La
religione del mio tempo (1961)
di Pier Paolo Pasolini (1922-1975) è una raccolta poetica che si
compone di tre sezioni. La prima contiene il poemetto
che
dà il titolo al libro ed è anche
la
più ampia e complessa, in quanto costituisce il principale nucleo
tematico di tutta l’opera. Colpisce in questa parte, intitolata
La ricchezza
e datata 1955-56, la capacità di Pasolini di attuare un continuo
movimento
in versi,
in cui lo sguardo del poeta è al tempo stesso interiore ed
esteriore, cioè uno sguardo
in cammino
tra realtà del passato e del presente.
Chi
legge viene avvolto, quasi rapito, da un succedersi di immagini e di
eventi che scaturiscono dalle visioni dello stesso Pasolini,
protagonista in prima persona delle varie composizioni, anche quando
pare non esserci. Non è pertanto pienamente condivisibile l’opinione
di chi ritiene questo libro «un
esempio di poesia civile,
dove più che il poeta, protagonista è la Storia del nostro Paese»
(Gianni Borgna,
Pasolini integrale,
Castelvecchi, 2015, p. 32).
Tale
affermazione risulta in realtà imprecisa o incompleta, in quanto ciò
che emerge è soprattutto la lotta dell’autore con la storia, il
suo sdegno, la sua passione violata da ciò che di fatto era accaduto
e stava accadendo nella nostra società. È un io in opposizione,
quello di Pasolini, che non si riconosce in ciò che poi definirà
«sviluppo senza progresso»: la
voce e lo sguardo rimandano sempre all’io del poeta, al suo stupore
e al suo dramma (da notare, tra l’altro, il titolo stesso del
volume, dove compare l’aggettivo possessivo mio):
è lui il regista
di
tutto ciò che accade sulla pagina; e a tal proposito – giustamente
– si è accennato a un procedimento cinematografico operante nella
sezione.
In apertura del volume, ci vengono incontro gli affreschi di
Piero della Francesca, che appaiono in una luce particolare, come
«fiati
di fiamma», volti e figure di un altro tempo che danno vita a versi
liberi, mossi dalla potenza figurativa del ciclo pittorico delle
Storie della Vera Croce, al
cospetto dei visitatori e soprattutto di un operaio che si aggira
intimorito nella chiesa di San Francesco ad Arezzo, «quasi, indegno,
/ ne avesse turbato la purezza...». Le «braccia d’indemoniati»,
le «scure schiene», il «caos di verdi soldati / e cavalli
violetti» della scena delle Battaglie
irrompono
negli occhi dell’uomo dal «minuto cranio» e dalle «rase
mascelle», fino all’immagine dell’Annunciazione
dell’Angelo
a Maria e del sogno di Costantino. Ne risulta un’atmosfera sospesa
e insieme realistica, carnale, quando l’ora del tramonto, fuori
dalla chiesa, riapre nel poeta le «ferite della nostalgia», che
rivelano «luoghi, persi nel cuore / campestre dell’Italia, dove ha
peso / ancora il male, / e peso il bene». C’è già in questi
versi il richiamo a qualcosa di perduto o che è in via di
sparizione, che sarà assai rilevante nel poemetto La
religione del mio tempo,
in cui saranno rievocate l’innocenza e la dolcezza del mito
friulano, tra rimpianto per ciò che è stato e delusione attuale.
Il
dentro
(la
chiesa di San Francesco) e il fuori
(la
piazza con il chiasso dei ragazzi) sono in qualche modo uniti da due
solitudini: quella dell’operaio e quella del poeta, che – nei
testi successivi – prosegue il suo viaggio verso il paesaggio umbro
per approdare poi finalmente a Roma. Pasolini poeta e intellettuale
si confronta con la nuova dimensione romana, ricordando
il suo impatto iniziale con la città, quando abitava in «una povera
casa, perduta nella periferia» e insegnava in «una povera scuola
perduta in altra periferia» («Ah, il vecchio autobus delle sette,
fermo / al capolinea di Rebibbia, tra due / baracche, un piccolo
grattacielo, solo / nel sapore del gelo o dell’afa...»)
e dentro di sé provava desideri, aspirazioni e soprattutto
attrazione e passione nei confronti del sottoproletariato,
protagonista nei romanzi Il
sogno di una cosa
(uscito nel 1962, ma scritto nel 1949-50 e di ambientazione
friulana), Ragazzi
di vita (1955)
e Una
vita violenta (1959).
