giovedì 27 ottobre 2022
martedì 25 ottobre 2022
Corrado Passi - Rego Park
Corrado
Passi, Rego Park, Castelvecchi, 2021
Che
cosa significa appartenere a qualcuno o a qualcosa? E qual è il senso, la
qualità della nostra eventuale appartenenza?
Rego Park
è un romanzo di domande che investono il nostro essere nel mondo, il nostro
rapporto con noi stessi e con chi ci sta accanto. Sono interrogativi non
espliciti, tuttavia presenti nelle pieghe della narrazione, in profondità,
sotto la superficie degli eventi e dei comportamenti dei personaggi.
La
storia di Ellie e Liam, i protagonisti, è segnata dal passato, da traumi che
assediano l’anima, da una solitudine che sa di sconfitta. Entrambi sono dei
sopravvissuti, dei superstiti di un destino avverso dal quale cercano un
possibile riscatto: Ellie, negoziatrice internazionale, è rimasta vittima di un
attentato in cui ha perso la vista; Liam, invece, è prigioniero del ricordo
dell’amatissima moglie prematuramente scomparsa. Il loro casuale incontro a
Rego Park, nel Queens, si profila come l’occasione per tentare una nuova vita,
per riappropriarsi di un senso smarrito da tempo.
Lo
spostamento da New York alla California è per loro una sfida che mette tutto in
gioco, in una condizione di equilibrio instabile e che oscilla continuamente tra
passato e presente. Perché l’ombra di ciò che è stato non si è mai dissolta
completamente e il baratro della solitudine e della sconfitta è una minaccia
costante. Ellie e Liam restano, infatti, personaggi sempre in bilico, ciascuno
con le proprie fragilità, le proprie manie e i propri fantasmi. Che cos’è che
li ha uniti veramente? Che cosa hanno cercato l’uno nell’altra? E che cosa
ciascuno ha trovato? Era quello il sogno desiderato, in grado di chiudere profonde ferite?
Si
comprende, leggendo il libro, che la questione non riguarda soltanto la
relazione tra i due, ma qualcosa di ben più vasto e complesso e che concerne
l’esistenza. La loro vicenda è una riflessione sul tempo, sul grado di
consapevolezza che abbiamo di noi stessi e sugli aut-aut che la vita ci impone
(«Ogni nostro gesto, o parola, determina, a livello cosmico, un’immediata
conseguenza, grande o piccola essa sia» si legge in un flash improvviso). A ben
vedere, le perplessità, i silenzi, le delusioni, o gli slanci emotivi e le
aspettative dei protagonisti ci istruiscono sull’importanza del discernimento
interiore per verificare la natura e l’autenticità delle nostre azioni. Forse è
proprio questa la lezione che – dopo prove anche estreme – apprendono in qualche
modo i due protagonisti: il loro percorso chiede di essere reinventato in altre
forme di condivisione e di appartenenza, con sincerità, senza più maschere e
senza «il peso della rabbia e del rancore», perché se le cose o le persone si
trasformano «in una prova costante, una sfida perenne, esse divengono, a poco a
poco, il tuo nemico giurato, l’antagonista al quale, prima o poi, dovrai
dichiarare la tua guerra privata». E poi: «non basta recuperarla, una vita;
bisogna viverla in un modo nuovo, diverso da quello che ci ha portati a perdere
la precedente».
La scrittura di Corrado Passi riesce a condurre il lettore alla scoperta dei pensieri e degli stati d’animo dei protagonisti con notevole sapienza stilistica e psicologica. La sua è una prosa ben calibrata, che sa rivelare a poco a poco, che ammalia e incuriosisce, capace di conferire grande valore ai dettagli, agli oggetti (il Bosendorfer, tra tutti), agli ambienti (il caffè dove Ellie e Liam s’incontrano, la loro villa sulla baia di Carmel, in California, «l’ultima terra prima della fine del mondo») e ai paesaggi (Cape Town, i deserti del Medio Oriente, l’oceano con le balene) che diventano in questo modo quasi coprotagonisti, in una mirabile fusione con la vicenda narrata, secondo uno sguardo mobile e preciso, cinematografico.
