lunedì 26 maggio 2025

Pier Paolo Pasolini - La religione del mio tempo


La religione del mio tempo (1961) di Pier Paolo Pasolini (1922-1975) è una raccolta poetica che si compone di tre sezioni. La prima contiene il poemetto che dà il titolo al libro ed è anche la più ampia e complessa, in quanto costituisce il principale nucleo tematico di tutta l’opera. Colpisce in questa parte, intitolata La ricchezza e datata 1955-56, la capacità di Pasolini di attuare un continuo movimento in versi, in cui lo sguardo del poeta è al tempo stesso interiore ed esteriore, cioè uno sguardo in cammino tra realtà del passato e del presente. Chi legge viene avvolto, quasi rapito, da un succedersi di immagini e di eventi che scaturiscono dalle visioni dello stesso Pasolini, protagonista in prima persona delle varie composizioni, anche quando pare non esserci. Non è pertanto pienamente condivisibile l’opinione di chi ritiene questo libro «un esempio di poesia civile, dove più che il poeta, protagonista è la Storia del nostro Paese» (Gianni Borgna, Pasolini integrale, Castelvecchi, 2015, p. 32). Tale affermazione risulta in realtà imprecisa o incompleta, in quanto ciò che emerge è soprattutto la lotta dell’autore con la storia, il suo sdegno, la sua passione violata da ciò che di fatto era accaduto e stava accadendo nella nostra società. È un io in opposizione, quello di Pasolini, che non si riconosce in ciò che poi definirà «sviluppo senza progresso»: la voce e lo sguardo rimandano sempre all’io del poeta, al suo stupore e al suo dramma (da notare, tra l’altro, il titolo stesso del volume, dove compare l’aggettivo possessivo mio): è lui il regista di tutto ciò che accade sulla pagina; e a tal proposito – giustamente – si è accennato a un procedimento cinematografico operante nella sezione. 
In apertura del volume, ci vengono incontro gli affreschi di Piero della Francesca, che appaiono in una luce particolare, come «fiati di fiamma», volti e figure di un altro tempo che danno vita a versi liberi, mossi dalla potenza figurativa del ciclo pittorico delle Storie della Vera Croce, al cospetto dei visitatori e soprattutto di un operaio che si aggira intimorito nella chiesa di San Francesco ad Arezzo, «quasi, indegno, / ne avesse turbato la purezza...». Le «braccia d’indemoniati», le «scure schiene», il «caos di verdi soldati / e cavalli violetti» della scena delle Battaglie irrompono negli occhi dell’uomo dal «minuto cranio» e dalle «rase mascelle», fino all’immagine dell’Annunciazione dell’Angelo a Maria e del sogno di Costantino. Ne risulta un’atmosfera sospesa e insieme realistica, carnale, quando l’ora del tramonto, fuori dalla chiesa, riapre nel poeta le «ferite della nostalgia», che rivelano «luoghi, persi nel cuore / campestre dell’Italia, dove ha peso / ancora il male, / e peso il bene». C’è già in questi versi il richiamo a qualcosa di perduto o che è in via di sparizione, che sarà assai rilevante nel poemetto La religione del mio tempo, in cui saranno rievocate l’innocenza e la dolcezza del mito friulano, tra rimpianto per ciò che è stato e delusione attuale. Il dentro (la chiesa di San Francesco) e il fuori (la piazza con il chiasso dei ragazzi) sono in qualche modo uniti da due solitudini: quella dell’operaio e quella del poeta, che – nei testi successivi – prosegue il suo viaggio verso il paesaggio umbro per approdare poi finalmente a Roma. Pasolini poeta e intellettuale si confronta con la nuova dimensione romana, ricordando il suo impatto iniziale con la città, quando abitava in «una povera casa, perduta nella periferia» e insegnava in «una povera scuola perduta in altra periferia» («Ah, il vecchio autobus delle sette, fermo / al capolinea di Rebibbia, tra due / baracche, un piccolo grattacielo, solo / nel sapore del gelo o dell’afa...») e dentro di sé provava desideri, aspirazioni e soprattutto attrazione e passione nei confronti del sottoproletariato, protagonista nei romanzi Il sogno di una cosa (uscito nel 1962, ma scritto nel 1949-50 e di ambientazione friulana), Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959). 
Tra i testi migliori della raccolta c’è indubbiamente Riapparizione poetica di Roma, di straordinaria potenza visionaria, a partire dall’incipit in cui «Dio» è un’interiezione di stupore e di mistero: la città si rivela all’autore in un’atmosfera allucinata, in mezzo a coltri fiammeggianti, dove il fuoco divampa fino a bruciare l’acqua, in un fumo che alla fine è «rudere d’incendio», «gigantesco sfacelo», furia dissanguata, la quale «dà più ansia al mistero» di Roma e dei suoi «invisibili rioni». Una poesia rapita, come un sogno barocco di forze e passioni nascoste dentro e intorno al ventre della città («richiami di freschi / bambini, tra le stalle, o stupendi / colpi di campana, di fattoria / in fattoria»), di ossimori ardenti, di vita dentro la morte o viceversa. 