Tra i testi migliori della raccolta c’è indubbiamente
Riapparizione
poetica di Roma,
di straordinaria potenza visionaria, a partire dall’incipit
in
cui «Dio» è un’interiezione di stupore e di mistero: la città
si rivela all’autore in un’atmosfera allucinata, in mezzo a
coltri fiammeggianti, dove il fuoco divampa fino a bruciare l’acqua,
in un fumo che alla fine è «rudere d’incendio», «gigantesco
sfacelo», furia dissanguata, la quale «dà più ansia al mistero»
di Roma e dei suoi «invisibili rioni». Una poesia rapita,
come un sogno barocco di forze e passioni nascoste dentro e intorno
al ventre della città («richiami di freschi / bambini, tra le
stalle, o stupendi / colpi di campana, di fattoria / in fattoria»),
di ossimori ardenti, di vita dentro la morte o viceversa.
Dopo
questa
visione,
prosegue
il peregrinare del poeta, come «un ossesso», nel «primo dopocena,
quando il vento / sa di calde miserie familiari / perse nelle mille
cucine, nelle / lunghe strade illuminate, / su cui più chiare spiano
le stelle», nella consapevolezza della propria solitudine: «Ah,
essere diverso – in un mondo che pure / è in colpa – significa
non essere innocente...». Ecco allora, più tardi, i giovani che
vanno verso le Terme di Caracalla, «con maschile / pudore e maschile
impudicizia», fendendo la notte con le loro motociclette, insieme ad
altri personaggi solitari, come il pastore migrato undicenne, il
vecchio padre di famiglia, distrutto dall’alcol e disoccupato, e
poi le prostitute, i magnaccia, i «rifiuti del mondo», che danno
vita a «leggi nuove / dove non c’è più legge» e «a un nuovo /
onore dove onore è il disonore...»: un’umanità miserabile che
sembra sepolta in «labirinti, cantieri e sterri, / dietro mareggiate
di grattacieli, / che coprono interi orizzonti» e che il poeta descrive con ossimori: spietata nella
pietà, forte nella leggerezza, con addosso una speranza ch’è
senza speranza. Un’umanità a cui si aggiunge Pasolini stesso,
«solo fino all’osso», col «privilegio di pensare» e con i suoi
sogni da intellettuale, «testimone e partecipe»: una speranza
«ossessa» accomuna il poeta al sottoproletariato, ma se in
quest’ultimo è «anarchica», nel poeta è «estetizzante». Assai
importante questa affermazione/confessione dello stesso Pasolini,
perché ciò accentuerà la sua solitudine che culminerà in
un’abissale disillusione, come viene già espressa nella sequenza
poetica successiva, in cui la visione del film Roma
città aperta di
Rossellini è motivo di una riflessione sul passato e sul presente.
La Resistenza fu all’inizio per Pasolini uno stile, una luce, una
speranza di Giustizia, dunque un ideale assoluto, che poi si precisò
nella «coscienza / d’una umana divisione di ricchezza», come una
nuova luce, destinata però a sparire poco dopo, perché il
«dopoguerra epico» sognato non c’è stato e coloro che un tempo
lo ebbero nel cuore e ora sono adulti appaiono agli occhi del poeta
come «poveri uomini / a cui ogni martirio è stato inutile», tanto
da affermare tragicamente che «quella luce, / per cui vivemmo, fu
soltanto un sogno / ingiustificato, inoggettivo, fonte / ora di
solitarie, vergognose lacrime», un pianto provocato anche dalla
straziante memoria del fratello Guido, ucciso nel 1945.
Segue, dopo il testo A
un ragazzo (1956-57) dedicato a Bernardo Bertolucci, il poemetto in terzine, diviso in sei
parti, La
religione del mio tempo
(1957-59), su cui vale la pena soffermarsi, perché è la
composizione più significativa del libro. L’apertura riguarda due
ragazzi che il poeta osserva dalla finestra di casa sua, dopo due
giorni di febbre: è l’inizio di un succedersi di riflessioni e
ricordi che danno origine a ulteriori movimenti e sequenze tra la
realtà esterna e ciò che Pasolini prova dentro di sé. L’immagine
dei giovani «disadorni, ignorati», che se ne vanno nel sole,
riportano improvvisamente l’autore al suo passato, alle «misteriose
/ mattine di Bologna o di Casarsa, / doloranti e perfette come rose»,
che lo fanno sentire «come un bambino / che non geme per ciò che non
ha avuto solo, / ma anche per ciò che non avrà...». Un senso di
esclusione si unisce a un pianto dolce, in cui la madre, la natura,
la storia, la Chiesa sono come un po’ di sole «che riscalda
una vigna in abbandono», insieme alle figure di «giovinetti
antichi», con «i petti pieni della primavera». I ricordi
infantili, il mito friulano, così come il legame con la Chiesa
cattolica, sono sogni perduti che procurano in Pasolini uno strano
male, un dolore che è amaro e dolce insieme. Il profumo della
religione («la mia religione era un profumo») era per lui unito
alla Chiesa e al mistero contadino: «Eppure, Chiesa, ero venuto a
te. / Pascal e i Canti del Popolo Greco / tenevo stretti in mano,
ardente, come se / il mistero contadino, quieto / e sordo nell’estate
del quarantatré, / tra il borgo, le viti e il greto / del
Tagliamento, fosse al centro della terra e del cielo». Sono versi
assai espliciti, che dicono della passione giovanile di Pasolini,
destinata poi a finire, spazzata dalla Resistenza, quando nell’animo
del poeta si fa sentire il dissidio tra una Chiesa ormai «morta nei
secoli» e la figura di Cristo («io davo a Cristo / tutta la mia
ingenuità e il mio sangue»); da tale dissidio scaturisce la colpa
della Chiesa, la quale per Pasolini ha assecondato nel tempo il
tremendo grigiore del conformismo borghese e il neocapitalismo
avanzante. La sua invettiva contro la Chiesa è feroce, proprio
perché egli non ne sopporta l’ipocrisia e il potere («Guai a chi
non sa che è borghese / questa fede cristiana»).