Un
libro da leggere e da assaporare lentamente per cogliere tutte quelle
sfumature, quei riverberi sottili che palpitano a ogni pagina.
Mauro Germani
martedì 18 ottobre 2022
Letizia Dimartino - Le città degli altri
In quest’ultimo libro di Letizia Dimartino il tempo è sempre perduto e sempre ritrovato, è un movimento circolare il cui diametro si concentra e si espande continuamente. È una sorta di eterno ritorno dello sguardo e della scrittura, tra passato e presente, dove ciò che è stato riprende a vibrare sulla pagina, come fosse la prima o l’ultima volta, vacillante eppure ancora nitidissimo, preciso, prima della sparizione. Ogni esperienza vissuta ha l’intensità, la meraviglia, l’incanto di ciò che è stato unico, ma che pure a frammenti riappare, tocca l’anima, chiama per configurare un destino. Lontano e vicino si cercano, s’incontrano, s’interrogano.
Chi scrive sa di questa dimensione ambigua, di questo essere fantasma tra i fantasmi. Eppure le città evocate (più che rievocate) da Letizia Dimartino giungono a noi quanto mai concrete. Milano, Roma, Messina, Catania, Napoli, Bologna palpitano con la loro vita dentro la vita: non sono mai sole, sono popolate dall’esistenza, dagli appuntamenti degli anni, dai sogni, dalle paure, dalle speranze, dai dispiaceri e dalle malattie, in un groviglio inestricabile di verità e di mistero. Ogni città ha una propria anima con cui l’autrice si relaziona. Uomini, donne, strade, case, nonché voci, rumori, stanze, cibi, abitudini, sono certo quel che sono ma, al tempo stesso, diventano altro: domande inespresse, desideri segreti, amori implorati, illusioni, presagi, timori o aspettative che continuano a parlare e che ci interpellano. Perché è specialmente ciò che di solito non ha voce a prendere vita.
Letizia Dimartino ha la capacità straordinaria di dare anima alle cose, di presentarci dettagli e circostanze apparentemente trascurabili che assumono però un’importanza eccezionale. Sono sequenze brevi o semplici fotogrammi che – come in una pellicola scomposta eppure unitaria – a volte ritornano tra una dissolvenza e l’altra, con minime variazioni, intessendo la scrittura di soprassalti emotivi e di memorie nette nella loro esclusività, nel loro speciale esserci. Grazie ad una prosa cadenzata e ricca di valenze poetiche, spesso contraddistinta da uno stile paratattico e/o nominale, che ben si confà alla successione dei ricordi, l’autrice ci fa sentire, come in un particolare processo medianico, ciò che in passato ella stessa ha visto e sentito e oggi ancora vede e sente: e sono volti, vie, piazze, treni, stazioni, negozi, paesaggi, sapori, odori, passioni, che conferiscono al libro un valore di preziosità, al pari di uno scrigno da custodire.