Dopo questa visione, prosegue il peregrinare del poeta, come «un ossesso», nel «primo dopocena, quando il vento / sa di calde miserie familiari / perse nelle mille cucine, nelle / lunghe strade illuminate, / su cui più chiare spiano le stelle», nella consapevolezza della propria solitudine: «Ah, essere diverso – in un mondo che pure / è in colpa – significa non essere innocente...». Ecco allora, più tardi, i giovani che vanno verso le Terme di Caracalla, «con maschile / pudore e maschile impudicizia», fendendo la notte con le loro motociclette, insieme ad altri personaggi solitari, come il pastore migrato undicenne, il vecchio padre di famiglia, distrutto dall’alcol e disoccupato, e poi le prostitute, i magnaccia, i «rifiuti del mondo», che danno vita a «leggi nuove / dove non c’è più legge» e «a un nuovo / onore dove onore è il disonore...»: un’umanità miserabile che sembra sepolta in «labirinti, cantieri e sterri, / dietro mareggiate di grattacieli, / che coprono interi orizzonti» e che il poeta descrive con ossimori: spietata nella pietà, forte nella leggerezza, con addosso una speranza ch’è senza speranza. Un’umanità a cui si aggiunge Pasolini stesso, «solo fino all’osso», col «privilegio di pensare» e con i suoi sogni da intellettuale, «testimone e partecipe»: una speranza «ossessa» accomuna il poeta al sottoproletariato, ma se in quest’ultimo è «anarchica», nel poeta è «estetizzante». Assai importante questa affermazione/confessione dello stesso Pasolini, perché ciò accentuerà la sua solitudine che culminerà in un’abissale disillusione, come viene già espressa nella sequenza poetica successiva, in cui la visione del film Roma città aperta di Rossellini è motivo di una riflessione sul passato e sul presente. La Resistenza fu all’inizio per Pasolini uno stile, una luce, una speranza di Giustizia, dunque un ideale assoluto, che poi si precisò nella «coscienza / d’una umana divisione di ricchezza», come una nuova luce, destinata però a sparire poco dopo, perché il «dopoguerra epico» sognato non c’è stato e coloro che un tempo lo ebbero nel cuore e ora sono adulti appaiono agli occhi del poeta come «poveri uomini / a cui ogni martirio è stato inutile», tanto da affermare tragicamente che «quella luce, / per cui vivemmo, fu soltanto un sogno / ingiustificato, inoggettivo, fonte / ora di solitarie, vergognose lacrime», un pianto provocato anche dalla straziante memoria del fratello Guido, ucciso nel 1945. 
Segue, dopo il testo A un ragazzo (1956-57) dedicato a Bernardo Bertolucci, il poemetto in terzine, diviso in sei parti, La religione del mio tempo (1957-59), su cui vale la pena soffermarsi, perché è la composizione più significativa del libro. L’apertura riguarda due ragazzi che il poeta osserva dalla finestra di casa sua, dopo due giorni di febbre: è l’inizio di un succedersi di riflessioni e ricordi che danno origine a ulteriori movimenti e sequenze tra la realtà esterna e ciò che Pasolini prova dentro di sé. L’immagine dei giovani «disadorni, ignorati», che se ne vanno nel sole, riportano improvvisamente l’autore al suo passato, alle «misteriose / mattine di Bologna o di Casarsa, / doloranti e perfette come rose», che lo fanno sentire «come un bambino / che non geme per ciò che non ha avuto solo, / ma anche per ciò che non avrà...». Un senso di esclusione si unisce a un pianto dolce, in cui la madre, la natura, la storia, la Chiesa sono come un po’ di sole «che riscalda una vigna in abbandono», insieme alle figure di «giovinetti antichi», con «i petti pieni della primavera». I ricordi infantili, il mito friulano, così come il legame con la Chiesa cattolica, sono sogni perduti che procurano in Pasolini uno strano male, un dolore che è amaro e dolce insieme. Il profumo della religione («la mia religione era un profumo») era per lui unito alla Chiesa e al mistero contadino: «Eppure, Chiesa, ero venuto a te. / Pascal e i Canti del Popolo Greco / tenevo stretti in mano, ardente, come se / il mistero contadino, quieto / e sordo nell’estate del quarantatré, / tra il borgo, le viti e il greto / del Tagliamento, fosse al centro della terra e del cielo». Sono versi assai espliciti, che dicono della