Il
poeta ritorna poi ai due giovani dell’inizio, alla loro immagine
che incarna le «avventure del sogno», tuttavia alla fine del
poemetto deve riconoscere la mancanza di ideali del tempo presente,
che rende l’uomo vile, ed è proprio questa «viltà che fa l’uomo
irreligioso». Si delinea così il duplice dramma di Pasolini,
rappresentato da un lato dall’infanzia arcaica perduta, con il suo profumo
religioso, e dall’altro dalla crisi del mito del sottoproletariato, non più libero, ma corrotto e in qualche modo vile, in balìa anch'esso, come tutti, del sistema borghese. Una disillusione, quella del poeta,
che è per lui una sconfitta personale e collettiva, senza scampo,
anche se l’ultimo testo della sezione, intitolato Appendice
alla «Religione»: Una luce (1959)
si conclude con un’affermazione tremenda e dolce insieme,
contraddistinta ancora una volta da un ossimoro: «non c’è mai /
disperazione senza un po’ di speranza». Questo testo finale
risulta davvero vibrante di commozione e tenerezza perché riguarda
la figura della madre, in una confessione non immune da sensi di
colpa e pervasa dal riconoscimento di un bene segreto, intimo: «so
che una luce, nel caos, di religione, / una luce di bene, mi redime /
il troppo amore nella disperazione...». Evidentemente il poeta,
dopo lo sdegno e la rabbia precedenti, ha sentito il bisogno di trovare, nel buio della sua solitudine e
della sua disperazione, una luce. E questa luce viene dalla madre:
«La casa è piena delle sue magre / membra di bambina, della sua
fatica»; «una pietà così antica, / così tremenda mi stringe il
cuore, / rincasando, che urlerei, mi toglierei la vita»; «Tutto
intorno ferocemente muore, / mentre non muore il bene che è in lei».
È un testo che prefigura la morte di entrambi, «in un silenzio
stento e povero», ma che è testimonianza di un amore struggente
verso la madre, la quale incarna per l’autore una purezza destinata
a rimanere: «nella dolcezza del gelso e della vite / o del sambuco,
in ogni alto o misero / segno di vita, in ogni primavera, sarai / tu;
in ogni luogo dove un giorno risero, / e di nuovo ridono, impuri, i
vivi, tu darai / la purezza».
Questo è il Pasolini poeta che
raggiunge i risultati più alti, come nelle raccolte La meglio gioventù del 1954, comprendente le Poesie a Casarsa, e Le ceneri di Gramsci del 1957, non quello dell’invettiva, della
rabbia o del risentimento personale presenti soprattutto negli epigrammi della
seconda sezione del libro. Pure i testi dell’ultima parte, intitolata Poesie incivili (aprile 1960), appaiono meno rilevanti, anche se merita una citazione la poesia Il glicine, che attesta ancora una volta la solitudine del poeta e la scissione insanabile tra il corpo e la storia, nonché la rabbia dell’anima nella ferocia del mondo.
La religione del mio tempo è
una raccolta assai composita, con esiti di diverso livello, che
rivela una sorta di ambiguità o bipolarità tormentata presente nella scrittura di Pasolini
(riscontrabile del resto anche nella narrativa), tra momenti lirici e assai intensi e altri più aspri e crudi, fino all’adozione di un linguaggio variegato e sovente ibrido, come dimostrano le raccolte successive, in particolare Trasumanar e organizzar del 1971.
In ogni caso, e per concludere, non sembra lecito considerare La religione del mio tempo un esempio di poesia in cui sarebbe protagonista solo la
storia del nostro Paese, perché ciò non coglie i motivi più interni dei principali componimenti, che sono la testimonianza di una dimensione esistenziale, introspettiva e tragica dell'autore. Pasolini, in fondo, si
è sempre sentito in opposizione alla storia, ferito e tradito da essa, deluso e sempre solo, in cerca di una comunità e di un’appartenenza che non ha mai
trovato.
Mauro Germani
A proposito di Pasolini, su questo blog:
Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini