venerdì 9 dicembre 2011

Dino Buzzati: la linea del deserto


Oggi Dino Buzzati avrebbe compiuto 103 anni. Per ricordare il grande scrittore bellunese pubblico uno stralcio del mio breve saggio sulla sua opera più nota, Il deserto dei Tartari (1940), uscito sul numero 3 di  MARGO del dicembre 1989.

Esiste un luogo solitario dell'attesa, una condizione di esilio e di lontananza che può divenire col tempo irrinunciabile. Qui, in questa terra ultima dove non c'è più nulla di familiare ed ogni segno rimanda solo al proprio enigma, si è sempre stranieri e perfino l'immaginario è continuamente minacciato, esposto all'incalzare della sorpresa e del nulla. Attendere in prossimità dell'ignoto è spingere lo sguardo verso un oltre smarrito, è spiare l'ombra di un destino fantasma.
Così Giovanni Drogo, il protagonista de Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati, una volta raggiunta la Fortezza Bastiani cui è stato destinato, si rende conto di essere davvero solo, di far parte di un mondo segreto che non consente possibilità di fuga. Fin dall'inizio gli pare di avvertire "come un vago presentimento di cose fatali, quasi egli stesso stesse per cominciare un viaggio senza ritorno" e a mano a mano che si allontana dalla città e si inoltra per i ripidi sentieri alla volta della Fortezza, sente che un tempo, quello della prima giovinezza, per lui è finito.
E' la prima tappa dell'oscura iniziazione di Drogo verso il luogo dell'addio e della rinuncia, il distacco che sancisce la chiamata del deserto. Il destino lo conduce fuori dalla propria casa natale, oltre la vita facile e rassicurante della città, oltre i campi e i boschi, oltre le ombre delle montagne ed il suo stesso sguardo. Le mura nude e giallastre della Fortezza si ergono ai limiti del deserto del nord, che peraltro non appare mai nella sua totalità a Drogo. [...] L'attesa dei mitici Tartari avviene da una sorta di prigione dello sguardo, che limita il punto di osservazione: le finestre e le feritoie della Fortezza costringono Drogo e gli altri militari ad una visione non solo parziale del panorama, ma spesso anche incerta, avvolta da una nebbia grigia che nasconde quanto accade. [...]
La vicenda di Drogo è contrassegnata dalla progressiva contaminazione del nulla, dal vuoto di un'assenza incolmabile che vede nascere l'assurdità di un sogno reso impossibile dal tempo. Proprio perché nel romanzo - come ha scritto Stefano Jacomuzzi "qualcosa deve ancora succedere, non sta accadendo e non è già successa" non può che avvenire la ripetizione dell'attesa, la cui rappresentazione (lo scontro con i Tartari) la prolunga in un certo senso all'infinito.
In questo continuo nulla di fatto, in cui l'avventura è sempre rimandata e la progressione narrativa risulta apparente, assume una notevole importanza l'obbedienza.
Obbedire (dal latino oboedire, composto di ob - 'di fronte, opposto' e audire 'udire') significa etimologicamente prestare ascolto a ciò che è opposto e quindi privilegiare l'attenzione nei confronti di ciò che è al di là. Nella Fortezza Bastiani tutti obbediscono nel senso più pieno. Osservando rigidamente le regole tipiche della vita militare, mantengono anche la fedeltà al deserto e confermano l'obbedienza all'Altro, a ciò che non conoscono, ma che pure attendono. C'è, in questa continua abdicazione dal mondo, qualcosa che rinvia al famoso salto kierkegaardiano e alla figura tragica e paradossale del cavaliere della fede, capace di riconoscere l'impossibilità, secondo i criteri umani, del compito che gli spetta, e simultaneamente di credere, in virtù della rassegnazione infinita, l'assurdo. Sia pure in una prospettiva diversa, anche Drogo compie per tutta la vita un servizio che supra la ragione, rispondendo ad una chiamata o ad un comando che richiede solitudine, timore e tremore, sofferenza. [...]
L'unico evento che accade è la morte, che coglie Drogo, ormai debole e malato, lontano dalla Fortezza, in una misera locanda, proprio quando sembra che il nemico stia finalmente arrivando dal deserto. Allora il processo di annichilazione presente in tutto il romanzo giunge al suo compimento: Drogo riconosce il nulla nella propria metafora. L'obbedienza all'ignoto, l'attesa di un destino ai limiti del deserto, la speranza leggendaria in un Altro che costantemente si nega, rivelano la propria verità nella morte perché l'Altro tanto desiderato è il nulla. Così "nella più nuda solitudine", Giovanni Drogo s'abbandona ad una sorta di nulla glorioso, "raddrizza un po' il busto, si assesta con una mano il colletto dell'uniforme, dà ancora uno sguardo fuori dalla finestra, una brevissima occhiata, per l'ultima sua porzione di stelle. Poi nel buio, benché nessuno lo veda, sorride".
Vengono alla mente alcuni versi di Emily Dickinson: "L'irraggiungibilità / di chi ha compiuto la morte / è per me più maestosa / d'ogni maestà della terra". [...]


Mauro Germani, in "Margo",  n. 3 - dicembre 1989, pp. 13 - 17.


da Splinder, 16 ottobre 2009