passione giovanile di Pasolini, destinata poi a finire, spazzata dalla Resistenza, quando nell’animo del poeta si fa sentire il dissidio tra una Chiesa ormai «morta nei secoli» e la figura di Cristo («io davo a Cristo / tutta la mia ingenuità e il mio sangue»); da tale dissidio scaturisce la colpa della Chiesa, la quale per Pasolini ha assecondato nel tempo il tremendo grigiore del conformismo borghese e il neocapitalismo avanzante. La sua invettiva contro la Chiesa è feroce, proprio perché egli non ne sopporta l’ipocrisia e il potere («Guai a chi non sa che è borghese / questa fede cristiana»). Il poeta ritorna poi ai due giovani dell’inizio, alla loro immagine che incarna le «avventure del sogno», tuttavia alla fine del poemetto deve riconoscere la mancanza di ideali del tempo presente, che rende l’uomo vile, ed è proprio questa «viltà che fa l’uomo irreligioso». Si delinea così il duplice dramma di Pasolini, rappresentato da un lato dall’infanzia arcaica perduta, con il suo profumo religioso, e dallaltro dalla crisi del mito del sottoproletariato, non più libero, ma corrotto e in qualche modo vile, in balìa anch'esso, come tutti, del sistema borghese. Una disillusione, quella del poeta, che è per lui una sconfitta personale e collettiva, senza scampo, anche se l’ultimo testo della sezione, intitolato Appendice alla «Religione»: Una luce (1959) si conclude con un’affermazione tremenda e dolce insieme, contraddistinta ancora una volta da un ossimoro: «non c’è mai / disperazione senza un po’ di speranza». Questo testo finale risulta davvero vibrante di commozione e tenerezza perché riguarda la figura della madre, in una confessione non immune da sensi di colpa e pervasa dal riconoscimento di un bene segreto, intimo: «so che una luce, nel caos, di religione, / una luce di bene, mi redime / il troppo amore nella disperazione...». Evidentemente il poeta, dopo lo sdegno e la rabbia precedenti, ha sentito il bisogno di trovare, nel buio della sua solitudine e della sua disperazione, una luce. E questa luce viene dalla madre: «La casa è piena delle sue magre / membra di bambina, della sua fatica»; «una pietà così antica, / così tremenda mi stringe il cuore, / rincasando, che urlerei, mi toglierei la vita»; «Tutto intorno ferocemente muore, / mentre non muore il bene che è in lei». È un testo che prefigura la morte di entrambi, «in un silenzio stento e povero», ma che è testimonianza di un amore struggente verso la madre, la quale incarna per l’autore una purezza destinata a rimanere: «nella dolcezza del gelso e della vite / o del sambuco, in ogni alto o misero / segno di vita, in ogni primavera, sarai / tu; in ogni luogo dove un giorno risero, / e di nuovo ridono, impuri, i vivi, tu darai / la purezza». 
Questo è il Pasolini poeta che raggiunge i risultati più alti, come nelle raccolte La meglio gioventù del 1954, comprendente le Poesie a Casarsa, e Le ceneri di Gramsci del 1957, non quello dell’invettiva, della rabbia o del risentimento personale presenti soprattutto negli epigrammi della seconda sezione del libro. Pure i testi dell’ultima parte, intitolata Poesie incivili (aprile 1960), appaiono meno rilevanti, anche se merita una citazione la poesia Il glicine, che attesta ancora una volta la solitudine del poeta e la scissione insanabile tra il corpo e la storia, nonché la rabbia dellanima nella ferocia del mondo.
La religione del mio tempo è una raccolta assai composita, con esiti di diverso livello, che rivela una sorta di ambiguità o bipolarità tormentata presente nella scrittura di Pasolini (riscontrabile del resto anche nella narrativa), tra momenti lirici e assai intensi e altri più aspri e crudi, fino alladozione di un linguaggio variegato e sovente ibrido, come dimostrano le raccolte successive, in particolare Trasumanar e organizzar del 1971. 
In ogni caso, e per concludere, non sembra lecito considerare La religione del mio tempo un esempio di poesia in cui sarebbe protagonista solo la storia del nostro Paese, perché ciò non coglie i motivi più interni dei principali componimenti, che sono la testimonianza di una dimensione esistenziale, introspettiva e tragica dell'autore. Pasolini, in fondo, si è sempre sentito in opposizione alla storia, ferito e tradito da essa, deluso e sempre solo, in cerca di una comunità e di unappartenenza che non ha mai trovato.

Mauro Germani

A proposito di Pasolini, su questo blog:

Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini

L'usignolo della Chiesa Cattolica

Riapparizione poetica di Roma