Terra estrema, il nuovo
libro di Mauro Germani, applica al percorso poetico dell’autore un
giro di vite rimarchevole; tanto rimarchevole da poter definire questa svolta
stilistica come una stagione nuova, i cui risultati maturi potranno vedersi
appieno in un prossimo futuro. È l’aggettivazione la prima caratteristica che
salta all’evidenza; una funzione cromatica, intensa, ritmica e molto spesso in
fondo al verso, al fine di dare alla timbrica un passo inedito. Il poeta
infatti desidera creare un cospicuo magazzino di oggetti, -materiali e
immateriali- tanto numeroso da poter fornire al lettore i “ferri del mestiere”.
Germani, sotto questo profilo, non si pone limiti; getta pennellate di notevole
policromia; reitera, scialando, nomi e nomi con insistenza, facendosi in tal
caso beffe di quei critici che sempre pongono le loro raccomandazioni di
prudenza aggettivale. Nonostante i timori di incorrere in una critica di questo
tipo, il nostro poeta è andato avanti con il suo progetto, riuscendo a
inanellare passi memorabili, sul fronte della trepidazione coloristica che la
tematica richiedeva.
Sempre a
livello di stile, c’è da notare l’uso fitto dell’anafora, che promette
l’effetto di un martellamento in capo di verso, utile ad entrare negli spazi
concavi di un riparo, oppure, al contrario, opportuno a spiegare gli spigoli
appuntiti di una affermazione polemica. Il dettato, a mano a mano che si
procede in avanti nella lettura, segue o insegue la “nota solenne” (ma non
querula) dell’intonazione profetica –sibillina e divinatoria-. Germani dà
l’impressione di chiedere al proprio magazzino lessicale di muoversi, di agire,
di uscire nei quartieri della Terra estrema, per conferire la bonifica di
questa regione impervia. Un’indagine ha potuto appurare la frequenza delle
ripetizioni; alle pagine 40-41-42-43 si può contare fino a sei volte la
ripetizione della parola “universo” (e affini). Altrettanto fitta è apparsa la
frequenza del sostantivo “corpo” , così come del resto si può dire del gruppo
di termini “Flutto, fiato, gemito, respiro, tremore ecc…”). Una sola volta è
stata pronunciata la parola “bellezza” (credo, per un senso di paura, ché al
solo pronunciamento il lettore avrebbe potuto rischiare la cecità).
Ma passiamo
alla tematica.
Germani
introduce, anche se in modo graduale, la cifra della raccolta, ovvero
l’ombrosità e la ritrosia del dire senza dire. Si ritorna alla dinamica della
reticenza attraverso un uso sovrabbondante di frasi periferiche, le quali hanno
lo scopo di stornare il linguaggio dal fulcro vero dell’opinione. Salta in
superficie l’uso di una scrittura semi-automatica / semi-lucida, ottenuta in
virtù della produzione di un “rumore” di base, utile anch’esso a produrre
ambigua reticenza, anziché mirare direttamente alla “nuda” proprietà dell’idea.
Il corpo è
certamente la navicella spaziale con cui viaggiare ai confini della stessa
entità corporea (la Terra estrema).
Il corpo
viene osservato dal punto di vista della propria ombra.
Si ha quindi
modo di toccare con mano l’orografia della montuosità, l’accoglienza delle
concavità ove svernare la propria formazione di crescita.
I soggetti
poetici contraggono fibrillazioni e aritmie, le quali passano dall’Io al Noi,
al Loro, con un senso di fame che non transige. Il corpo viene rappresentato
dagli organi fisiologici (gli occhi, le labbra, la pelle o quant’altro). Ma del
corpo, della sua presa di coscienza biologica, non c’è eternità; esiste anzi la
concreta possibilità che lo stesso corpo appaia come un mezzo per poter
raggiungere l’ottundimento, l’estasi dell’eros così contiguo al senso fatale
della morte.
Quale ignoto
sangue,
quale corpo
ai confini
del corpo?
(Ai più,
dopo la lettura di un tale frammento, verrebbe forse da chiedersi: si parla qui
del gemello mai nato?)
Ma l’uomo è
segno di infinita segretezza; come un buco nero dello spazio che conservi -già
nel suo più profondo infinito- la lesione primordiale.
… “nella
notte cieca
che
sprofonda,
nella piaga
d’anima
aperta e
nera,
più giù,
dove tutto
si cerca
e sempre si
perde”
Tale senso è
ben presente anche nelle ultime due sezioni del libro: “Voci” e “Terra
estrema”. Nella prima di queste due parti si alza una nota solenne, accorata,
che dichiara il proprio nome (ora il cielo, ora la neve, ora altri personaggi
di questa dimensione, situati a metà strada fra la Terra ordinaria e il
perfetto oltretomba). Si giunge così ad un trasferimento dell’ Io poetico:
dall’imperio verbale (il “non” che proibisce) al “Lui” - “Lei” (che insieme
sono l’umanità) per una cacciata dal paradiso, terrestre e infernale.
È la
temperie decisiva, con il suo varcare i confini del corpo, che assesta e
consolida un regime definitivo, determinando l’anchilosamento della speranza.