Che cosa nasconde l’indicibile? Qual è
la malattia bianca che lo governa? E
quali forme d’esistenza consente? Sono queste alcune delle domande che
scaturiscono spontanee dalla lettura del libro La legge degli spazi bianchi (1989) di Giorgio Pressburger (1937-2017).
Si tratta di un’opera composta da
cinque racconti, che hanno come protagonisti o come osservatori dei medici
coinvolti in esperienze estreme, laddove la scienza vacilla davanti al mistero dell’esistenza. Cinque storie narrate con lucidità inquietante.
Cinque destini segnati da ciò che travalica la ragione e sconvolge i sensi,
annullando le nostre consuete coordinate. Cinque casi ultimi, che sfuggono ogni logica. Cinque abissi.
Perché le domande che suscitano non
hanno alcuna risposta definitiva, ed il lettore sperimenta così la propria
solitudine davanti alla nudità dei fatti, a quella serie di eventi inspiegabili
che proprio l’afasia ed il silenzio sembrano aver reso possibili. C’è, insomma,
una sorta di ossimoro esistenziale, una possibilità
dell’impossibile – un’origine spezzata, una lacuna, un impedimento – che scatena
forze inarrestabili, destinate ad una conclusione drammatica, che è morte, o
follia, o smarrimento in luoghi sperduti, senza nome. Entriamo così nella
malattia, in quelle zone oscure della mente e del corpo, in quei labirinti
dell’offuscamento, in cui c’è solo una
continua e progressiva perdita di sé, come una strana forma d’obbedienza ad
altro, un’adesione esclusiva all’innominabile. Ed è in questo slittamento, in
questo franare nel vuoto, che vivono le loro esperienze i personaggi descritti
da Pressburger, come se a poco a poco fossero trascinati dal demoniaco, che si
nasconde nelle fratture della loro esistenza: in quella mancanza nascono i loro
fiori del male, proprio perché «la
malattia si annida, infatti, nel corpo, ma ha origine nel negativo metafisico e
i suoi sintomi si manifestano come sottrazione d’essere».
Dei cinque racconti, i primi tre
risultano particolarmente riusciti: La
legge degli spazi bianchi, Orologio
biologico e Vera.
Il primo narra la vicenda del dottor
Fleischmann, destinato col tempo, a soli 55 anni, a sprofondare – lui medico
stimato e fino ad allora in compiaciuto vigore fisco – in una terribile situazione
di non ritorno, ovvero a non riuscire più a pronunciare alcune parole e a
perdere in seguito anche la memoria; la sua ultima frase comprensibile, ma
enigmatica, sarà: «Tutto è scritto negli spazi bianchi tra una lettera e
l’altra. Il resto non conta».
Il secondo racconto, invece, nasce
dalla constatazione di un tempo sfasato,
di un’anomalia dell’esistenza che coinvolge il medico protagonista e la signora
Polak, ormai settantenne e sposata ad un uomo gravemente ammalato. «L’orologio
della nostra vita è sempre andato o troppo avanti o troppo indietro, mai con il
tempo giusto per noi», dirà la donna all’uomo, che da giovane l’ammirava di
nascosto quando lei prendeva il sole; e la tragedia finale confermerà questo destino.
Ancora troviamo uno spazio, un vuoto che si spalanca e dà origine alla vicenda.
Vera
è sicuramente il racconto migliore del
libro. Qui Pressburger, in una narrazione più lunga, si addentra insieme al
protagonista, il dottor Abramo Friedmann, nei territori del mistero e della follia.
La vita del medico, infatti, sarà sconvolta da Vera, una ragazza di sedici anni
dall’aspetto di bambina, pressoché muta e quasi incapace di camminare, a causa
del male che l’ha colpita e di tre operazioni al cervello, ma dai lineamenti
bellissimi: «Il viso, privo di spigoli, color rosa attorno agli zigomi, pareva
perfettamente conchiuso in sé. Il naso piccolo e dritto, le labbra d’un rosa
tenue, carnose senza essere aggressive, d’una linea morbida ma precisa, non
potevano avere altra forma. […] Aveva un abito rosso a fiori bianchi, e
scarpette rosse, di stoffa. Il suo respiro era un esile soffio, tenero e
profumato, tanto discreto da destare ammirazione, non pietà». Per Friedmann,
Vera diventerà un’ossessione senza scampo, insieme alla relazione tormentata
con la madre di lei: un precipitare nell’isolamento e nella follia, tra momenti
di esaltazione e rimorso, tra dolcezza e violenza, nell’oscura consapevolezza
che «tutto è vacuo, tranne la colpa. Quella si solidifica, il resto evapora».
Di fronte a Vera, enigma della natura, della malattia e del mondo, non c’è
scienza che tenga. Al cospetto della sua fragile e misteriosa bellezza, non c’è
per l’uomo Friedmann che l’attrazione di quell’abisso, la passione senza nome
che lo travolgerà.
La scrittura di Giorgio Pressburger,
autore di formazione culturale mitteleuropea (era nato in Ungheria, da cui
fuggì nel ’56), ha costituito – come ebbe modo di affermare Leone Piccioni
nell’introduzione al volume edito dalla Biblioteca Universale Rizzoli nel 1992,
quattro anni dopo la prima edizione uscita da Mariettti – «una variante
importante nel clima generale della nostra narrativa”, raggiungendo «un
risultato letterario anche, e specialmente, dal punto di vista linguistico, di
piena autenticità».
Mauro Germani