Ecco allora, tra i luoghi narrati e vissuti, delinearsi la Milano del passato, conosciuta soprattutto nei soggiorni settembrini, la Milano di un tempo, sempre amata e fantasticata, nonostante a volte mettesse paura, con la sua vita così diversa e lontana, con la nebbia o i temporali improvvisi, «il cielo basso e denso», «i taxi verde scuro», «le farmacie specchiate, i marmi lucidi», «le cassiere dalle gentilezze eccessive», la Milano dove cercare costantemente quadrifogli che avrebbero cambiato la vita. E poi Roma, la malattia della madre, gli studi medici, gli alberghi, i caffè in via Veneto, la voglia di vivere come una specie di miraggio. E il mare di Messina, la città natale, quel «vento di scirocco sempre, con le carte che si sollevavano lungo le strade diritte e le onde si facevano bianche e pure il cielo», la città che si poteva vedere anche ad occhi chiusi. E Catania con le terapie speciali per la madre, i sogni della giovinezza, le strade dove «un tempo passavano carrozze e dame con cappelli infiocchettati» e «gli aranceti splendevano, e gli sguardi erano di fuoco dietro le persiane e agli angoli delle vie». E Napoli, meta un tempo di viaggi di nozze, il padre che amava cantare le canzoni napoletane e considerava Posillipo e Mergellina i luoghi più belli d’Italia, Napoli con il suo «dialetto incomprensibile», le vie strette, e Amalfi e Capri, conservate con commozione in «cartoline anni Cinquanta con le strade fiorite e il mare a strapiombo». E Bologna col suo freddo estivo, «gli alberghi chiassosi le loro stanze ammuffite i copriletti di cretonne fiorato l’odore del ragù le scale buie», e la Romagna con l’allegria delle donne, i loro nomi strani, i loro «occhi che guardano diritto», senza paura.
L’ultimo capitolo del libro è infine dedicato
al Sud, luogo di luoghi, centro di ogni centro, in cui il passato va sempre
incontro al presente, s’avvicina e si allontana, con le sue figure che appaiono
improvvisamente in un’assenza vibrante, dentro la scrittura e il dolore della
malattia. Ora ci sono «solchi di carne, solchi d’anima», strade non più
attraversate e piazze abbandonate. Ma le città qui narrate, quelle che hanno
acceso i sentimenti dell’autrice («la vita mia è tutta un sentimento») non si
sono spente del tutto. E se è vero che la malattia le ha rese da tempo
irraggiungibili, è altrettanto vero che le loro luci, i loro colori, le loro
particolari atmosfere in qualche modo esistono ancora: sono i doni che Letizia
Dimartino offre a noi lettori con la sua
scrittura.
Mauro Germani
giovedì 13 ottobre 2022
Giuseppina Di Leo riflette su "Tra tempo e tempo"
Tra Tempo e Tempo. Nel titolo Mauro Germani mette in relazione due termini uguali tra loro: tempo e tempo. Tuttavia, si tratta di una ripetizione necessaria perché attiene a due concetti ben distinti, ognuno dei quali viene indagato nella sua sfera specifica di senso: uno è il tempo del vivere quotidiano, con le sue preoccupazioni e le brutture; l’altro, il tempo della fede, della ricerca costante di Dio.
In un linguaggio piano e puntuale, espresso in prima persona, ciascuno dei trentatré brevi capitoli introduce un argomento trattato in continuità con il precedente conferendo, all’intero libro, un respiro ampio ma, anche, un imprescindibile “vincolo di necessarietà” (locuzione cara all’archivistica) tra i temi esaminati.
Il tempo del quotidiano prende le mosse dal passato, dall’infanzia, dall’amore per la lettura e la scrittura, dai ricordi famigliari; l’altro, il tempo della fede, abbraccia i temi cari a Germani filosofo e teologo: la perdita, la morte, il nulla, la verità, l’«urgenza di Dio», per citarne solo alcuni, non dimenticando il particolare amore per i gatti e, in generale, per tutti gli animali.
È opportuno rilevare come entrambe le due sfere
vadano di pari passo, spesso intersecandosi in modo che la prima (la parte
personale) nutra e fecondi quella spirituale: «Di qua la cosiddetta normalità.
Di là il sacro e l’abisso, l’urgenza di Dio e il nulla. Da un lato la precarietà
di ogni atto, la coscienza di una impossibilità o di una sconfitta, il dubbio
dell’illusione; dall’altro una specie di chiamata, fuochi improvvisi, piccole
estasi, cadute rovinose, paure, preghiere balbettanti, sangue che grida.
