una sorta di commosso abbraccio del divenire in cui tutti siamo gettati, un tremore in prossimità dell’ultimo orizzonte e delle vele lontane.
Mauro Germani