Entrambe le parti instabili, ma sempre, ovunque, l’attesa di qualcosa. Una
scissione che ho sempre guardato e che guardo. […] Bisognerebbe essere diversi
[…]». (A metà)
A tal proposito, riporto le parole dello studioso della mistica moderna,
Mino Bergamo, riguardo al rapporto «tra
biografia e l’opera, fra la scrittura e la vita». Dunque, Bergamo dice: «Anziché leggere l’opera di un autore in
funzione della sua vita, proviamo ad esempio a interpretare la sua vita in
funzione della sua opera. […] Anziché domandarci quale realtà sia segretamente
rappresentata nel contenuto di un’opera, chiediamoci quale realtà la dinamica
significante di quest’opera abbia la funzione di trasformare. Cerchiamo, in una
parola, di comprendere quel che un autore fa
con un testo, piuttosto che stabilire quello che egli rappresenta per suo tramite.» (Mino Bergamo, «La scrittura come
modello di vita (Jean-Joseph Surin)», in Rivista del Centro Internazionale di
Semiotica e di Linguistica, Università d’Urbino, 1991).
Per meglio comprendere se ci sia e, in caso affermativo, quale sia la «dinamica» trasformatrice di Tra Tempo e Tempo, a venire in soccorso sul versante affermativo è il libro in oggetto nel passaggio in cui Germani dice che le chiese sono luoghi che racchiudono «un segreto antico e importantissimo. […] Sento la gravità del tempo e penso ai lunghi anni in cui mi sono sentito abbandonato e perduto, un orfano di Dio. Anni di disperazione sorda, di un’oscura volontà di annientamento». (In chiesa)
Il «segreto antico» di cui l’autore parla rimanda ad un sapere di cui hanno
parlato i mistici a proposito del mistero della perdita (anéantissement) nella loro esperienza spirituale: «la perdita irreparabile della soggettività in cui il
mistico incorre sulla via dell’unione a Dio». (Mino
Bergamo, La scienza dei santi. Studi sul
misticismo del Seicento).
Per Germani la scrittura è testimoniare il divario tra vita vissuta e il bisogno di spiritualità: scrivere è un atto di umiltà e di rinuncia: «è soprattutto solitudine, vizio irrinunciabile o malattia, sguardo dentro l’abisso dell’esistenza e talvolta preghiera». (I Santi Evangeli)
E come diceva Adriana Zarri: «la preghiera si
nutre di solitudine, non di isolamento; e il silenzio contemplativo è denso di
parole e di presenze». (Adriana Zarri, Un
eremo non è un guscio di lumaca)
Dicevo che il titolo del libro contiene due parole uguali solo in apparenza, secondo un distinguo sapientemente indicato dall’autore nel corso dei vari capitoli. In particolare, parlando del Nuovo Testamento, egli parla di «bellezza e mistero» per connotare le parole del Vangelo.
In uno scritto dal titolo Cristo e il Tempo Anna Maria Ortese parla dei Vangeli sottolineando la potenza innovatrice e rivoluzionaria di Gesù. Nel fare questo pone in risalto i grandi temi: il potere del male nel mondo, la morte terrena, il valore del tempo, ma sottolinea come la possibilità data all’uomo di venire fuori dalla perversione sia riconoscere Dio come unico e solo «vero signore della vita». Soltanto con l’obbedienza a Dio l’uomo si riscatterà dalla schiavitù del Diavolo, attuale «Signore del mondo». Sono cioè i temi che ritroviamo in Tra Tempo e Tempo:
«Ho
sempre avuto la sensazione che, nel momento in cui compiamo le nostre azioni
liberamente, siamo invasi o posseduti da qualcosa più grande di noi. Il bene e
il male non sono soltanto azioni, né concetti astratti: sono due forze e due
principi in opposizione tra loro, verso cui il nostro essere è costantemente
aperto, che comportano conseguenze ben precise. Mentre il bene è sempre
luminoso, il male lascia sgomenti». (Il male nel mondo)
Riporto un ampio stralcio tratto dal libro di Ortese, nel quale si evidenzia la differenza sostanziale tra i due diversi significati dati alla parola tempo: «…il Vangelo resta chiuso ai potenti, ai felici, ai sani, ai giovani, agli intellettuali, agli amanti di superficie, per tutto il tempo che durano i loro beni, averi, onori e poteri: spesso l’intera vita. E subito, sin dall’inizio, è aperto a coloro che non ebbero nulla, o seppero presto che il loro tesoro era fondato sul nulla, né dato – se era dato – al loro Io invisibile e sicuro; ma solo era dato a tutte le possibili servitù e compromissioni dell’Io spirituale, alle firme che l’Io appose a quanti contratti ne chiedevano la lenta destituzione o degradazione. Per costoro […] Cristo venne, a dare, appunto, la resurrezione e la vita. Non venne per altri. // Si spiegano così le sue parole: «Non sono venuto per tutti». E ancora: «Non sono venuto a portare la pace, ma la guerra». La sua guerra è il rifiuto del tempo e delle leggi poste dal tempo, il distacco dalle sue fioriture già ipotecate dal perire, è la condanna già fissata per chi si nutre di solo tempo. Questo tempo è morto. Di solo tempo non ci si può nutrire, senza mangiare morte. Lo sanno i seguaci, i devoti, gli adulatori del tempo, ora moltitudini senza fine, che si saziano di un tempo sempre più breve, e tutto, già chiaramente, riverberato di morte. L’Eterno, il Dio, il Creatore con le sue inenarrabili grandezze, il RESPIRO (Dio è lo stesso RESPIRO, il MOTO e la LIBERTÀ di tutto), è tenuto fuori, o destituito costantemente, dai guardiani del Tempo. Il quale si fa anche Tempio, cattedrale dell’infimo, il livido, il gelido, il repellente, l’inerte – che deve essere il nutrimento dell’uomo, se si vuole che l’uomo sia morto. Ed eccolo, è come morto. […]» (sta in Anna Maria Ortese, Da Moby Dick all’Orsa Bianca: Scritti sulla letteratura e sull’arte).
Per Mauro Germani mettere l’insegnamento di Gesù al centro del quotidiano vuol dire imprimere al tempo presente un carattere distintivo di “forza” e di “responsabilità” verso gli altri, argomenti da sempre oggetto di riflessione dei filosofi e dei mistici fino a Kierkegaard, Weil, Levinas. Ed è questa l’unica maniera che abbiamo noi, sorretti dalle sole forze in nostro possesso, per sconfiggere il male che ci circonda; è l’Eccomi! di Levinas che abolisce l’indifferenza di cui siamo così disgraziatamente ricchi, a tal punto da permettere lo strazio della ineguaglianza e della violenza più brutale, nonché della «perversione» che coabita nelle strade delle nostre città. E nel mondo.
Concludo con gli splendidi versi di un poeta come Umberto Saba, per la sintonia che vi trovo, nella bellezza e coraggio, con le parole di Germani, e per il messaggio di speranza che può venire solo da chi preserva la propria purezza d’animo:
QUASI UNA MORALITÀ
Più non mi temono i passeri. Vanno
vengono
alla finestra indifferenti
al
mio tranquillo muovermi nella stanza.
Trovano
il miglio e la scagliuola: dono
spanto
da un prodigo affine, accresciuto
dalla
mia mano. Ed io li guardo muto
(per
tema non si pentano) e mi pare
(vero
o illusione non importa) leggere
nei
neri occhietti, se coi miei s’incontrano,
quasi
una gratitudine.
Fanciullo,
od
altro sii tu che mi ascolti, in pena
viva
o in letizia (e più se in pena) apprendi
da
chi ha molto sofferto, molto errato,
che
ancora esiste la Grazia, e che il mondo
-
TUTTO IL MONDO – ha bisogno d’amicizia.
(Umberto
SABA)
Giuseppina Di Leo